Fuoco sotto. Fuoco sopra. Capitolo 7

Romanzo culinario d’appendice bisettimanale e d’appendicite cronica di M. Gavio Fano Galt…

 

Capitolo 7

 

Anche se punge le dita con la sua corazza appuntita,        

una volta tolto il guscio sarà un morbido riccio.”

(Marziale, Epigrammi XIII 86)

 

 

 

Eligio: “Raniero ti ricordi quando con Ciuffo andavamo a mare?”.

Raniero: “Si. Che giornate fantastiche”.

Eligio: “Sole, mare, sale”.

Raniero: “Sforbiciate volanti giocando a calcio sulla spiaggia, corse a perdifiato sulla battigia, tuffi dagli scogli”.

Eligio: “Apnee, immersioni, nuotate … sempre più lunghe, sempre più profonde, sempre più a largo”.

Raniero: “I tuffi. Mamma mia i tuffi. Scogli viscidi e appuntiti. Spazi al limite”.

Eligio: “Ciuffo ci sfidava. Era una gara impari. Lui così estremo in quella ricerca di estasi e di estetica”.

Raniero: “Ciuffo era elegante anche quando riemergeva con dei ricci …”.

Eligio: “ … a mani nude, senza scomposta frenesia o elettrico timore”.

Raniero: “Sosteneva di sapere distinguere dal colore ricci maschi da ricci femmine. Sosteneva, altresì, che i ricci femmina sono quelli commestibili.”

Eligio: “Però Shapiro, suo fratello di sangue, meno effervescente … più attendibile, aveva approfondito. Non voleva smentirlo. Non lo avrebbe mai fatto. Ogni tanto cercava di sgusciare dalla dimensione del germano minore affilando le deduttive armi concorrenziali della sapienza”.

Raniero: “Si. Shapiro mi era affine caratterialmente.”

Eligio: “Con il cipiglio di un provetto biologo affermava che non esistono ricci ermafroditi e il loro sesso non c’entra nulla col loro colore”.

Raniero: “… mentre ci faceva notare che non sono le uova ad essere mangiate ma le gonadi … le ragazze, tranne una,  si erano già allontanate per applaudire al tuffo da verticale di Ciuffo. Alla ragazza rimasta, alla unica ragazza rimasta, come dono, Shapiro insegnava il segreto per riconoscere maschi e femmine dei ricci”.

Eligio: “Una iniezione di acqua di mare. Se femmina apparirà un liquido rosso-arancio dalla parte superiore del corpo; se maschio, bianco.”

Raniero: “Shapiro ci lasciava a bocca aperta”.

Eligio: “Ciuffo ci lasciava a bocca asciutta”.

Raniero: “Il pescato lo ributtava in mare”.

Eligio: “Meno male che era circondato di ragazze”.

Raniero: “Bello, impavido, paraculo”.

Eligio: “Appunto. Ci lasciava a bocca asciutta. Le ragazze erano tutte per lui. Ti ricordi di quella ragazza catanese di nome …”

Raniero: “Aita…”

Eligio: “Ricordo meglio la cucina di casa sua. Gli altri ricordi … li custodisce Ciuffo”.

Raniero: “Questo Ciuffo scapigliato. Meno di un quarto di vita media insieme sufficienti a tracciare un destino di fraterna eternità”.

Eligio: “Dice Coelho che … ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!”

Raniero: “Canciamu discussi. Quello che ricordo di Aita è che quello che ho mangiato da loro non lo avevo mangiato prima … non l’ho mangiato dopo”.

Eligio: “Piatti semplici, veloci e prelibati”.

Raniero: “Piatti della cucina di mare isolana più verace”.

Eligio: “ … mascolini;  occhi di bue alla brace …”.

Eligio: “Spaghetti con le patelle …”

Raniero: “e il mauro, un’alga che si forma – pare – in esclusiva sulla linea di marea delle rocce vulcaniche della costa etnea”.

Eligio: “In aggiunta … le sontuose linguine ai ricci”.

Raniero: “I ricci invero li ho rimangiati ma non così buoni”.

Eligio: “Infine, bottarga”.

