Coronavirus, misure d’emergenza e Costituzione. La salute è in cima ai valori costituzionali

L’inattesa esplosione del contagio del Covid-19 in Italia, che nel corso di poco più di un mese ha provocato circa venticinquemila contagiati, e circa 1800 morti, con particolare concentrazione in Lombardia, seguita da Emilia Romagna, Veneto e Piemonte, ha determinato la necessità di una normativa emergenziale, della quale fanno parte vari decreti ministeriali del Ministero della Salute, la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, che dichiarava, per la durata di mesi sei, lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.

L’ordinanza era stata emessa nell’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal D.lgs 2 gennaio 2018, n.1 (Codice della protezione civile), che, all’articolo 24 disciplina lo “stato di emergenza di rilievo nazionale”. Nel caso specifico, l’intervento era giustificato dalla più grave delle ipotesi previste e precisamente da quella di cui alla lettera c) «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24».
Seguivano il decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6, convertito in legge 5.03 2020, n.13, e quindi i Dpcm (decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) datati 1°, 8. 10 e 12 marzo 2020, che davano attuazione concreta alla legge. Questi ultimi si sono succeduti nel breve arco di dodici giorni in conseguenza del progressivo, rapido estendersi delle aree territoriali interessate dal contagio, da quelle denominate “zone rosse”, all’intera regione Lombardia e altre 14 province, sino al decreto del 10 marzo che ha esteso l’applicazione delle misure di contenimento adottate con il decreto dell’8 marzo a tutto il territorio nazionale. Con l’ultimo decreto le misure restrittive già applicate venivano rese ancora più drastiche, imponendo la chiusura di bar, ristoranti e ogni altro locale di ristorazione, la chiusura degli esercizi commerciali, tranne di quelli elencati in allegato perché destinati ai consumi essenziali per l’alimentazione, la cura della persona, le attività professionali e il diritto all’informazione (edicole). Venivano, inoltre, imposte restrizioni rigorose alla circolazione motorizzata e pedonale, con la previsione delle sanzioni previste dall’articolo 650 del Codice penale.
Già ad una prima lettura dei provvedimenti citati risulta evidente come buona parte di essi incide su diritti costituzionalmente garantiti, comprimendone alcuni e annullandone altri, tanto da aver fatto dubitare della loro compatibilità costituzionale. Si fa riferimento ai diritti di cui agli articoli 16 e 17 della Costituzione. Il primo stabilisce che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale».
Il secondo articolo sancisce la libertà di riunione, «purché avvenga pacificamente e senz’armi. Per quelle in luogo aperto al pubblico non è necessario alcun preavviso alle autorità».
Ambedue questi diritti trovano limitazioni. Il diritto di libera circolazione e soggiorno è limitato, con riserva di legge, per motivi di sanità e sicurezza. La possibilità di circolazione è preclusa, persino quella da Comune a Comune e, addirittura all’interno del singolo Comune. Nel secondo comma è sancita la libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrare, salvo gli obblighi di legge, e anche questa è stata preclusa. Vero è che per recarsi all’estero tale limitazione non è ripetuta, non potendo ritenersi compresa nella generica formula «salvo gli obblighi di legge”, ma deve ritenersi implicita.
Per la libertà di riunione la limitazione è ancora più radicale, essendo vietate non solo e non tanto le riunioni “organizzate” per fini politici o sindacali, ma anche quelle religiose, processioni, pellegrinaggi di gruppo, artistiche (concerti e spettacoli all’aperto, mostre d’arte), e, addirittura, le riunioni spontanee (gli assembramenti nelle piazze e le passeggiate della “movida”). Vietati pertanto gli spettacoli teatrali, cinematografici, le manifestazioni sportive di ogni genere, e altro ancora. Vietate persino le riunioni familiari della domenica all’aperto e in casa.
In sostanza, quella che è stata attuata può definirsi riduzione della socialità, socialità che è una componente essenziale delle modalità della nostra vita di relazione, soprattutto a livello giovanile.
Oltre alle limitazioni sin qui esposte, ve ne sono altre di non scarso rilievo anch’esse. La chiusura di scuole di ogni ordine e grado e delle Università, comprese le biblioteche, riduce l’accesso allo studio e ad istituzioni culturali e di ricerca; con la chiusura di cinema, teatri, mostre d’arte, scuole di ballo, si riduce lo spazio ad attività al tempo stesso culturali e ricreative; con la chiusura di palestre, piscine, impianti sportivi, si sopprime l’accesso ad attività sportive, ricreative e utili alla salute.
La nostra legislazione ha previsto in passato e prevede tuttora misure restrittive, di isolamento e di controllo, per malattie anche gravi (oggi in gran parte eliminate) come vaiolo, colera, malattie trasmissibili sessualmente (in passato sifilide, oggi Aids), trattamenti sanitari obbligatori in psichiatria, per finire con le vaccinazioni obbligatorie. Tutte, in varia misura, incidenti su diritti di rilevanza costituzionale. Tutte le limitazioni però riguardavano solo i soggetti colpiti da queste patologie e non certo il resto della collettività. Questa volta è diverso. Per la prima volta, le misure di tutela riguardano tutto il territorio nazionale e tutta la popolazione italiana. Un caso unico nella storia sanitaria del Paese: neppure in occasione della cosiddetta “spagnola”, una pandemia diffusa in tutto il mondo subito dopo la prima guerra mondiale che fece circa cinquanta milioni di morti (in Italia trenta mila circa).
La compatibilità delle misure passate e presenti in materia di tutela della salute con restrizione di diritti costituzionali di così ampia portata, si scontra in teoria col diritto primario all’autodeterminazione. L’art. 32 della Costituzione prevede il diritto alla salute, ma non l’obbligo alla salute. Vale in materia di consumo di alcool, di tabacco, di droga persino, di abitudini di vita dissennate, autolesioniste (la vita di clochard, ad esempio), ma anche per le pratiche di piercing, tatuaggi integrali. Il limite è uno solo: che il danno cagionato o subìto alla propria salute non produca danno alla salute degli altri. E da questo deriva il corollario che la tutela della salute collettiva è esigenza prevalente sull’esercizio di diritti costituzionali. La tutela della salute all’apice della scala di valori anche costituzionali? È così ed è necessario che sia così. La salute, infatti, non è sinonimo di assenza di malattia, ma di benessere psico-fisico generale ed è proprio questa condizione a consentire al cittadino di esercitare appieno la libertà di movimento, di viaggiare, di partecipare ai momenti di vita pubblica, di socializzare, di svolgere attività sportive, ricreative. La salute come precondizione funzionale all’esercizio della cittadinanza attiva, attraverso il lavoro in tutte le sue declinazioni, la piena partecipazione alla vita sociale, culturale e politica del Paese.
Da tale premessa deriva la necessità di un Sistema sanitario efficiente, pubblico e gratuito. Da perfetto quale si era dimostrato dopo la sua attuazione con la legge 833 del 1978, si è progressivamente degradato per i tagli ai finanziamenti, disordini e abusi amministrativi, fenomeni corruttivi, riduzione delle strutture e del personale sanitario. Nonostante tutto, il Sistema‒ almeno sino ad oggi ‒ è stato in grado di superare la prova, per competenza scientifica e capacità organizzativa, ma è giunto quasi al limite delle sue possibilità. Occorre prendere lezione da questa calamità sanitaria per promuovere investimenti in vista dell’impegno che la nostra sanità dovrà svolgere sin da adesso e in futuro. Eventi di questo genere potrebbero divenire periodici e occorre essere pronti per affrontarli adeguatamente.

VINCENZO MACRÌ