VITTORIO EMANULE III: IL RE DISCUSSO DELLA MONARCHIA DELL’ITALIA UNITA

Nonostante i miei pensieri sono altrove, e non solo per le non vacanze, tento di fare una presentazione del documentato libro del professore Aldo Alessandro Mola, “Vita di Vittorio Emanuele III 1869-1947. Il re discusso”, (Bompiani, 2023; pag. 581; e.22). Testo che il professore ha presentato dialogando con il giornalista Diego Rubero, direttore de Il Giornale del Piemonte e della Liguria, presso l’Auditorium del Circolo Unificato dell’Esercito in Corso Vinzaglio a Torino il 21 giugno scorso con la partecipazione di un attento e nutrito pubblico, tra cui il sottoscritto.

Aldo Mola è uno dei massimi esperti di Storia della Monarchia nella storia dell’Italia unita, non condanna né assolve il discusso sovrano, documenta in modo attento e preciso la vita del sovrano, figlio di Umberto I, assassinato a Monza dall’anarchico Bresci.

Il testo si compone di XIV capitoli con una appendice. All’inizio troviamo una Cronologia sommaria del lungo Regno di Vittorio Emanuele III, che fu re d’Italia dal 1900 al 1946, imperatore d’Etiopia (1936-1943) e re d’Albania (1939-1943). Salì al trono all’assassinio del padre Umberto I, è stato protagonista in tutte le azioni politiche, ideologiche e militari della prima metà del secolo XX. Per molti storici il “peccato mortale” del re, fu quello di dare l’incarico nel 1922 a Benito Mussolini e quindi al suo regime. E’ da addebitare a lui il regime? Si chiede Mola.

“Se così fosse , proporre il profilo di un sovrano ‘passato in giudicato’ parrebbe quanto meno un azzardo. Ma se non ora quando? Cent’anni dopo se ne può parlare, documenti alla mano”.

Infatti, a Vittorio Emanuele III, gli “furono addebitate molte ‘colpe’, – scrive Mola – fra le tante ne ricorrono soprattutto quattro, tutte assai gravi: l’intervento dell’Italia nella Grande guerra a fianco della Triplice intesa anglo-franco-russa (24 maggio 1915); l”avvento del fascismo’ e il silenzio dopo il rapimento e la morte di Matteotti (1922-1924), che aprì la strada alla ‘dittatura’ personale di Mussolini, al ‘partito unico‘ e al regime autoritario, da alcuni classificato totalitario; la emanazioni delle ‘leggi razziali‘ (dette anche “razziste”), in specie contro gli ebrei (1938); la stipula della resa senza condizioni annunciata come armistizio l’8 settembre 1943, la ‘fuga’ da Roma e l’abbandono delle forze armate, esposte senza direttive chiare alla vendetta dei tedeschi”.

Andiamo a vedere nei particolari queste quattro “colpe” di Vittorio Emanuele III. Cominciamo con l’intervento in guerra dell’Italia del 1915.

Per il professore Mola, le valutazioni sulla guerra sono contrastanti sul merito e sopratutto sul metodo. In pratica “il Parlamento, nella stragrande maggioranza contrario all’intervento, venne forzato a subirlo e si piegò”. Fu un immane conflitto, sono intervenuto sul tema, presentando alcuni studi di autorevoli studiosi della Grande guerra. A giudizio del premier inglese David Lloyd George, fu la peggiore catastrofe dopo il diluvio universale, che spazzò via gli imperi russo, turco-ottomano, austro-ungarico e germanico. I sovrani di questi imperi o furono uccisi oppure mandati in esilio. L’Italia rimase l’unica monarchia nella terra ferma europea.

Ritornando all’entrata in guerra, in un primo momento l’Italia rimane neutrale, ma questo secondo Mola non era ben visto né della triplice alleanza che la legava a Berlino e Vienna, ma neanche a quella anglo-franco-russa, che dominava il Mediterraneo e stava minacciando le coste italiane. Pertanto l’Italia secondo il pensoso Ferdinando Martini, per la sua posizione strategica, non poteva non fare la guerra. Anche se tutto faceva pensare che per ripianare le spese della guerra in Libia e per avvicinare il Mezzogiorno arretrato al Nord più sviluppato, “l’Italia aveva bisogno della pace”.

