Marika Trivigno: accendiamo la speranza dentro il carcere. Scontare la pena non significa essere privati di speranza, sogni e dignità

Generare il futuro significa non farsi abbattere dalle delusioni o come in questo caso, dalle condanne, non cedere alle logiche che trasformano le persone in cose e  che finiscono per uccidere la speranza. Ma noi siamo tutte persone e come persone abbiamo questa dimensione della speranza, non lasciamoci sopraffare, non lasciamoci ridurre a numeri. Io non sono il numero tal dei tali, sono una persona e questo genera speranza. Semplice a dire, difficile a fare.

Scontare la pena non significa essere privati di speranza, sogni e dignità. La dignità non si tocca a nessuno. Nessuno può essere privato della dignità, ha più volte detto Papa Francesco: “Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice quel personaggio facciamo qualunque cosa e poi tutto finisce nel forno. No, Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato”.

Fare del bene fa bene

La vita in comune dentro un carcere ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. In questo contesto, negli ultimi anni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Insomma, è  un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni. Di questo e tanto altro ne parliamo con Marika Trivigno, volontaria del Progetto Carcere, ambiziosa iniziativa nata nel 2016 all’interno dell’Università Statale di Milano volta a supportare gli studenti detenuti nello studio, poi come volontaria presso la sezione femminile della Casa di Reclusione di Milano Bollate.

 

C’è una verità che ha imparato frequentando il carcere o il tribunale?

Frequentando il carcere, prima come coordinatrice dei tutor volontari del Progetto Carcere, ambiziosa iniziativa nata nel 2016 all’interno dell’Università Statale di Milano volta a supportare gli studenti detenuti nello studio, poi come volontaria presso la sezione femminile della Casa di Reclusione di Milano Bollate ho compreso che la verità, se vogliamo, c’è ma non spetta a noi ricostruirla. La verità storica esiste, così come esiste una verità processuale, ma né l’una né l’altra spetta a noi volontari e cittadini impegnati che “coloriamo” gli istituti penitenziari ricostruire.

 

Che bisogna fare per rimettere ordine nelle carceri italiane?

Penso che la risposta stia nel rivoluzionare la concezione che la collettività – ancora oggi – ha della pena: quando si parla di pena, automaticamente, la si immagina concretizzata nel carcere. Qui sta l’errore. Non bisogna pensare alla detenzione carceraria come unica risposta alla commissione di un reato e alla creazione di un disvalore meritevole di sanzione. Pensando, a esempio, a chi ha costruito il proprio patrimonio con i proventi derivanti da attività illecite: avrebbe davvero un’utilità la pena detentiva? O forse, avrebbe più utilità una confisca volta a riacquisire al patrimonio indisponibile dello Stato i beni parte del patrimonio illecitamente creatosi? La storia normativa del nostro ordinamento ci dimostra come la legge 109/1996 che introduce il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata abbia segnato una svolta: dalla sottrazione della libertà personale come risposta punitiva si è passati alla sottrazione di ciò che ha creato disvalore per la collettività. Il focus si sposta dalla figura del reo al reato e al disvalore da questo creato.

Sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Come si rimedia a questa emergenza? Dal suo punto di vista le priorità più urgenti?

Un paese nella forma carcero-centrico, ma che nella Costituzione sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato deve assumersi la responsabilità di creare le condizioni affinché nelle case circondariali e nelle Case di reclusione ci sia un recupero della persona e non un suo confinamento. Sicuramente non garantire degli spazi minimi entro cui il detenuto può svolgere la sua vita in carcere non permette di giungere a tale recupero. Penso che il problema del sovraffollamento, in Italia, abbia anzitutto radici strutturali: la maggior parte degli istituti penitenziari soffre di inadeguatezza strutturale poiché gli edifici mancano di manutenzione e sono vetusti. Gli spazi sono esigui e spingono ad una convivenza forzata, tra condannati molto diversi tra loro per età, provenienza, religione, indice di pericolosità. In caso di emergenza, e lo si è visto durante il periodo di isolamento da Covid-19, ogni misura di prevenzione come quella del distanziamento sociale è venuta meno per carenza di spazi.

Le soluzioni potrebbero essere diverse, ma a ogni modo ognuna dovrebbe essere valutata all’interno di una più ampia riforma organica: anzitutto, si dovrebbe lasciare più spazio al ricorso alle misure alternative di modo da “svuotare” le carceri. Il carcere deve essere l’extrema ratio nel senso di rendere normalità le misure alternative e, tutto ciò che non può essere sanzionato con queste lasciarlo alla detenzione carceraria. Un’altra soluzione, a mio avviso, si troverebbe nell’indirizzare il problema alla corretta struttura. Mi spiego meglio: non tutto è risolvibile tramite una risposta punitiva. Il tossicodipendente che sia isolato in carcere senza un percorso di sostegno e di riabilitazione è più probabile che, una volta reinserito nel mondo esterno, ricada vittima delle stesse sostanze.

 

La voglia di riscatto è così impossibile per un detenuto?

Assolutamente no! La voglia di riscatto quando è tale da creare energia travolgente diventa capacità di riscatto. Ho conosciuto detenuti dopo aver scontato la loro pena, hanno ricominciato a vivere e a concepire la vita stessa secondo una prospettiva prima sconosciuta. Ognuno di questi uomini e ognuna di queste storie mi ha dimostrato come dalla sofferenza si possa effettivamente rinascere, dandosi una seconda opportunità. Sono fermamente convinta che la grandezza di un uomo stia, non già nel non cadere in errore, ma nella capacità di razionalizzare ogni errore partendo da una rielaborazione degli impulsi e dei sentimenti che lo hanno spinto a commettere una determinata azione. Solo con un percorso trattamentale effettivamente incentrato sulla rieducazione del condannato – che quindi favorisca il lavoro in carcere o all’esterno, l’istruzione scolastica e universitaria, le attività culturali, sportive e ricreative – si dà spazio alla crescita personale, al riscatto e al reinserimento sociale.

