Luigi Di Maio e il neocolonialismo francese

Il vicepremier Luigi Di Maio, in una sua esternazione, ha affermato in modo categorico che il neocolonialismo francese, attraverso il franco CFA, sprema i Paesi africani a tal punto da impoverirli e da costringere i suoi abitanti a migrare….

 

di ANDREA FILLORAMO

Il vicepremier Luigi Di Maio, in una sua esternazione, ha affermato in modo categorico che il neocolonialismo francese, attraverso il franco CFA, sprema i Paesi africani a tal punto da impoverirli e da costringere i suoi abitanti a migrare.

Egli, infatti, parlando ad Avezzano, in provincia dell’Aquila proprio del naufragio davanti alle coste della Libia, cinicamente disse: “Sui morti in mare vedo molte lacrime di coccodrillo. Se vogliamo continuare a parlare di effetti continuiamo a parlare della retorica sui morti in mare, che ovviamente è una tragedia e hanno tutto il mio cordoglio. Ma io ho smesso di fare l’ipocrita parlando come gli altri solo degli effetti e ho deciso di cominciare a parlare delle cause. Se oggi noi abbiamo della gente che parte dall’Africa è perché alcuni paesi europei con in testa la Francia non hanno mai smesso di colonizzare l’Africa. Ci sono decine di stati africani in cui la Francia stampa una propria moneta, il franco delle colonie, e con quella si finanzia il debito pubblico francese”.
Da osservare che prima che Di Maio facesse questa affermazione, che ha scatenato le ire del governo francese, pochi conoscevano il franco CFA che è uno dei pochi esempi di moneta unica in circolazione nei paesi africani ex colonie francesi, collegato al franco francese già prima della decolonizzazione degli anni 50 e 60, che dal 1999, anno in cui è subentrato l’euro, è strettamente legato all’euro da un cambio fisso.
Chiunque facilmente, quindi, comprende che quanto dice Di Maio sul franco CFA, che lui ritiene la causa dell’emigrazione e dell”impoverimento degli africani è sicuramente pretestuoso, giacché si tratta sostanzialmente dell’Euro per uso e consumo delle ex colonie francesi che favoriscono lo scambio e il commercio.
Basta, infatti, dire che tra gli oltre 23mila migranti sbarcati in Italia nel 2018, quelli provenienti dai Paesi che usano tale moneta siano meno del 9 per cento.
Altre quindi, sono le cause, che, a dire il vero, Di Maio non esclude, della fuga di tanta gente dalle terre in cui ci sono la guerra, la miseria, la fame. Tali fenomeni hanno la loro matrice nel neocolonialismo, che non è però solo francese. Che la Francia abbia molteplici interessi economici nel continente, tutti lo sanno, ma la Francia non è l’unico Stato a coltivare interessi in terra africana.
A nessuno sfugge certamente l’importanza che ha avuto l’Impero coloniale francese costruito tra il diciassettesimo e il ventesimo secolo dalla Francia, con colonie in Asia, Africa e America settentrionale, oltre che in Oceania.
Ma vediamo quel che avviene oggi e diamo, quindi, un rapido sguardo al Niger, la cui colonizzazione francese si è completata nel XIX secolo, quando l’attuale territorio venne a far parte dell’Africa Occidentale Francese fino al 3 agosto 1960 (data dell’indipendenza) quando il Niger divenne una repubblica presidenziale.
Il Niger è strategico per la sua posizione geografica (tra Mali, Burkina Faso, Libia e Nigeria), dove si vedono forti partecipazioni dell’imperialismo francese (di cui era colonia), “soprattutto per lo sfruttamento delle miniere di uranio di cui è quinto produttore al mondo, soddisfacendo il 50% del fabbisogno francese attraverso la multinazionale Areva”.
Come in altri paesi africani, oltre il 60% del popolo vive, si fa per dire, sotto la soglia di povertà, mentre appunto l’Africa è ricca non solo di uranio, ma pure di petrolio (Total e Shell su tutti), diamanti, oro, che rappresentano un affare nel quale si intrecciano gli interessi non solo dei francesi, ma anche degli americani, dei tedeschi, dei russi, dei cinesi e anche degli italiani.
Tutte queste nazioni, quindi, e non solo la Francia, producono miseria e morte, dietro il criminale paravento di “rilanciare lo sviluppo dei paesi della regione sahelo-sahariana”, combattendo “la minaccia dei gruppi terroristi jihadisti, i flussi migratori e i trafficanti di esseri umani” e cercando di “arginare insieme la tratta di esseri umani e il traffico di migranti che attraversano il Paese, per poi dirigersi verso la Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste”