Dopo tante trattativa il governo scelse di scendere in guerra a fianco della Triplice Intesa, confidando che il conflitto terminasse entro l’estate. Così il re, il governo Salandra il 23 maggio dichiarano guerra all’Impero austro-ungarico, affidando il comando supremo al capo di stato maggiore generale Luigi Cadorna. In pratica il re e il governo si sono arresi alla piazza, a chi sosteneva, “O la guerra o la rivoluzione”. Erano “alcune minoranze rumorose (nazionalisti, repubblicani, settori dei radicali e di socialisti rivoluzionari…) chiedevano a gran voce di agire armi alla mano, come prova di virilità, per ottenere il ‘confine naturale’”. Inoltre a favore della guerra c’erano quelli che agivano al “coperto”, come il caso del Grande Oriente d’Italia e della carboneria. Il testo di Mola descrive i vari passaggi degli interventisti come hanno strategicamente scatenato le piazze per convincere il governo ad entrare in guerra contro l’Austria-Ungheria. A capo dei rivoltosi c’era il vate, Gabriele D’Annunzio. Il 5 maggio a Quarto di Genova, gli interventisti organizzano una manifestazione per ricordare simbolicamente i Mille di Garibaldi. “D’Annunzio era il più facinoroso fautore dell’interventismo, dopo l’orazione di Quarto per lo scoprimento del monumento ai Mille fu vezzeggiato da rappresentanti delle istituzioni quasi fosse un padre della patria”.

Ma c’erano anche altre manifestazioni imponenti contro la guerra, scrive Mola. A questo punto “il Governo italiano si trovò tra l’incudine e il martello. Aveva bisogno del consenso del Parlamento, ma per ottenerlo doveva scatenare la ‘piazza’, intimidire i rappresentanti della nazione, metterli con le spalle al muro e ottenere i pieni poteri.

Intanto l’ex presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, fautore della neutralità, al suo arrivo alla stazione di Roma, viene accolto con ostilità dai manifestanti che lo seguono fino al portone di casa. Sostanzialmente gli interventisti eccitati da Gabriele D’Annunzio invocano il “fuoco purificatore” della guerra, assalirono l’abitazione di Giolitti, che fu costretto a lasciare Roma, per poi ritirarsi a Cavour. Non solo ma nel “maggio radioso”, prevalgono i più aggressivi e così si espone il 15 maggio 1915, nella Galleria Vittorio Emanuele a due passi del Duomo di Milano, un macabro trofeo: la testa mozzata di Giolitti.“Il messaggio era chiaro – scrive Mola – tagliare la testa dello statista piemontese per piegare quelle degli esecrati pacifisti, ‘neutralisti’, ‘parecchisti’, ‘panciafichisti’, tutti dipinti quali traditori della patria”. Il tutto con la compiacenza della maggioranza della stampa di allora. Inoltre in quei giorni alcuni parlamentari “scomodi”, favorevoli alla trattativa diplomatica a oltranza per ottenere il più possibile dall’impero austro-ungarico, divennero bersaglio di invettive, minacce, assedio delle loro case e di aggressioni. Secondo Mola, queste rivolte del “maggio radioso” hanno iniziato quella “guerra civile” strisciante, destinata a imperversare nei decenni seguenti. Il risultato per Mola “fu l’eclissi della Corona quale istituzione super partes, garante della correttezza della dialettica politico-parlamentare”. Pertanto secondo lo storico cuneese, “L”idea di Italia’ e la sua ‘storia’ furono confiscate da una minoranza rumorosa, che classificò gli avversari quali nemici, li denunciò all’opinione pubblica come traditori, ne chiese e pretese l’eliminazione e si erse a depositaria dei ‘ destini’ nazionali”.

Dunque scrive Mola, “la ‘piazza’ prevalse sul Parlamento, che ne uscì umiliato […]”. L’entrata in guerra dell’Italia per lo storico Luigi Salvatorelli, rappresenta il primo dei tre colpi di Stato messi a segno da Vittorio Emanuele III nel corso del suo regno. Per Salvatorelli, “il re abusò tre volte della potestà statuaria a danno del Parlamento e della libertà dei cittadini organizzati o meno in partiti”. La prima volta con l’entrata in guerra; la seconda, “con l’incarico a Benito Mussolini ‘colpevole’ di formare il governo il 30 ottobre 1922; infine il 25 luglio 1943, quando revocò il duce e nominò Pietro Badoglio capo del governo per salvare la monarchia a costo di affondare il Paese”. Per rispondere a queste tesi, il professore Mola cerca di tracciare quali fossero i veri poteri del sovrano e verificare come li abbia impiegati. Naturalmente io qui mi fermo, vi lascio alla lettura del libro. E continuo con il seconda colpa addebitata a Vittorio Emanuele III, che per alcuni è la peggiore.