La ‘pasta chi masculini’ è un primo piatto sia di terra che di mare.

I mascolini nel catanese sono le alici. I masculini vengono anche spesso preparati alla marinara con aceto di mele, e con l’aggiunta di olio extravergine, uno spicchio d’aglio, sale, pepe nero, origano e prezzemolo; da non confondere con i masculini marinati, che invece vengono lasciati a macerare nel succo di limone e – infine – conditi anche con peperoncino rosso.

Nella pasta ai mascolini sono associati il pungente finocchietto selvatico, la dolcezza della “passolina”, la croccantezza dei pinoli, la nota tostata del pangrattato ‘atturratu’. A piacere anche la salsa di pomodoro.

In una casseruola occorre mettere a bagno il finocchietto, che una volta cotto andrà prelevato con la ‘ schiumarola ‘ e triturato per soffriggerlo con la cipolla bionda e i mascolini eviscerati e aperti a libello. Quindi aggiungere la salsa. Pepare. Salare poco e niente. Contemporaneamente, nell’acqua di cottura del finocchietto occorre calare la pasta, che dovrà finire di cuocere in padella con il sugo realizzato, aggiungendosi alla fine e la passolina (lasciata intenerire in acqua tiepida e strizzata) e i pinoli. Servire, registrata la sapidità complessiva, con la mollica di pane raffermo abbrustolito e – se si vuole – con una manciata di prezzemolo tagliato finemente.

Costo bassissimo come basso è il costo di ogni pietanza a base di pesce azzurro del Mediterraneo.

Costosi sono, invece, gli .

La loro pesca richiede abilità. Bisogna immergersi in apnea oltre i 5 metri, capovolgere pesanti massi e staccare gli abaloni dalla roccia a cui sono avviluppati. Un antipasto con occhi di bue alla brace e conditi con un “salmoriglio” di olio prezzemolo e poco limone sono una goduria.

Una leccornia sono le linguine ai ricci. Profumo di mare (della sua salute e della sua bellezza) in purezza.

Il procedimento prende le mosse dal tagliare a metà i ricci raccogliendo con delicatezza le gonadi.

In una padella, in generoso olio evo, rosolare l’aglio tritato privato del germoglio  (o l’aglio intero in camicia) e aggiungere qualche cucchiaino del tesoro protetto dagli aculei (curando che non si addensi  e raggrumi). Poi sfumare con il vino, leggermente salare e togliere dal fuoco unendo l’acquetta rinvenuta nei ricci.

Scolare al dente le linguine (cotte in abbondante acqua salata) e  saltarle con l’olio soffritto, il pepe anche bianco tritato al momento, la restante polpa cruda dei ricci e due/tre cucchiai dell’acqua di cottura affinché l’amido della pasta sollecitato contribuisca ad una omogenea cremosita’ del piatto. Altra corrente di pensiero suggerisce alcun soffritto ma solo un lungo insaporimento delle gonadi in olio, aglio, peperoncino e prezzemolo spadellando la pasta a fuoco spento.

Linguine, spaghetti, altra pasta lunga si prestano per altro primo piatto. Patelle e mauro.

Bisogna, anzitutto, pulire i frutti di mare più comuni negli scogli marini sfregando i gusci – con una retina – sotto il getto dell’acqua corrente. Sciacquare bene anche il mauro, alga ricca di minerali e vitamine.

In una padella porre le patelle con 2 cucchiai di olio e il vino e lasciar cuocere fin quando i frutti di mare non si staccheranno dal guscio, a questo punto terminare la cottura, eliminare dai frutti di mare la parte più scura della polpa e conservare l’acqua di cottura avendo cura di filtrarla bene.

Versare in un tegame 4 cucchiai di olio, il prezzemolo e l’aglio finemente tritati, lasciar quindi rosolare dolcemente.

Aggiungere i pomodorini privati dai semi e tagliati a metà e lasciar cuocere per 5 minuti, infine versare nel tegame le patelle e l’acqua di cottura tenuta da parte.

Proseguire la cottura per altri 7 minuti, trascorsi i quali aggiungere il mauro e cuocere per altri 2 minuti. Lessare le linguine al dente versarle nel sugo e ultimare la cottura.