 

Può raccontarci qualche storia senza ovviamente violare la privacy?

Non ho una storia in particolare da raccontare, ma quello che tutt’oggi mi porto dalla mia esperienza in carcere è l’energia travolgente con cui gli studenti ristretti, sia di media che di alta sicurezza ospiti della Casa di Reclusione di Opera (MI), studiano. Ogni persona che ho conosciuto lì dentro ha trovato una rinascita nello studio, nella possibilità di occupare il proprio tempo – che comunque scorre inesorabilmente – in un’esperienza nella quale non aveva mai avuto l’opportunità di imbattersi, l’università (alcuni addirittura si erano iscritti all’università dopo aver completato anche gli studi scolastici in carcere). Ho percepito il valore dello studio in tutta la sua dimensione, inteso come porta verso la conoscenza e, quindi, verso la possibilità di scegliere e di autodeterminarsi, solo in carcere. Alcuni di questi detenuti – molti dei quali ergastolani o con fine pena mai – sono alla seconda laurea, altri hanno scontato la loro pena e, una volta usciti, si sono reimmatricolati in un’altra facoltà.

 

Il comandamento fondamentale, non uccidere, in carcere non vale: rinunciamo all’umanità in nome di una giustizia, spesso cieca. Il suo pensiero in proposito?

Penso che sia fondamentale non cadere vittime dei populismi, a esempio inneggiando a frasi quali “Buttiamo via la chiave!” o “Dentro fanno una bella vita”. Come fare questo? Anzitutto informando correttamente. Penso, a esempio, che la vicenda storica su cui viene costruita l’impalcatura processuale debba essere nettamente distinta dal trattamento penitenziario. I soggetti coinvolti e le attività che vengono eseguite sono totalmente opposte e perseguono fini diversi: il processo – penale nel nostro caso – mira ad accertare lo svolgimento del fatto storico; il trattamento penitenziario deve avere un unico fine, quello della rieducazione del condannato. Una volta che si è capito ciò, bisogna – immedesimandomi nella persona offesa o nei familiari – ricercare la verità con il solo mezzo della giustizia, anche se questa è una macchina farraginosa e dai tempi notoriamente lunghi. Ciò che più mi lascia pensare e che deriva dalla stessa complessità della funzione giudicante esercitata dal giudice è l’errore giudiziario e le ricadute devastanti che ha – soprattutto sul profilo psico-sociale – su chi ha subito un’ingiusta detenzione. L’attività giurisdizionale è un complesso di azioni umane e, come tale, è suscettibile all’errore. Penso che, tuttavia, la riparazione pecuniaria non sia sufficiente e risolutiva a fronte della stigmatizzazione sociale derivante al condannato per la (ingiusta) detenzione, della sofferenza derivante dalla privazione della libertà personale in un regime carcerario.

 Il mio modello di onestà e legalità è Giorgio Ambrosoli: come non rimanere affascinati per la sua fedeltà a un incarico professionale portato avanti con rigore sino alla fine, ma anche la sua ricerca di una vita “normale”, di famiglia e di affetti…

Facendo parte di un presidio di Libera sul territorio della provincia di Milano, peraltro intitolato a Giorgio Ambrosoli, posso dire che anche io ho avuto modo di “subire il suo fascino”: in effetti, è difficile rimanere indifferenti di fronte all’onestà che lo ha contraddistinto e all’amore con cui ha esercitato la sua professione, in una totale dedizione per lo stato italiano. Se dovessi ricercare una figura a cui mi sento particolarmente legata, con una profonda ammirazione, forse questa è Denise Cosco. Denise è la figlia di Lea Garofalo. Denise è praticamente una mia coetanea e di lei apprezzo il coraggio: il coraggio di testimoniare contro suo padre per dare spazio alla verità. La sua scelta (di testimoniare contro il padre) le è costata il fatto che ora viva sotto protezione. Ciò le ha tolto ogni spazio di rivendicare la sua identità, ma le ha permesso di riacquistare la libertà di vivere in un ambiente sano, lontano dal contesto mafioso in cui è nata, in nome e in memoria di sua mamma Lea.

 

IMG Press ha pubblicato l’analisi del signor Marcello D’Agata, per circa dieci anni al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano, che ha scritto di suo pugno un progetto carceri affinché altri non commettano i suoi stessi errori. E tra i punti prioritari inserisce la questione lavoro. E’ davvero così?

Sono d’accordo, il lavoro è un nodo centrale nell’ambito del trattamento rieducativo del detenuto. Così come il primo lavoro ci permette di emanciparci gradualmente dalla famiglia, ugualmente il lavoro che si esegue mentre si sconta la pena contribuisce all’indipendenza e consente al detenuto di riappropriarsi, a poco a poco delle sue libertà, in primis quella economica. Inoltre, il contesto lavorativo offre al detenuto la possibilità di formarsi, di apprendere e di inserirsi in un contesto di convivenza con altre persone (pensiamo a chi svolge lavori in esterna). Il lavoro responsabilizza il condannato e insegna lui che esistono modi leciti per guadagnarsi da vivere.