Il caso Petriano-Riceci (PU) ci invita a riflettere sull’attuale sistema di gestione dei rifiuti

Il sistema della gestione dei rifiuti in Italia è un labirinto di responsabilità che si intersecano; alla fine, istituzioni e partiti sono messi in grado di affermare di non averne, come se la discarica o l’inceneritore si fossero materializzati per magia. Anche adesso che il pericolo per Riceci è in parte scampato – purché si resti vigili e pronti a scendere in campo – i cittadini sono incerti su chi identificare quale promotore del progetto.

L’azienda, certo, che ha agito con irruenza, ignorando le disposizioni e creando un sistema di “scatole cinesi” che non appare limpido. Quindi la provincia e le altre istituzioni che hanno levato le loro voci contro la discarica solo dopo la levata di scudi popolare e il lavoro del buon giornalismo locale. Il problema è lo scollamento fra le istituzioni, l’impresa – che tendono ad andare a braccetto – e le cittadinanze, che sono costrette a svolgere complicate indagini, incastrando insieme indizi e sospetti, per avvicinarsi alla verità prima di esserne travolte. È fuor di dubbio che dietro ai rifiuti vi è un business miliardario. Le quote di immondizia che non viene riciclata sono sempre consistenti, a differenza dei dati che riguardano altri paesi dell’Unione europea.

Le discariche private hanno “fame” di rifiuti di ogni tipologia e sembra sempre più facile crearle, anche in zone paesaggistiche, storiche o naturalistiche, mentre il traguardo dei “rifiuti zero” è sempre più simile a una chimera. Anche se la normativa vigente impone che le discariche per rifiuti pericolosi e non pericolosi non possano essere installate in aree naturali protette, prossime ai centri abitati o comunque ventose, storiche, sismiche, interessate da agricoltura biologica, il caso Riceci ci mostra ancora una volta come ognuna di queste caratteristiche possa essere bypassata e come chi dovrebbe intervenire preferisca assistere in silenzio. Quando poi la discarica è in funzione, anche un ricorso al Tar risulta tardivo e in molti casi non sortisce alcun effetto. Le cittadinanze dovrebbero intervenire, inoltre, prima che sia rilasciata al gestore la Valutazione di impatto ambientale (VIA) e soprattutto che sia concessa l’Autorizzazione integrata ambientale (AIA). Quest’ultima dovrebbe avvenire secondo queste fasi: domanda dell’interessato; pubblicazione della domanda; partecipazione del pubblico; conferenza di servizi; rilascio dell’autorizzazione; pubblicazione del provvedimento; controllo e monitoraggio. In realtà la “partecipazione del pubblico” avviene spesso attraverso incontri pubblici apparentemente privi di valore giuridico, senza che la gente sia consapevole di essere parte in causa del progetto. Il procedimento di autorizzazione dovrebbe essere caratterizzato da trasparenza e informazione, elementi che di fatto mancano quasi sempre. Prima che esistesse l’Autorizzazione integrata, l’interessato doveva chiedere diverse autorizzazioni, con una maggiore possibilità da parte dei cittadini di comprendere la natura del progetto e le responsabilità istituzionali. Con l’AIA si deve invece ottenere un’unica autorizzazione, che considera unitariamente i diversi profili del progetto. Il caso Riceci, unico nel suo genere, non solo ha evidenziato la posizione di una cittadinanza di fronte a un progetto invasivo e fuori norma e l’efficacia della sua mobilitazione, ma ha inoltre evidenziato, anche grazie alla presenza attiva della stampa locale, come sia facile oggi, in Italia, aggirare le norme per ottenere un fine industriale, anche nel caso di norme plurime e rigorose. In tutto questo, il ruolo delle Soprintendenze – che hanno dato spesso il loro nulla osta a progetti devastanti per il territorio, l’ambiente e il paesaggio – è debole, timoroso ed è divenuto, di fronte a un enorme giro di affari, assolutamente marginale. Un gravissimo ed ulteriore problema è evidenziato nella relazione 2020 della Commissione Antimafia dell’Ars, basata su un’inchiesta che ha visto ben 52 audizioni tra governatori, assessori, dirigenti, magistrati, giornalisti, comitati civici, sindaci. La Commissione ha evidenziato una “significativa presenza mafiosa nel settore della raccolta”, nonché “pratiche corruttive abbastanza diffuse”. Partendo da Riceci, è opportuna una riflessione sull’attuale sistema della gestione dei rifiuti, per risvegliare gli anticorpi democratici e civili che possano fare da contraltare a un business che pare ormai privo di etica. E quasi inarrestabile.

Roberto Malini 

difensore dei diritti umani,

dell’ambiente e dei beni culturali.

Premio Rotondi 2018.

 

EveryOne Group 

Comitati contro la discarica a Riceci

 

Nella foto di Steed Gamero, un momento della manifestazione del 24 luglio scorso a Pesaro, davanti alla sede di Marche Multiservizi