L’Islam fa paura, ma bisogna davvero aver paura di una religione?

Mi sono chiesto sempre: “Come si fa a dimostrare che quell’Islam che viene agitato dai jihadisti fatto di pezzetti di versetti del Corano usati per giustificare un odio feroce, è diverso da quell’Islam, quello vero, che è “la radice della parola Pace”?

 

di ANDREA FILLORAMO
L’Islam nell’Occidente fa paura, ma bisogna davvero aver paura di una religione? Questo timore è giustificato?
Mi sono chiesto sempre: “Come si fa a dimostrare che quell’Islam che viene agitato dai jihadisti fatto di pezzetti di versetti del Corano usati per giustificare un odio feroce, è diverso da quell’Islam, quello vero, che è “la radice della parola Pace”?
Diciamolo: nessuno può dimenticare gli attentati dell’11 settembre 2001, le successive guerre in Afghanistan e Iraq.
Nessuno può chiudere gli occhi di fronte all’attuale guerra in Siria, le guerre infinite in tante parti nel mondo, presentate come “guerre di religione” che producono una schiera interminabile di emigrati che bussano alle porte dell’Europa.
Nessuno, infine, può fare finta di niente di fronte ai continui attentati che avvengono dappertutto al grido di “Allah akbar” e tanti – dico tanti – forse superficialmente, gridano allo “scontro di civiltà” tra il mondo cristiano e quello islamico.
Ma, a mio parere, non è così.
A tal proposito, mi piace citare Alfonso Berardinelli che nel “Il Foglio” scrive:
“Quando un conflitto sociale, politico, ideologico, religioso, etnico si esaspera al punto da provocare un numero di vittime così alto da far pensare a una guerra, o a essere di fatto, anche se non formalmente, una guerra, il primo effetto è che le parti in conflitto si mettano a ragionare soprattutto, se non esclusivamente, in termini bellici. Loro vogliono uccidere noi, anzi lo fanno. Quindi noi dobbiamo uccidere loro e dobbiamo anche volerlo con determinazione e senza scrupoli. Quando si impugnano le armi per attaccare e per difendersi, il modo di ragionare si semplifica enormemente e fa a meno di molti dati di conoscenza che un momento prima sembravano ovvi”.
È cosa certa che nei confronti dell’Islam, un mondo e una cultura antica di quattordici secoli ma che si conosce poco e i cui riverberi mediatici sono all’insegna della violenza e dell’intolleranza, la conoscenza da avere sia ancora tanta. Eppure, non c’è altra strada se non la conoscenza che conduce al dialogo. Il futuro immediato delle nostre comunità – sempre più e irreversibilmente plurali – si giocherà sulla capacità o meno di costruire ponti. Un dialogo che non può essere ridotto, da una parte come dall’altra, ad una generica «non belligeranza» o una vaga disponibilità ad accettare la realtà dell’esistenza dell’altro, senza però promuovere un confronto positivo e più profondo. Un dialogo che non si fa con i sistemi, che non ha l’obiettivo di giungere all’unità tra le due fedi né quella di concludere che esse sono, in fondo, uguali, ma che si fa tra le persone concrete, nel luogo e nelle situazioni in cui vivono quotidianamente. Un dialogo – che si nutre di buone pratiche che consentono di cambiare le cose dal basso – che ha l’obiettivo di permettere a ciascuno di vivere al meglio e più in profondità la propria esperienza religiosa e, insieme, individuare una sorta di lessico condiviso sulle questioni di fondo.
Partiamo da una considerazione: l’Islam è una religione con circa 1,8 miliardi di fedeli, ossia il 23% della popolazione mondiale, è la seconda del mondo per consistenza numerica e vanta un tasso di crescita particolarmente significativo.

