La Cartina della felicità: E le gioie semplici sono le più belle, sono quelle che, alla fine, sono le più grandi

Carissimi,

siamo pienamente immersi nel Tempo Pasquale, tempo di grazia nel quale la Liturgia ci esorta spesso a pregare l’invito del salmo 118:

Rendete grazie al Signore perché è buono

perché perenne è la sua lealtà.

Con parole semplici ed essenziali il salmista ci ricorda che la bontà e la misericordia divina sono le fondamenta di ogni lode, di ogni preghiera pura, soprattutto in questo periodo nel quale rendiamo grazie a Dio Padre, nello Spirito, per la Risurrezione del Figlio.

Questo movimento di lode e di ringraziamento non ha solo la dimensione verticale e trinitaria. Infatti, nel momento in cui rendiamo grazie all’Eterno, siamo obbligati a rivolgere il nostro grazie a ciò che Lui ha messo accanto a noi: gli amici e il creato.

San Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, afferma: “In ogni cosa rendete grazie, perché tale è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Tess 5,18). E poco prima di questo versetto illustra con una serie di imperativi quali dovrebbero essere gli atteggiamenti genuini fra i cristiani: la gioia duratura e la preghiera incessante.

La gratitudine è la capacità di apprezzare le cose che ci circondano, le persone nella nostra vita. Occorre essere attenti ai segni dei tempi, alle speranze e alle preoccupazioni soprattutto dei giovani, anello debole della nostra società; necessita rispondere in modo consapevole alla missione che viviamo quotidianamente nei nostri ambienti, nei perimetri parrocchiali e negli spazi fuori la Chiesa, per essere parte integrante del progetto di Dio.  Alcuni vedono solo i problemi e le difficoltà, costantemente insoddisfatti e incapaci di percepire le cose che accadono.

Quando apriamo gli occhi al mattino, fermiamoci un attimo e riflettiamo su tutto ciò per cui si è grati. Lasciamo che il ringraziamento si diffonda attraverso il nostro cuore, che canti sulle nostre labbra il Magnificat, che porti una luce radiosa nella nostra vita e in quella altrui.

Ciò implica una consapevolezza più profonda, ovvero quella capacità di sperimentare un senso di gioia, soddisfazione e serenità interiore.

Papa Francesco, sin dagli inizi del suo pontificato, si è rivelato uomo e ministro di gran lunga attento alle dinamiche della gratitudine. Nella catechesi del 25 Novembre 2021 ha così esortato i presenti: “Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza.

Il mondo ha bisogno di speranza e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dire grazie, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito, tutto è legato e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova”.

“Grazie” è termine minimo, ma arricchisce chi lo riceve e non impoverisce chi lo dona.

Grazie per ogni piccola cosa, che in realtà è grande: per l’ascolto, il silenzio, la cura, il rispetto, l’attenzione, la buona parola, il consiglio, la pazienza, il servizio, l’attesa, la benevolenza, il sorriso, la comprensione, la gentilezza, il tempo, la condivisione non solo dei dolori, ma anche e soprattutto delle gioie. Tanti piccoli semi sparsi nel solco della vita!

Un grazie riscalda un cuore ferito.

Dopo questa lunga introduzione, desidero spendere ulteriore parola sulla gratitudine, certamente non così efficace come quella del Papa, ma fatta da fratello che cammina con la sua comunità, membra del Cristo vivente. La mia attenzione si focalizza sulla resistenza che la società attuale nutre nell’atto stesso del ringraziare. Al fondo del modus vivendi della realtà contemporanea vi è un equivoco: il mio diritto di chiedere e il dovere degli altri di dare.

Purtroppo questo modus operandi dilaga spesso fra i giovani che non ritrovano negli adulti modelli validi di persone “grate”: non solo non vivono la gratitudine, ma neanche di gratitudine.

Nascono nell’intimo interrogativi inquietanti: Perché si è perso tale sentimento? Quale risulta essere il motivo per cui con difficoltà l’uomo del nostro tempo non è più in grado di dire grazie né a parole né con l’esempio dell’azione personale? Che cosa ha causato tutto ciò?

Forse, fra le tante motivazioni vi è anche quella della mancanza di una luce che rischiari l’interiorità di ciascuno, quella che sviluppa la capacità di apprezzare le piccole cose.

Direbbe S. Francesco d’Assisi, nella Preghiera di S. Damiano: “E le gioie semplici sono le più belle, sono quelle che, alla fine, sono le più grandi”.

Parliamo delle cose piccole, meno appariscenti, che arricchiscono l’esistenza personale.

Alla base di queste vedute “francescane” vi è un passaggio obbligato: la vita, con tutto quello che ruota attorno ad essa, non si fonda sui meriti individuali, ma è frutto di interventi generosi e solidali, di cui si è destinatari. Capisco che tale convinzione diventa inaccettabile nella nostra società che “dopo aver decretato la morte di Dio, la morte del prossimo è la seconda scomparsa della relazione fondamentale dell’uomo” (Luigi Zoia, La morte del prossimo, Einaudi, 2009, p.13).