Completare la pasta con il pepe nero macinato. Servire il piatto decorandolo con ciuffetti di mauro e qualche foglia di prezzemolo.

Infine, volendo provocatoriamente ‘sconcicare’ il sistema nervoso dei puristi si propone una rotonda, cerchiobottista, aromatica, sapida e sinfonica pasta con vongole, zucchine, zeste (ppi non parrari anglisi  francisi trattasi di bucce) di limone e bottarga. Quest’ultima può essere di muggine (cefalo), tonno rosso, pesce spada.

La bottarga di tonno è stata inserita, dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, tra i Prodotti agroalimentari della tradizione sicula.

Una pasta che – come facilmente intuibile – si scompone in primi piatti di straordinaria classicità. Gli spaghetti sono resi aromatici dal profumo delle zeste di limone.

Nella preparazione occorre tagliare le zucchine (quelle verdi) a strisce sottili per lungo (conservandone la parte centrale) ovvero a julienne (ricavate dalla sola parte esterna) magari precedentemente marinate in olio, limone e aglio. Occorre anche fare spurgare le vongole e dopo averle lavate, disporle in una padella con uno spicchio di aglio, i gambi di prezzemolo e un filo di olio. Coprire, rigirare di tanto in tanto, togliere dal fuoco non appena aperte, eliminare quelle rimaste chiuse, filtrare con colino a maglie fittissime, mettere da parte l’acqua rilasciata, estrarre i molluschi dal guscio conservandone una parte intere per fatto (non solo) decorativo. La vista aiuta ed esalta gli altri sensi. Continuare nella padella con nuovo filo di olio, aglio in camicia, facoltativamente peperoncino fresco tritato e fare soffriggere con l’aggiunta del liquido ricavato dalla cottura/apertura delle vongole e di prezzemolo tritato. Fare restringere il sugo da insaporire inserendo le vongole sgusciate. “Allegare, infine, la scorza di limone,  le zucchine (precedentemente marinate ma che potrebbero essere anche lasciate crude purché tagliate sottilissime) e … mantecare il tutto con la pasta cotta al dente in acqua salata da servire con una abbondante spolverata di bottarga, prezzemolo e pepe nero.

Eligio: “Che piatti”.

Raniero: “A casa di Aita, suo padre parlava con i commensali abitudinari di politica”.

Eligio: “Certi discorsi animati. Parlavano degli equilibri della Balena Bianca”.

Raniero: “Piuttosto si lamentavano. Erano amici di deputati e senatori DC di Catania.”

Eligio: “Aveva motivo di dolersi?”.

Raniero: “A loro, talvolta, un sottosegretario. A Messina, Nino Gullotti circa dieci volte ministro”.

Eligio: “Aveva il 41% delle tessere di partito in Sicilia”.

Raniero: “Fu ministro dei governi Andreotti, Moro, Rumor, Craxi, Fanfani”.

Eligio: “Lavori pubblici, partecipazioni statali, sanità, poste e telecomunicazioni, beni culturali e ambientali”.

Raniero: “Mamma DC.”

Eligio: “C’era una volta la Dc. Ma non ritornerà”.

Raniero: “ È il titolo di un commento di Gianpaolo Pansa”.

Eligio: “Ha dichiarato di recente che Salvini è un fascista …”.

Raniero: “ … e che Renzi è un bullo”.

Eligio: “Cosa diceva in quel commento da bestiario?”

Raniero: “Che nel corso degli anni ha visto Mamma Dc super-potente, poi in declino, quindi in agonia e infine ghermita dalla morte. Nel tempo del trionfo, la Dc comandava con il pugno di latta nel guanto di lanetta. Il suo regime c’era. Però apparteneva al genere soffice, bonario, segnato da una voracità cautelosa, pronta più alla mancia che al randello. Esistevano delle eccezioni a questa regola, e le vedremo. Ma il suo potere, esercitato per decenni senza antagonisti in grado di batterlo, aveva finito con il diventare una rete a maglie larghe. Dove pure chi si opponeva, il Pci per primo, non aveva motivi per iscriversi alla categoria dei martiri. Se ripenso al mio lavoro di cronista della Balena bianca, la memoria mi restituisce il ricordo di un partito tollerante. Potevi scrivere le peggiori cose sulla Dc, però nei loro santuari, nei consigli nazionali, nei congressi, ti accoglievano sempre con il tappeto rosso e il sorriso sulle labbra. La battuta più cattiva me la scoccò Giulio Andreotti, quando mi sorprese nell’atrio di piazza del Gesù mentre prendevo degli appunti stando in piedi: “Ma che fa? Le contravvenzioni?”.

