La chiesa del dogma morirà

di ANDREA FILLORAMO

Francesco De Rosa, giornalista e scrittore, nel suo Blog ha un post che ritengo interessante e che condivido e lo allego per intero e senza alcun commento, il cui titolo è: “La chiesa del dogma morirà”. Esso prende spunto da un’osservazione di Meister Eckart grande teologo domenicano del 1300, che sembra fare riferimento ai nostri giorni. De Rosa non risparmia le sue critiche alla Chiesa che spesso sembra arenarsi nelle sabbie mobili della tradizione e del dogmatismo e rischia quindi, – afferma il giornalista – di morire. Fortunatamente c’è papa Bergoglio che richiama all’ascolto del Vangelo, l’unica strada da percorrere per la sua “sopravvivenza”.

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Meister Eckart era stato chiaro. Disse, da uomo di fede e da teologo, che in nessun altro luogo Dio si trova più a disagio così come lo è nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe o in qualsiasi altro luogo di fede e di culto dove vivono fazioni e piccoli gruppi, caste, preti, monaci, frati, prelati e santoni, cardinali, suore e consacrati/e che hanno la “presunzione” di essersi elevati a Dio più dei loro simili. Così incapaci di vivere e testimoniare per davvero l’amore di Cristo e la sua misericordia. Una vicenda per nulla nuova. Secoli di storia vissuti con la presunzione di essere dalla parte della “verità”. Di più. Di esseri essi stessi la Verità. Papi, cardinali, vescovi, preti e suore, frati e diaconi, se si resta al solo ambito della Chiesa cattolica. Perché tutte le confessioni religiose che si sono costruite sul “dogma” e sul “dogmatismo” hanno covato, al loro interno, tutte le brutture della natura umana di cui siamo fatti. Le hanno disseminate ovunque, le ombre della natura umana, mistificando ad ogni passo la verità.

La storia di tutte le confessioni religiose, e più di tutte quella cattolica, è una storia tutta umana e, quindi, tutta corrotta perché fatta, vissuta ed interpretata dagli uomini e dalle loro nature ambigue. Nel frattempo, son vissuti e vivono, anche all’interno delle Chiese dogmatiche, minoranze, piccoli gruppi consacrati (pochissimi preti, qualche frate, qualche suora) che hanno fatto e fanno della libertà, della lealtà, della compassione, della fatica enorme che richiede l’essere al mondo da veri cristiani uno stile di vita. Saranno, questi ultimi, gli unici ad aver dato significato, senso e coerenza alle parole che il Vangelo riserva a chi sceglie di consacrarsi. Sottesi, come sono stati e sono, tra il sacrificio e la sofferenza, la testimonianza e la povertà, la dedizione e l’accoglienza. Sono coloro che non hanno mai abusato di un bambino o di una bambina in oratorio, né cercato incarichi o accettato lasciti in danaro e proprietà che avrebbero potuto lasciare ai loro parenti.

Sono quelli che non si sono mai messi da un pulpito a predicare, con livore, la presunzione di essere al di sopra degli altri, dei fedeli “laici” che hanno di fronte, sermoni insensati intrisi di dogma, ammonimenti e celati privilegi. Questa piccola minoranza resiste dentro una Chiesa fatta di silenzi omertosi, di privilegiati, di cardinali, vescovi, preti e suore che si fanno la guerra, si odiano senza limiti ma fingono e si fingono maestri immaginando di occultare con maestria quella chiesa marcia e dogmatica che, per fortuna, sta morendo.

Il Novecento, questo secolo inquieto e risolutore, di perdizioni e nichilismo, di relativismo e smarrimento, assieme a molte strade impervie e brutte, ha aperto anche qualche sentiero di speranza. La Chiesa del dogma morirà. E chi in essa ha trovato, in questi secoli, il modo di vivere, di vessare il prossimo, di fustigarlo, inquietarlo e manipolarlo in nome di un dio che non è Dio è destinato ad essere, a sua volta, una minoranza che, molto presto, scomparirà.

Il 20 marzo del 2000 il papa polacco, che per molti è stato un Papa dogmatico, persino lui, chiese scusa per i peccati (che non di rado furono crimini) che la Chiesa cattolica ha commesso lungo i secoli. Anche questo è stato il frutto del Novecento, di una stagione che mette tutti davanti a tutti per capire chi siamo davvero, che cosa diciamo e, soprattutto, che cosa facciamo davvero rispetto a quello che diciamo di fare. L’insulto è arrivato al capolinea.

Cadono imperi, subalternità, imposizioni di fede, ideologie narcotizzanti. Cadono scranni, poteri assoluti. Assieme ed accanto al relativismo, il Novecento ci ha lasciato un’esigenza più profonda. Ha dissacrato ruoli, disarcionato ipocrisie, inganni, finzioni retoriche e, soprattutto, la supposta autorevolezza degli autoritarismi.

Dal marzo del 2013 poi, dopo il Papa polacco e il Papa tedesco, che sembravano assai più inclini a difendere e tutelare, soprattutto, nella Chiesa la trama del principio e del dogma, è arrivato il papa argentino che ha voluto chiamarsi Francesco per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica. E ciò che sembrava, all’inizio, un azzardo per l’accostamento audace ed impegnativo, è diventato uno stile, un obiettivo: farsi umile, povero, il più possibile coerente. Così Bergoglio ha iniziato un cammino nuovo, la sua rivoluzione che ha scosso chi ha vissuto e continua a vivere, all’interno della Chiesa, dentro mille agi. Li ha fatti sentire così come sono: inappropriati, incoerenti. Li ha armati di reazioni e di ostilità.