Governo Mussolini.

Secondo lo storico Antonino Repaci, il re oltre ad essere il principale “colpevole” dell’ingresso dell’Italia  nella Grande Guerra, fu anche dell’avvento di Mussolini al potere in Italia. Tra il 1918 e il 1922 si susseguirono ben sette governi e una girandola di ministri e sottosegretari, era ritornato al governo anche Giolitti, che poi fu costretto a gettare la spugna. Alla fine il re per scongiurare una guerra civile, fu costretto a varare un governo di coalizione costituzionale il 31 ottobre, presieduto da Mussolini, comprendeva tre fascisti, nazionalisti,liberali, demosociali ed esponenti del Partito popolare italiano, come il futuro presiedente della Repubblica Giovanni Gronchi. A nome dei popolari Alcide De Gasperi approvò il nuovo governo, che 306 voti a favore e 117 contrari alla Camera, 184 si e 19 no al Senato (dove c’era un solo iscritto al PNF). Un governo di coalizione costituzionale. “Il re lo nominò, – scrive Mola, ma furono i parlamentari ad approvarlo”. Lo stesso Giolitti, poco prima di votare a favore di Mussolini, “osservò che il Parlamento non aveva procurato un governo al Paese e il paese se l’era dato da se”. Intanto “col governo si schierarono Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico De Nicola e tanti futuri antifascisti”.

A questo punto Mola propone una tesi nuova (almeno per la mia cultura storica).“A differenza di quanto si legge e si ripete anche all’estero il 28 ottobre 1922, data canonica della nascita del ‘regime fascista’ o inizio del ‘buio ventennio’, non avvenne alcuna ‘marcia su Roma’. Anzi essa non ebbe affatto luogo. Il professore Mola precisa che “quando gli squadristi entrarono nella capitale nella notte fra il 30 e il 31 ottobre non lo fecero per ‘espugnarla’. Il nuovo governo era già nominato. La ‘marcia per Roma’ da piazza del Popolo alla Stazione Termini tra le due e le sette pomeridiane si ridusse alla sfilata di reduci di una battaglia mai combattuta, quando Mussolini era già insediato alla presidenza del Consiglio”.

Dunque secondo Mola,non vi fu alcuna ‘marcia su Roma’, se per tale s’intende l’assalto dei fascisti per imporsi sui poteri costituiti, né vi fu la ‘resa dello Stato’ allo squadrismo”. Pertanto, nell’ottobre-novembre 1922 a differenza di quanto scrive Roberto Vivarelli, “gli italiani non ‘misero la loro sorte nelle mani di un uomo, che si proclamava duce e che molti di loro accettarono come tale‘, rivelando così la ‘vocazione del gregge’”. E comunque anche lo stesso Vivarelli sostiene che il fascismo non arrivò mai ad essere un fenomeno totalitario, come quello che è successo in Germania con il Partito nazionalsocialista. Il fascismo “non arrivò mai ad immedesimarsi né con lo Stato (che rimase monarchico) né con gli italiani, la maggior parte dei quali, inclusi tanti iscritti al partito nazionale fascista, ne adottò e adattò la divisa, come aveva fatto con altre in passato e fece dopo il crollo del regime”.

Comunque sia come argomenta Antonio Carioti, “il percorso dall’ottobre 1922 al partito unico e a quanto seguì non avvenne in un giorno e il governo non fu ‘subito regime’ (a differenza di quanto asserito da Emilio Gentile e da altri) ma un cammino lungo, accidentato e infine vittoriosamente concluso non per la superiorità politico-culturale di Mussolini ma per molti errori di chi aveva modo di avversarlo nelle aule parlamentari e nel Paese. Il re cercò di sciogliere i nodi via via che gli vennero proposti. Ma nei limiti dello Statuto”.

Di questo parere è Claudio Fracazzi in “La marcia su Roma 1922. Mussolini, il bluff, il mito” (Biblioteca storica de Il Giornale 2022) E poi la decisione del re Vittorio Emanuele III ebbe immediato plauso da parte della Francia e Gran Bretagna.