Se avessi continuato a citare, avrei offerto l’orizzonte del perché questo autore veda la morte dell’altro proprio nella situazione di preminenza del mondo virtuale.

Oggi, infatti, comandano le immagini che sostituiscono la realtà.

In tale orizzonte diventa problematico e profetico investire nell’affettività, caratteristica che prelude alla generosità e ai benefici relazionali. E ciò deve avvenire senza alcuna strumentalizzazione dell’altro, evitando di far scattare l’opportunismo di maniera: mi conviene, sì o no?

Se incanalata nella giusta direzione, la gratitudine non solo è un approccio valido con il quale improntare i rapporti interpersonali, ma rappresenta una vera “rivoluzione” all’interno di una società sempre più superficiale, arrogante e apatica.

Essere grati non ha alcuna controindicazione, se non quella di trovarsi di fronte persone che scherniscono tale sentimento. È il gap che umanamente fa sembrare perdenti, ma che in una visione cristiana della “vita nuova” in Cristo risorto fa toccare con mano come il valore della gratitudine non abbia prezzo, anzi sia un “prodotto fuori commercio”.

Tale affermazione si innesta concretamente nel contesto educativo.

Mi sembra un atteggiamento lecito quello che anima genitori ed educatori che si aspettano un ringraziamento da parte di coloro per i quali fanno tanti sacrifici, affrontando notevoli difficoltà per dare ai ragazzi un’esperienza positiva di vita. E gli educatori, da parte loro, dovrebbero sempre considerarsi “servi inutili” (Lc 17,10), evitando così di insuperbirsi, gloriarsi o montarsi la testa, e sottraendo i giovani a pura strumentalizzazione.  Il parametro educativo negli ambienti in cui si vive (famiglia, scuola, parrocchia, sport, …) deve essere quello della gratuità e della solidarietà.

A mio modesto parere, la questione può essere inquadrata da un altro punto di vista.

Non potrebbero essere gli adulti a ringraziare i ragazzi per aver loro consentito di vivere qualcosa di bello e di impegnativo?

Vi è una legge non scritta, ma insita nella prassi ordinaria: se un adulto è quello che è, lo deve a tutti coloro per i quali ha speso energie relazionali.

L’opera degli educatori è impagabile perché essi donano la propria competenza e la personale sensibilità senza chiedere nulla in cambio. Educare è opera del cuore. È l’attività più santa e più sublime, secondo la lezione di tanti Santi educatori nella storia della Chiesa.

L’educatore è un seminatore, non un mietitore.

L’educatore è colui che guida verso la pienezza.

L’educatore è cooperatore di Dio.

Questi ama i fanciulli in famiglia, nella catechesi, nelle attività oratoriali, sui banchi di scuola, ai margini della strada…, comunque essi siano e qualunque cosa facciano, ama e si mantiene sereno, perché se pone alla base delle relazioni socio affettive il volere bene, questo sarà l’unico modo per lavorare fruttuosamente con loro; allora sì che sarà una scintilla divina! Sicché l’educazione, l’opera nostra cioè di educatori umani, potrebbe definirsi come la collaborazione dell’educatore per aiutare l’educando ad essere in grado di cooperare liberamente con Dio al pieno sviluppo di tutte le potenzialità del suo essere, al fine di conseguire, mediante la trasformazione in Cristo, quella pienezza di vita umano-divina, alla quale è chiamato.

Educare un figlio non è solo averne cura, provvedere ai suoi bisogni materiali; non è solo istruirlo o condurlo a un mestiere o professione, né solo formarlo alle buone maniere del vivere sociale. Educare è prima di tutto amarlo e acquistarne la fiducia.

È quella la premessa per aiutarlo a conoscere se stesso e le proprie potenzialità, svelargli quello che è e soprattutto quello che può e deve essere. L’educazione si adopera a fornire al giovane tutti i mezzi necessari per conseguire la perfezione del suo essere, per farne un uomo completo.

Il fanciullo è il campo che Dio ci affida affinché il genitore, il catechista, l’animatore, l’insegnante…, lo coltivi, perché è il mondo di domani, la speranza della società, perché è persona e, come tale, ha diritto al rispetto e deve rispettare a sua volta.

Cari amici, per vivere bene la gratitudine è necessario debellare l’alterigia e la prepotenza di chi ritiene di non avere bisogno degli altri.

La parabola accennata e contenuta nel Vangelo di Luca (Lc 17,7-10) in modo provocatorio afferma che nel rapporto padrone-servo non vi è posto per la gratitudine, perché il primo non ha motivo per ringraziare il secondo; quello che quest’ultimo fa, rientra nei suoi compiti di servo.

La nostra comunità deve compiere un passaggio obbligato, se vuole vivere pienamente grata: dall’«avere un servo» all’«essere servi».

Sulle parole di padre Turoldo

Manda, Signore, ancora profeti,

uomini certi di Dio,

uomini dal cuore in fiamme.

E Tu a parlare dai loro roveti

auguro a tutti ogni bene nel Signore risorto.

Ettore Sentimentale

madonnadelcarmelo.it