Ha detto, sugli omosessuali e sui divorziati, di non voler esercitare alcun dogma, di non “essere nessuno” per giudicare le loro esistenze. Ha detto che l’ateo può stare molto più vicino a Dio del finto credente o del consacrato di comodo. Ha messo sul banco degli imputati i gravi peccati che la Chiesa commette al suo interno. Ha ammonito chi, nella Chiesa, non accoglie il rifugiato, chi predica solo belle parole senza operare in coerenza, chi crea distanze, chi profitta della gerarchia, chi suppone superiorità inesistenti, chi cerca solo gli agi, chi conduce una vita dissoluta all’interno della Chiesa o, al contrario, quieta perché non alza un dito per lenire i bisogni del mondo e della gente. Ha parlato delle colpe dei religiosi, ha (ri)chiesto il perdono per gli scandali nella Chiesa, per i Valdesi e per le colpe altre della storia.

Sicché, mai più di oggi, il divario tra una Chiesa che si nasconde ancora dietro il dogma (lontana dal mondo e dalla gente) e una Chiesa militante che ha compreso l’urgenza di farsi ultima, di capire e “fare i conti” con i mutamenti del mondo che cambia si è fatto più ampio, più evidente.

L’invito ad accogliere tutti, a farli sentire come e più vicini a Dio di chi Dio pensa di saperlo “predicare” bene è spesso disatteso. Ancora troppi preti, parroci, suore, vescovi e cardinali vivono dentro una Chiesa già morta. Quella del potere temporale, di consacrati e consacrate che non si salutano dentro lo stesso convento, attorno alla stessa mensa e non si parlano per anni ma vanno in giro (o sui social come accade ora) a predicare l’amore universale, Dio, la fratellanza e i passi del Vangelo. Morirà la Chiesa che ha fatto del “magistero” e del dogma la sua distanza con il mondo di oggi in un mondo che non giudica più dai dettami del di un magistero ma dall’umiltà e dalla coerenza di chi cerca Dio con cuore sincero assieme agli altri, in mezzo agli altri, con gli altri. Morirà quella Chiesa che non conosce bisogno né preoccupazione se una crisi economica globale o l’assenza di lavoro mina la serenità di migliaia di famiglie, di padri, madri, figli che fanno sacrifici immensi. Morirà quella la Chiesa che non sa nulla dei legami umani, delle separazioni, della precarietà di ogni amore, delle nuove e diverse famiglie che nascono o rinascono in cerca d’amore e di coerenza. Morirà questa Chiesa perché è rimasta vuota, lontano dalla gente per troppi decenni e lo è ora ancora di più in un mondo cambiato nel profondo. Morirà perché non conosce il verbo “amare”. Perché scrive prediche dove si pretende da altri (che stanno fuori) ciò che non è in grado, quella Chiesa, di vivere al proprio interno. Morirà perché sta nascendo una Chiesa diversa che sa chiedere sempre e più volte “scusa”. Una Chiesa che non sale sul pulpito ma si mette accanto, in mezzo alla gente. Pronta persino a chinarsi per baciare i piedi di politici (uomini e donne dalla pelle scura) quando in una parte dell’Africa la guerra civile continua insensata. Una Chiesa che non finge di fare cose che non fa ma decide di farle nel modo in cui scrive il Vangelo: farsi ultimi fra gli ultimi con l’esempio e la vita. Una Chiesa che, finalmente, non mente sui peccati che commette. Che non si permette di rifiutare i sacramenti ai divorziati, agli omosessuali, ai peccatori perché non li giudica dall’alto e non si mette al di sopra delle loro esistenze come fosse gelosa depositaria di quella fede dogmatica dove ha pensato di “rinchiudere” Dio.

Le teologia della Chiesa che sta nascendo ha un verbo al di sopra di tutti: amare il prossimo come se stessi e trovare in mezzo alla gente (senza gerarchia o superiorità) Dio dentro ogni storia umana. Usciranno così dalle sagrestie i preti che nelle sagrestie hanno costruito i loro uffici come fossero gli impiegati di una burocrazia che per decenni ha perpetuato riti stanchi. Dai conventi scenderanno frati e suore per cercare coloro che sono per strada e non hanno dimora. Inizieranno a confortare (come fanno ancora pochi nella Chiesa che sta morendo) quegli eroi della vita sociale sempre in prima linea per aiutare il prossimo.

Le omelie saranno affidate ogni volta a persone diverse e quando il Vangelo proporrà i passi della sofferenza umana saranno chiamati coloro che la sofferenza umana la attraversano, la confortano, la combattono: ricercatori, medici, volontari, ammalati. Chiunque abbia fatto, per uno strano destino, della sua vita, un impegno verso coloro che soffrono. E quando si parlerà di legami umani, di famiglia e di figli saranno ascoltati quelli che le famiglie le mettono al mondo e le difendono a tutti i costi. La nuova Chiesa che sta nascendo avrà una diversa catechesi dove alla retorica di chi non pratica e non conosce nulla di ciò che predica o condanna sarà sostituita, finalmente, la voce e la testimonianza di una prima linea che vivono quei tanti cristiani silenziosi che sono stati e stanno lontano dalle chiese ma hanno mille e più meriti perché fanno del coraggio una direzione di vita e fanno di Dio una ricerca infinita.