
di Andrea Filloramo
Per la costruzione del Ponte sullo Stretto c’è una certa fretta nell’aria, che non può essere quella dei cosiddetti “ferribotti ” – cosi a Messina vengono chiamati i traghetti – che in molti periodi dell’anno passano da Villa San Giovanni a Messina in soli 20 minuti, cioè il tempo per salire a prua, prendere un caffè o gustare una granita o un arancino e poi vedere affacciarsi la Madonnina del Porto, un’icona che incarna l’anima della città e il suo profondo legame con il mare e godere di uno spettacolo che colpisce l’immaginazione.
Da decenni, infatti, il Ponte sullo Stretto di Messina è una promessa che ritorna come una marea: ogni governo ne annuncia la rinascita, ogni crisi economica ne segna la sospensione per un intreccio di motivi politici, economici, tecnici, ambientali e sociali.
Oggi, il progetto sembra di nuovo al centro del dibattito politico e mediatico, tra entusiasmi e scetticismi ed è diventato quasi un simbolo del divario tra visioni di sviluppo opposte.
Il governo Meloni ha fatto del Ponte uno dei suoi progetti “bandiera” nel campo delle grandi opere. Nel 2023 è stata ricostituita, infatti, la “Società Stretto di Messina S.p.A.”, già liquidata nel 2013, e riattivato il progetto definitivo del 2011 con l’obiettivo di iniziare i lavori nel 2025.
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini è il principale promotore politico; egli sostiene che il ponte “unirà finalmente l’Italia”, generà molti posti di lavoro, grandi investimenti e avrà un effetto simbolico di unità nazionale.
Non è stata, però, sempre questa la sua posizione: nel 2016, parlando del Ponte, ha avanzato perplessità sui costi, sull’ utilità e sulla fattibilità e ha così “sentenziato”: “non sta neanche in piedi, prima di investire in un’opera così grandiosa è necessario mettere in ordine la rete ferroviaria e le infrastrutture locali” e nessuno allora gli ha dato torto.
Da qualche tempo, Salvini, che è ben noto per le sue posizioni modulate a seconda del contesto politico o dell’agenda mediatica, spinto dal desiderio di mettere un’ipoteca sulla sua carriera politica e di costruire un monumento a se stesso, si è convertito totalmente al Ponte, tanto da diventare un suo fanatico e accanito sostenitore.
Il governo poi, guidato da Giorgia Meloni, che sa come parlare alla pancia del Paese, come spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi quotidiani e come dare l’impressione di una leadership forte e lungimirante, pur sapendo che quella del Ponte è solo un’opera simbolica e visionaria, che la sua realizzazione effettiva, quindi, è lontana e complessa, facendo leva su un progetto identitario, ne ha approvato il progetto.
In questo senso, perciò, il ponte è diventato così una “coperta politica”, utile a nascondere l’incapacità di affrontare riforme strutturali o a rinviare decisioni impopolari. È questo un classico caso di “politica simbolica”: il progetto, cioè, esiste più nel discorso che nella realtà.
Così, tra iter approvativi e annunci mediatici, il Ponte sullo Stretto è un simbolo di potenza evocativa — l’eterna promessa di collegare due sponde — ma, per ora, non più di una visione sospesa nell’aria che continua, perciò, a esistere, non nel paesaggio reale ma nei discorsi politici che si continuano a fare, giacché la
politica, in senso alto, vive di immaginazione, di domande da fare, di parole che orientano il desiderio collettivo, che indicano una direzione, anche se non percorribile.
Senza visioni — anche “irrealistiche” — non nascono, infatti, progetti alternativi, non si scuotono le inerzie, non si accende la speranza. In questo senso, il discorso politico “che precede la realtà” è una forma di profezia civile.
Ci chiediamo, pertanto: “A cosa serve un Ponte se resta deserto tutto ciò che dovrebbe collegare?”; “E’ sufficiente innalzare piloni e gettare travi di cemento tra due sponde se le strade, le persone, i sogni non viaggiano su quel ponte?”; “La vera connessione si misura in metri di asfalto o in relazioni, in lavoro, in cultura, in opportunità che spingono chiunque a attraversarlo?”
Una cosa è certa: un ponte vuoto è un monito; la grandezza di un’opera si rivela solo quando diventa vita e non ornamento. Un ponte, per definizione, serve a collegare due sponde: persone, merci, economie. Il Ponte sullo Stretto, però, rischia di diventare un simbolo più che un’infrastruttura se tutto ciò che dovrebbe collegare (ferrovie, reti locali, porto, economia, persone e cultura ) resta insufficiente.
Il Ponte, per il Mezzogiorno, non è la bacchetta magica capace di cancellare decenni di ritardi infrastrutturali, di diseguaglianze economiche, di migrazioni giovanili.
Costruire, quindi, il Ponte senza un piano organico di sviluppo significa rischiare un monumento all’illusione più che un simbolo di progresso. Servono, infatti, collegamenti ferroviari efficienti, investimenti stabili nella scuola, incentivi per la ricerca e per le imprese locali. Altrimenti il ponte finirà per unire due rive che restano povere e isolate, anche se più vicine sulla carta. Il Sud non ha bisogno di un’opera che lo “attraversi”, ma di una visione che lo coinvolga.
A Messina si parla del Ponte come di un destino già scritto, ma si sa che è una storia decisa altrove, tra scrivanie e proclami, più che tra le voci della gente che vive le due sponde. Il Ponte è diventato una promessa che non chiede consenso, solo rassegnazione. E così il destino si confonde con la retorica, mentre il Sud continua ad aspettare treni, scuole, ospedali, e un futuro che non dipenda da una sola campata. Parlare del Ponte di Messina come di un’opportunità storica è facile; meno facile è guardare a ciò che accadrebbe nel frattempo.
Per almeno dieci anni, Messina vivrebbe una condizione di paralisi diffusa, un corridoio di mezzi pesanti e lavori infiniti, dove la vita quotidiana verrebbe sacrificata all’altare del “progresso, un limbo, quindi, fatto di cantieri, deviazioni, polvere e incertezza. Interi quartieri verrebbero espropriati, demoliti o tagliati fuori dalla mobilità ordinaria. Il tessuto urbano si spaccherebbe: strade interrotte, servizi pubblici ridotti, turismo in crisi. Gli investimenti promessi difficilmente compenserebbero il blocco delle attività locali. Il commercio di prossimità, già fragile, rischierebbe di spegnersi sotto il peso dei disagi. I lavoratori non direttamente coinvolti nei cantieri vedrebbero crescere la precarietà, e i giovani continuerebbero a partire.
Un ponte in costruzione non porterebbe sviluppo ma lo congelerebbe. Messina diventerebbe una città sospesa tra distruzione e attesa. L’identità collettiva, già segnata da promesse mancate, rischierebbe di ridursi a una lunga attesa di qualcosa che non si può ancora attraversare.
L’immagine del Ponte – nata per unire – si trasformerebbe in metafora di separazione: tra passato e futuro, tra chi crede e chi subisce.