Qualcuno mi chiederà: era tolleranza o menefreghismo da super-potere? Era l’una e l’altro insieme. La Dc possedeva tutto. E poteva contare su tutti. I preti e la polizia. La Confindustria e la burocrazia statale. I magistrati e la Coldiretti. La sanità e le Casse di risparmio. I servizi segreti e la Confcommercio. Nelle aziende pubbliche faceva quel che voleva. Andava così all’Iri, all’Eni, nelle banche di Stato, alla Rai. Già, la Rai! In quel tempo, ci comparivi soltanto se la razza mammona ti firmava il passi. Un timbro indispensabile anche per chi ambiva a dirigere giornali pubblici.

Soltanto in seguito, qualche lotto sarebbe stato appaltato al Psi e al Pci, non sempre con esiti memorabili. Era la tecnica della mancia. Che poteva produrre effetti mostruosi quando veniva applicata alla spesa pubblica, ossia ai conti dello Stato. Qui Mamma Dc aveva escogitato una teoria speciale: il bilancio è come un mercato. Dove tutti possono servirsi a prezzi di favore e talvolta senza pagare. Qualche Cassandra strillava: in questo modo andremo tutti a fondo! La Balena bianca domandava: quando accadrà?, domani, fra un anno, fra dieci? Ma domani sarà un altro giorno. Dunque, che la festa continuasse pure. Con l’avallo tacito dell’odiato avversario comunista, i senzadio dell’Elefante Rosso. Felici di chiudere entrambi gli occhi. E di compensare così la propria impotenza a scalzare i maledetti dicì. Sarebbe una iattura rimettere al mondo un partito siffatto. Ma comunque chi volesse cimentarsi in questo esperimento da dottor Frankenstein, troverebbe un ostacolo insormontabile. Che non è la mancanza dei voti democristiani. Quelli esistono ancora, dispersi in tutto l’arco politico. A non esserci più sono gli uomini che, nel bene e nel male, avevano reso grande la Balena. Ossia i capi democristiani di cui si è persa la memoria. Gli esemplari decisivi della razza mammona. Dei giganti …Tutti imparagonabili ai prototipi che adesso ricorderò. Tentando una classificazione arbitraria, ma spero chiarificatrice. Comincerei con i Sedanti, dal verbo sedare, tenere tranquillo il cittadino qualunque, il popolo bue. Fu questa la magia della Dc, partito non ansiogeno per vocazione. Da quanti ho sentito dire: voto dicì perché mi fa vivere in pace! Del resto, era quel che prometteva l’inno della Balena, in una strofa poco conosciuta: “O bianco fiore / simbol d’amore / con te la pace /che sospira il cor!”. Rammento dei Sedanti formidabili. Come Arnaldo Forlani, il Coniglio Mannaro. O Mariano Rumor, tutto il contrario del suo cognome. E poi Emilio Colombo, tanto serafico da stare ancora su piazza all’età di 84 anni. E naturalmente il leader più grande e tragico, Aldo Moro.

Tra i Gatti di Marmo, i capi dal forte potere mai esibito, anzi sempre celato, spiccava Toni Bisaglia. Una bestia da combattimento, però con l’aria del gattone da sacrestia. Freddo, astuto, formidabile nella manovra politica come negli affari. Partendo dalle nebbie di Rovigo, era diventato uno dei re della foresta dorotea. Un giorno mi disse: “Non farò mai il segretario della Dc, ma sarò sempre uno dei pochi che lo decidono”.

