Si rinnova la tradizione dei Viaggi penitenziali

“Si rinnova la tradizione dei Viaggi penitenziali: oltre 700 m di processione in ginocchio a carne viva dalla Chiesa San Pietro alla Chiesa Matrice. Senti la pelle delle ginocchia che va via e il sangue che diventa un tutt’uno con la polvere e con la cera delle candele che gocciola a terra dove stai per passare. Quando ti capita una pietruzza che si infilza nella carne viva perdi l’equilibrio e ti fai sorreggere dalla candela”.

 

di ANDREA FILLORAMO

 

Fenomeni tipicamente medioevali, esistenti tutt’ora in zone della penisola italiana con piena soddisfazione dei “laudatores temporis apti”, che al di là di ogni anacronismo, e con una certa superficialità dottrinale da un punto di vista cattolico, ritengono che, in nome di antichissime tradizioni meritano di essere conservati e propagandati, sono quelli dei “penitenti”.

Essi, per una personale interpretazione della religiosità (e soprattutto dei metodi per redimere, agli occhi di Dio, i propri e gli altrui peccati) ricorrono a rinunce corporali, a forme anche estreme penitenziali e a pratiche di autopunizione corporale anche cruenta.

Noto in loro una degradazione, in senso neoplatonico, del corpo umano, che non è integrato nel tutto della libertà dell’esistenza e non è espressione viva della totalità dell’essere, ma viene come respinto. La fede cristiana, al contrario, considera l’uomo sempre come un essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda.

 A questi “neopenitenti” fa inconsapevolmente riferimento il Sindaco di Messina, quando, pubblicizzando e, quindi, facendosi promotore di uno di questi riti che avvengono tradizionalmente a Fiumedinisi (ME), così scrive con una certa retorica – mi si consenta di dirlo – masochistica: “Si rinnova la tradizione dei Viaggi penitenziali: oltre 700 m di processione in ginocchio a carne viva dalla Chiesa San Pietro alla Chiesa Matrice. Senti la pelle delle ginocchia che va via ed il sangue che diventa un tutt’uno con la polvere e con la cera delle candele che gocciola a terra dove stai per passare. Quando ti capita una pietruzza che si infilza nella carne viva perdi l’equilibrio e ti fai sorreggere dalla candela”.

La storia ci ha tramandato il ricordo di molti di questi gruppi, da quelli forse più famosi, i “disciplinati” formati da laici riuniti in congregazioni e confraternite, che si sottoponevano ad una vita di  preghiera e di penitenza, tra le quali privilegiavano le autoflagellazioni, con ciò sostenendo di voler ripetere e provare sul proprio corpo le stesse sofferenze patite da Cristo nella sua passione, fino alle innumerevoli corporazioni dei “flagellanti”, che portarono questa pratica all’esposizione pubblica.

Gli storici identificano i motivi di questa interpretazione della religione e della penitenza nel particolare periodo storico e nel disagio spirituale che segue quello materiale: la difficoltà della vita, le guerre, le malattie, le pestilenze, venivano viste come una punizione divina dei peccati dell’uomo. Oggi concetti del genere vengono universalmente rigettati. Era necessario, quindi, chiedere perdono a Dio, e poiché sembrava che le semplici preghiere e gli usuali riti religiosi non fossero sufficienti, l’unica soluzione era quella di ricorrere a forme più “concrete” per mostrare la propria contrizione.

Quando poi, tra il 1347 ed il 1353, dilagò la Peste Nera, uccidendo almeno un terzo della popolazione europea, il fatto venne visto come una conferma della maledizione divina, accentuando enormemente il fenomeno; e questo nonostante si cercasse, come succede sempre nel caso di grandi disastri, un capro espiatorio in una minoranza etnica. Come altre volte nel corso della storia dell’umanità, anche in questo caso il ruolo toccò agli ebrei, accusati di avvelenare pozzi e spargere la malattia introducendosi nelle chiese cristiane per contaminare panche, muri ed arredi religiosi. 

Se l’indagine storica individua l’origine del fenomeno nel particolare momento sociale di quei periodi, per molto tempo la sociologia ne ha studiato l’aspetto psicologico mettendo in evidenza esclusivamente la prospettiva patologica.

E’ usuale ritenere queste pratiche come una forma di autolesionismo, volto non tanto a mettere fine alla propria esistenza, quanto a ricercare attenzione da parte degli altri, o ad un modo per alleviare una situazione di inconscio malessere personale, un modo per alleviare un disagio psichico sovrapponendovi un dolore fisico, comunicando contemporaneamente agli altri una situazione di anormalità della quale si chiede una conferma sociale.

Per quanto riguarda il giudizio di questi fenomeni nel corso degli ultimi decenni, la Chiesa ufficiale ha mostrato a volte un atteggiamento di ferma condanna, a volte li ha completamente ignorati o osservati con più o meno tolleranza.