Il riconoscimento della Cucina italiana come patrimonio immateriale dell’umanità è una grande operazione di marketing. La cultura (intesa seriamente) è un’altra cosa.
L’etichetta dà grandi vantaggi di visibilità a livello globale. Ogni sito riconosciuto dall’UNESCO diventa famoso nel mondo e vede aumentare l’arrivo di turisti in gran numero, talora fino a livelli di overtourism, tanto deprecato.
E’ ormai un dato di fatto che l’UNESCO serva più che altro a fare “markette”. Una di queste è la dichiarazione che l’Italia sia la prima “Nazione” a ottenere il riconoscimento, vantando questo primato mondiale.
Prima di noi, esattamente quindici di anni fa, è stata riconosciuta la Cucina tradizionale messicana, perché enfatizza ingredienti nativi, rituali collettivi e biodiversità. Sempre nel 2010, è stato riconosciuto il Pasto gastronomico dei francesi perché celebra convivialità, sapori e presentazione creativa. Nel 2013, ha ottenuto il riconoscimento il Washoku giapponese, la cucina tradizionale fondata su armonia stagionale, estetica e rispetto per la natura.
Non va dimenticato che dal 2010 è stata ammessa alla lista UNESCO la Dieta mediterranea, che riguarda non solo l’Italia, come si crede, ma anche Spagna, Grecia, Marocco, Cipro, Croazia e Portogallo. Né che dal 2017 nella lista è entrata anche l’Arte del pizzaiolo napoletano. Meno noto (credo) che dal 2014 della lista faccia parte anche la Vite ad alberello di Pantelleria.
A parte il sapore agro che lascia la competizione ritardata con il modo di stare a tavola dei francesi – notoriamente antipatici e presuntuosi gourmet – l’iscrizione della Cucina italiana nella lista UNESCO è certamente una grande cosa. Ma è un affare culturale di parrocchia.
Come nello spirito attuale dell’UNESCO.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (appunto, l’UNESCO) è stata fondata secondo lo spirito illuministico fedele all’eredità universalista di Diderot e Condorcet. Ma è degenerata quasi subito in uno strumento di parrocchialismo e relativismo.
La Cultura si diceva è un’altra cosa.
La cultura dovrebbe riguardare la formazione personale, lo sviluppo del carattere e la maturazione della mente e dello spirito attraverso educazione, esperienza e comprensione culturale. L’UNESCO ha trasformato la cultura in eredità (heritage), concetto riduttivo e localistico, parrocchiale e, in mano a certe persone, pericolosamente nazionalistico e divisivo.
Gian Luigi Corino, docente di Geografia e marketing agroalimentare Università di Macerata, collaboratore Aduc