Dopo la morte violenta del deputato socialista Giacomo Matteotti, le opposizioni chiesero al re di intervenire, ma Vittorio Emanuele III rispose che non toccava a lui ma alle Camere trovare la via per risolvere la questione. “Il re era un sovrano costituzionale, non un despota”, scrive Mola. Tuttavia, “l’opposizione non scese in campo. Eppure aveva numeri e spazio politico per farlo”. Peraltro nel 1922 i deputati iscritti al PNF erano 35, con le elezioni del 6 aprile 1924 divennero 227 su 535. Molti, ma erano ancora minoranza, per di più raccogliticcia, frutto di ex liberali, popolari, democratici sociali. In buona sostanza come hanno scritto De Felice o Vivarelli, “Mussolini rimase al potere non perché fosse un genio politico superiore ma per gli errori delle opposizioni. Tutte le leggi che condussero dal regime parlamentare a quello del partito unico dominato dal ‘duce del fascismo’ furono via via approvate dal Senato e dalla Camera dei deputati eletta nel 1921 e nel 1924, sino alla svolta del 1928 che privò gli elettori del diritto di scegliere liberante  i propri rappresentanti”. Mola rileva che questa involuzione del governo Mussolini, fu criticata dagli antifascisti, soprattutto all’estero, ma i governi stranieri sia liberali che quello come  l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, conservarono relazioni regolari e non di rado amichevoli con quello di Roma. Per quanto riguarda gli italiani, il consenso elettorale era vastissimo sia nel 1929, 1934 e 1939.

Veniamo alle Leggi razziali del 1938 e la seconda ondata del fascismo repubblicano. La terza colpa del Re.

A questo punto il testo elenca i traguardi positivi, i successi conseguiti dal governo Mussolini in tredici anni. Il PNF era al culmine del consenso, mentre il re era sempre più isolato. Il 14 dicembre 1938 la Camera dei deputati, prona al capo del governo. Approvò le leggi razziali, senza alcun dibattito con voto unanime dei 351 presenti. Fra i 31 assenti spiccò Italo Balbo. Poi venne approvata anche il 20 dicembre approvò la “difesa della stirpe”, la legge passò col favore di un terzo dei senatori, tra i quali si contavano tredici ebrei che, dopo l’approvazione della legge rimasero in carica, come ricorda Aldo Pezzana nel saggio “Gli uomini del Re”.

C’è stata qualche responsabilità di Vittorio Emanuele III nelle leggi razziali? Per Mola, nessuna. Anzi, li deplorò sin da quando gli vennero prospettate. Li ha dovute firmare perché erano state deliberate dal Parlamento che rappresentava gli italiani. “Non era stato il sovrano ma soprattutto la Camera elettiva a mettere il Paese su quella china”. Precisa Mola: “contro tale infamia non si levò alcuna voce di netta opposizione né di ferma condanna: non da parte di ‘liberali’, né da parte della Chiesa cattolica […]”.

Passiamo alla quarta colpa: il 25 luglio 1943, il re Vittorio Emanuele III, salvò lo Stato con la revoca da capo del governo a Mussolini. Lo sostituì con Pietro Badoglio.

“A quel punto occorreva salvare la continuità dello Stato, come è stato riconosciuto non solo da scrittori inclini ad apprezzare il regime monarchico quali Mario Viana, Giovanni Artieri, Francesco Perfetti, Domenico Fisichella, ma anche dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi”. Per farlo bisognava che la famiglia reale cadesse nelle mani dei tedeschi, ma nello stesso tempo neanche mettersi tra le braccia dei vincitori, ora alleati. Così in tutta fretta da Roma il re i familiari si spostarono a Brindisi, un lembo della Puglia, dove non c’erano né tedeschi né angloamericani. Si poteva fare di più in quei giorni fino all’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre? Forse. Naturalmente il professore Aldo Mola da storico, non intende emettere giudizi, né giustificare, ma propone documenti per comprendere. Su questo gesto del re si è scritto innumerevoli pagine di critiche, si è stratificata una vastissima letteratura (memorialistica, saggistica, atti di convegni), qualcuno lo ha bollato come un “piccolo re idiota”. Alla fine di questa lunga tragedia della guerra, il re Vittorio Emanuele III il 9 maggio 1946 abdico in favore del figlio Umberto II e partì per Alessandria d’Egitto, ove morì il 28 dicembre 1947.

Furono momenti concitati e turbolenti che per comprenderli bisogna studiarli senza pregiudizi e soprattutto non giudicarli con i parametri odierni.

“L’ufficio della storia non è di formulare postume condanne o assoluzioni, né di asserire che quanto avvenne non poteva non accadere e va quindi accolto come unica possibile realtà, ma documentare e spiegare gli accadimenti nella loro accertata sequenza e nella molteplicità delle loro cause e concause”.

DOMENICO BONVEGNA

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