Un altro micione era Nino Gullotti, il principe di Messina, anche lui fedele di Santa Dorotea. Calvo, pallido, silenzioso e scapolo, veniva chiamato “il Santo”. Dicevano di lui: “Il Santo ha sposato la Dc”. Possedeva il 41 per cento di tutte le tessere bianche di Sicilia.

Erano un titolo al portatore. Potevano essere consegnate a chiunque. A parenti stretti. A emigrati. A defunti. A vivi pescati a caso sull’elenco del telefono. Zeppo di tessere era anche Remo Gaspari, pacioso ras dell’Abruzzo. Un ras ben celato mi sembrava pure Paolo Emilio Taviani. Andai a trovarlo nella casetta di Bavari, sopra Genova, un arredo da canonica di campagna e il ritratto di Don Bosco alla parete. E lui esclamò subito: “Ah, che bella donna è il potere!”.

Venivano poi gli Infuriati. Il capofila era Amintore Fanfani. Sempre agitato al limite della furia mi appariva Flaminio Piccoli. E come scordare Carlo Donat Cattin? Un combattente solitario, ai congressi senza truppe cammellate. Sapeva guardare lontano, questo torinese scabro. E fu uno dei primi a intuire che la marcia trionfale della Balena sarebbe diventata una marcia funebre. Ringhiava: “La Dc sta finendo. Ormai l’uccello padulo vola all’altezza del culo…”.

Tra i Velleitari, con aspirazioni buone, ma spesso eccessive e confuse, metterei Francesco Cossiga. Noi cronisti carogne gli dobbiamo l’onore delle armi: sopportava tutto, senza una querela o una causa civile. Però il campione vero era Ciriaco De Mita. Tanto fiducioso di se se stesso da leggere una relazione congressuale di sei ore. Prima di un’intervista esordiva così: “Tu non mi capisci, non puoi capirmi”. Tutto l’opposto del numero uno delle Anime Buone: Benigno Zaccagnini, segretario nei giorni del sequestro Moro, dilaniato tra l’affetto per il capo prigioniero e il dovere della fermezza.

 

Adesso siamo alle Tigri, i duri capaci di azzannare. Salvo Lima, quasi muto, inavvicinabile, padrone di Palermo e finito accanto a un cassonetto dell’immondizia, assassinato da un commando mafioso. Il suo avversario Giovanni Gioia, sei volte deputato e ministro. Anche lui ti fissava in silenzio, con occhi a biglia chiari e freddi. Mascella quadrata. Labbra carnose. Il doppiopetto gessato come il professore tedesco di “Giungla d’asfalto”. Alberto Alessi, della sinistra dicì, mi chiese: “Ha notato lo sguardo di Gioia? È vitreo e fecondativo di pensieri strani”. E poi Antonio Gava, un sovrano assiso sul golfo di Napoli. Si atteggiava a intellettuale. Gli domandai: “Qual è l’ultimo romanzo che ha letto?”. Lui mi spiazzò, sogghignando: “La mia vita è un romanzo. Ci sta di tutto. Ecco, io leggo quello!”.

E infine l’Inclassificabile: Andreotti. A 85 anni, siede ancora a Palazzo Madama, senatore a vita, profilo da uccello, ingobbito sotto un carico di misteri che non ci rivelerà mai. Chissà se rimpiange la sua ombra, Franco Evangelisti. Era un altro campione di astuzie. Sempre generoso anche con i cronisti che sapeva poco benevoli con il suo capo. Al contrario di De Mita, diceva: “Vieni qui che ti aiuto a capire, testa di c…”. Di solito lungimirante, una volta sbagliò, spiegandomi: “La Dc governerà fino al Duemila, perché sò stronzi gli altri!”.

Allora il Duemila sembrava lontanissimo. E tutti i capi della Balena si credevano immortali. Neppure il declino personale incrinava la loro fiducia d’acciaio. Quando già non contava più nulla, Rumor proclamò: “Noi dorotei siamo come la foresta amazzonica: più ne tagliano, più ne cresce”.

Eligio: “Nostalgico?”.

Raniero: “No. Ti rispondo come quel commento del 2004. Ricostituire la DC? Non scherziamo”.

Continua…