La riflessione: Solo la Scienza può battere il Covid

di ANDREA FILLORAMO

Lo sappiamo: le emozioni giocano un ruolo fondamentale nella vita; esse stravolgono spesso le scelte anche quelle più pianificate. In questi ultimi due anni siamo tutti investiti da una vera e propria tempesta emotiva, che non riusciamo ancora a controllare, caratterizzata da rapidi e improvvisi cambiamenti di umore, da instabilità nelle relazioni e nei comportamenti, da una marcata impulsività e, in alcune circostanze, dalla difficoltà a gestire in modo consapevole e coerente i nostri pensieri.

Essa è data dalla paura, che è un’emozione primaria, fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza, causata da un virus, il Covid-19, che ci fa perdere la normalità, l’usuale connessione con gli altri, la sicurezza economica: sono tutti elementi che ci sono stati portati via, che ci hanno colpito improvvisamente e che abbiamo vissuto e viviamo – in modo del tutto inedito – come un lutto collettivo.

Davanti al dolore che si estende e continua in tutto il mondo, siamo tutti in ginocchio e ancora non riusciamo a rialzarci; ci affidiamo ad un vaccino i cui effetti cominciano a vedersi ma non abbiamo ancora chiarezza di quel che siamo e che saremo fra qualche tempo. Viviamo, quindi, una vita sospesa, fuori dal tempo, in quanto non sappiano quando finirà davvero questo incubo e quali conseguenze porterà. Siamo smarriti di fronte a un nemico che non conosciamo, che nessuno conosce davvero, anche se tutti ne parlano con abbondanza di parole che fanno aumentare le nostre perplessità, anche per le contraddizioni dell’Informazione, della Rete, dei Social e delle televisioni, che non solo presentano visioni alternative sulla gestione dell’emergenza e sul virus stesso, ma perfino diverse teorie negazioniste, anche quella più estrema secondo cui il Covid-19 non esiste o non è nulla più di una semplice influenza o anche che il vaccino sia un “imbroglio”, inefficace o che provochi paradossalmente lo stesso Covid.

Questa insicurezza provoca in modo evidente o meno evidente ansia, depressione, indolenza, incapacità di reagire al meglio, come se dovessimo orientarci in una foresta sconosciuta, senza indicazioni e conoscenze.

Vaghiamo, quindi, con la nostra mente, con un certo sforzo culturale, tra i pensieri alla ricerca di una soluzione ma i pensieri si rincorrono gli uni gli altri senza portarci a nessuna soluzione concreta. Siamo soggetti alla “rimuginazione”, cioè a un modo di pensare che non ci aiuta, che gira intorno agli stessi temi ma che ci rende immobili.

Riteniamo allora fondata la considerazione contenuta in un’aforisma di Shakespeare: “Non c’è mai stato un filosofo che potesse sopportare pazientemente il mal di denti” cioè   quando si soffre, la mente è inibita e che non esiste altro al di là del dolore.

È sempre Shakespeare a far dire a Desdemona, nell’Otello, che “basta che ci dolga un dito, e l’eguale senso di dolore è comunicato a tutte le altre membra sane del corpo”.

Del resto, non c’è da stupirsi, perché nasciamo nel dolore e moriamo nel dolore: lo sapevamo ma talvolta prima lo dimenticavamo.

Dimenticavamo quei versi di Leopardi contenuti nel sublime Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui si legge; “nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato”.

Ed è sempre il dolore ad aver dato impulso a tutte le religioni del mondo.

Ancora oggi, dopo duemila anni, cristiani e non si scontrano sul tema del male (che altro non è che un’estensione del dolore): può un dio d’amore, come lo intende il Cristianesimo, permettere tutto il male del mondo?

E il buddismo? Cos’è se non una via umana alla liberazione dal dolore?

Basta ricordare la prima delle “Quattro nobili verità” del pensiero buddista, che è appunto la Verità del dolore: il dolore della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte. Da cui deriva il nirvana, il percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore.

Eppure, nonostante tutto questo, il dolore è il motore delle nostre vite.

Tutta la storia dell’uomo, il progresso, le scoperte della scienza, altro non sono, a pensarci bene, che un tentativo di sottrarci alla morsa del dolore, di elevare le nostre vite dalla sofferenza.

Per cosa è stato scoperto il fuoco se non per proteggerci dalle fiere, dal buio della notte, per cucinare i cibi e così sopravvivere? Per cosa abbiamo imparato, anche qui, dalla preistoria ad oggi, a costruire case e abitazioni sempre più confortevoli e sicure se non per difenderci dal freddo, dalle intemperie e quindi – in ultima istanza – dal dolore?

Ed eccoci a noi. Cos’è la medicina, intesa nel suo senso più nobile, se non curare, lenire le sofferenze? Tutta la storia della medicina è fondata sulla lotta al dolore.

Basterebbe ripercorrere la storia della medicina.

Per la necessità di ridurre la sofferenza fisica, l’uomo è da sempre stato portato a studiare modi di alleviare il dolore: già nel 3000 a.C. in Mesopotamia si “narcotizzava” il paziente comprimendo le carotidi per fargli perdere coscienza; gli Egizi usavano la “pietra di Menfi”; Plinio il Vecchio la mandragora, e via via nei secoli sino alla scoperta del protossido d’azoto, dell’etere dietilico e del cloroformio, per poi arrivare agli attuali analgesici e – gridiamolo con tutto il fiato – ai vaccino di nuova generazione con il quale stiamo cercando non ancora di sconfiggere il virus, con il quale dobbiamo convivere per lungo tempo, ma almeno per limitare i danni che possono portare alla morte.  Forse per questo, la medicina (e, per estensione, tutte le scienze affini), è la più nobile delle arti e dei mestieri, perché viene incontro alla necessità primordiale dell’uomo che è lenire se non vincere il dolore.

Affidiamoci alla medicina e, quindi, alla scienza.

Secondo un dizionario Gabrielli, la scienza è il “complesso organico e sistematico delle conoscenze, determinate in base a un principio rigoroso di verifica della loro validità, attraverso lo studio e l’applicazione di metodi teorici e sperimentali”. In questa definizione è implicito un lavoro impegnativo, spesso frustrante.

Gli scienziati – è bene ribadirlo – si dedicano strenuamente a esperimenti e osservazioni per settimane, mesi o persino anni. A volte i loro sforzi si concludono in un deludente nulla di fatto, ma in molti casi si rivelano vantaggiosi per l’umanità.