Si dica in termini molto chiari che in Italia, al di là del disagio che una immigrazione selvaggia, non controllata, indubbiamente crea di cui l’Europa si deve necessariamente far carico, la politica non può essere un’ipocrita e vile retorica anti-immigrati, che cavalca la tigre di un populismo becero, con cui si gonfia il cosiddetto “interesse nazionale”, senza pensare che in generale esso si può anche tradurre in difesa o può diventare scudo degli interessi delle aziende produttrici di armi, di compagnie energetiche e minerarie.
Ricordiamo che l’Italia non è stata estranea al colonialismo; ha avuto in Africa un passato coloniale di cui purtroppo oggi non si parla, sul quale nelle scuole si sorvola, di cui siamo obbligati a pagare ancora i danni procurati anche forse attraverso un’accoglienza che, in ogni caso, non può mancare a chi bussa alla nostra porta, a chi cerca di raggiungere un nostro porto, a chi chiede insistentemente d’essere aiutato quando per giorni teme che da un momento all’altro un’onda del mare possa inghiottirlo.
Rammento a chi da studente ha studiato la Storia che, nell’inverno del 1929/30, l’Italia diede inizio alla riconquista dell’ex-colonia libica. Secondo le ricerche degli storici le forze militari italiane uccisero allora oltre 40.000 persone, vittime perché in colpa d’essere libici, su una popolazione totale di 800.000 persone.
Pochi sanno o non vogliono sapere che nel 1935 l’Italia, inoltre, iniziò un attacco massiccio contro il regno etiope. Usando come base la colonia eritrea, conquistata già nel 1887, l’Italia impiegò contro l’Etiopia truppe ausiliari eritree, oltre mezzo milione di soldati italiani e gas nervini.
Il governo etiope del dopoguerra calcolò più di 730.000 morti, mentre storici italiani stimano le vittime del colonialismo italiano dal 1887 al 1941 in oltre 300.000 persone.
L’Italia democratica del dopoguerra non solo non ha rintracciato una qualsiasi forma di riparazione dei misfatti operati in Africa del Nord ma non ha mai incriminato i criminali di guerra fascisti e fra questi i facitori delle guerre e delle violenze perpetrate nei confronti dei libici, dei somali e degli eritrei.
Anni fa la giornalista Fiamma Nierenstein ha criticato la rimozione dei crimini di guerra fascisti in Africa a favore della cosiddetta pacificazione e lo storico Giorgio Del Boca ha accusato l’Italia del dopoguerra di aver cercato accordi con i dittatori in Libia, Somalia e Etiopia.
Finora l’Italia ha però volutamente dimenticato di riconoscere prima e successivamente di riparare persino i propri crimini di guerra. Dei 5.594 condannati, 5.328 sono stati assolti o hanno beneficiato di un’amnistia in un secondo momento. Dopo 20 anni di fascismo, nel 1952 risultarono esserci solo 266 colpevoli di crimini di guerra.
Nelle liste dei criminali di guerra della Commissione per i crimini di Guerra dell’ONU risultavano 1.200 italiani responsabili di massacri in Libia (tra 40.00 e 80.000 morti per deportazione; 20.000 profughi su 800.000 abitanti), in Etiopia (tra i 300.000 e 730.000 morti uccisi), in Slovenia (12.000 morti e 40.000 deportati). Lo storico Giorgio Rochat accusa l’Italia fascista di aver perseguito una politica del genocidio ma nessun responsabile del genocidio in Africa è mai stato condannato.
Concludo dicendo: dinnanzi alla protervia e alla cecità di chi ancor oggi costruisce muri, chiude i porti e dinnanzi a chi rischiando la morte, chiede soltanto, di essere accolto per sentirsi vivo, non resta altro che indignarsi.
Alla lettera, indignarsi vuol dire “togliere valore, dignità, a qualcuno o a qualcosa”. Sembra, quindi, un’emozione soggettiva, personale, ma è in sé già sociale, anzi politica: implica, infatti, tanto un soggetto indignato, quanto un oggetto della sua indignazione, nonché un contesto civile di altri soggetti non indifferenti; a essi l’indignato segnala che ciò che in precedenza era oggetto della loro comune ammirazione, ciò a cui davano valore, ora è, invece, degno di disprezzo.
“È l’attivazione del meccanismo politico della vergogna, che pare uscito dalla scena politica moderna, sostituito da quelli dell’utile e della legge; e che, invece, è rimasto vivo, come paradigma primario della coesistenza civile, come una sorta di surplus etico dell’opinione pubblica”.