Il 13% dei musulmani vive in Indonesia, che è anche il paese musulmano più popolato, il 25% nell’Asia meridionale, il 20% nel Vicino Oriente, Maghreb e Medio Oriente e il 15% nell’Africa subsahariana. Minoranze considerevoli si trovano anche in Europa, Cina, Russia e Americhe.
Dobbiamo riconoscere che l’Islam merita ogni rispetto non solo per il numero considerevole di coloro che la praticano ma anche perché, pur con molte differenze, ha più punti in comune con il cristianesimo ed è assieme alla religione cristiana e a quella ebraica una religione monoteistica.
Queste tre religioni, infatti, si pongono nel solco delle religioni abramitiche. Abramo costituisce infatti un importante elemento di congiunzione tra di loro: come figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani sono spiritualmente uniti. Esse, inoltre, non solo credono in un unico Dio, ma credono che la Parola è veicolata da testi scritti.
Nessun sincretismo religioso: ci guardiamo bene! Nessun tentativo di fusione tra dottrine originalmente non convergenti tra di loro. Anche se siamo in un periodo di transizione delle culture occorre evitare di fronte all’influsso di diverse tendenze di pensiero, di mischiare le diverse tendenze o esperienze evitando così un vero discernimento.
Diciamo subito che nell’esperienza cristiana di Dio risaltano alcune caratteristiche fondamentali che non ci sono nell’islamismo: Dio, per i cristiani, è “Padre misericordioso”, che si rivela in Gesù Cristo; in questo dono, Dio scende volontariamente nella condizione dell’uomo per avvicinarlo alla salvezza. La rivelazione piena di Dio all’uomo non è peraltro limitata al tempo circoscritto della vita pubblica di Gesù, ma è resa permanente grazie al dono dello Spirito Santo che rende questa rivelazione presente nella storia e nelle vicende umane.
Ciò non accade nell’Islamismo, dove Maometto non svolge nessuna operazione che può accostarlo a Gesù ma solo una funzione profetica che si esaurisce nella scrittura del Corano, che è il libro Sacro dei Maomettani.
Per gli islamici, Gesù occupa un posto importante nel piano di Dio, Gesù infatti chiamato, “figlio di Maria” è essenzialmente un profeta: un profeta fra i più importanti, uno dei pochi a meritare la qualifica di “Rasul”, ossia Inviato, ma pur sempre e solo uno “strumento” di Dio, un servo dell’Altissimo, su cui Dio si è degnato di far scendere la Sua rivelazione, ma che certo non può pretendere di “condividerne” la Natura, un profeta beneficato da parte di Dio di privilegi unici che nemmeno lo stesso Muhammad ha ricevuto.
Tra questi privilegi, i più significativi sono: la nascita verginale e la preservazione dal “tocco di Satana”. L’Islam condivide con il Cristianesimo l’idea che Gesù sia stato concepito in maniera verginale da Maria, la veneratissima Maryam, forse la figura femminile più amata del mondo islamico. Nel Corano, l’Annunciazione e il concepimento di Gesù sono descritte con parole molto simili a quelle del Vangelo di Luca: “Gesù e Maria rappresentano dunque per l’Islam un’endiade di esseri privilegiati e purissimi, distinti per questo da tutti gli altri uomini, fossero anche i più grandi santi o profeti. Un altro particolare: per il Corano Gesù è autore di miracoli.
L’unico profeta che il Corano presenta esplicitamente come dotato da Dio del dono di compiere miracoli è, ancora una volta, il Figlio di Maria: “Il Corano presenta anche un versetto, davvero unico nel suo genere, in cui il profeta Gesù, fin dalla culla, pronunzia un’autobenedizione diretta alla sua stessa persona: “Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita” (XIX, 33). Un ruolo davvero sorprendente è, al contrario, quello che l’Islam attribuisce a Gesù nello scenario dei Tempi Ultimi. Se sulla fine terrena del profeta non ci sono, infatti, interpretazioni univoche, il Corano afferma però con certezza la sua Ascensione al cielo (“Dio lo ha elevato fino a sé”). Questa Ascensione è vista in funzione di quella battaglia finale che opporrà Gesù il Messia all’anticristo, il Masih al-Dajjal (lett. Il Messia Ingannatore), che nei Tempi Ultimi sedurrà tutti i popoli della terra eccetto i pochi fedeli che rimarranno saldi nella Rivelazione divina.
Alcuni fra i più antichi e venerati hadith (detti) aggiungono particolari importanti a questo scenario: “E mentre egli (il Dajjal) sarà occupato da queste cose, Dio invierà il Messia figlio di Maria che discenderà presso il bianco minareto orientale di Damasco e non è permesso a nessun miscredente di sentirne il profumo senza perire. Quindi lo cercherà, finché lo raggiungerà alla Porta di Ludd (una delle porte di Gerusalemme)” (Muslin, Fitan, 116); “E visto Gesù, il nemico di Dio si scioglierà come il sale si scioglie nell’acqua” (Muslim, Fitan, 60).
L’Islam, dunque, condivide col Cristianesimo l’attesa del ritorno di Gesù: non di un non meglio precisato “messia” o “salvatore” (come in altre tradizioni religiose) ma proprio di questo Gesù che come afferma l’evangelista Luca “tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Ignorare la cultura e la religione di tanti immigranti musulmani non aiuta di certo l’integrazione.
Dobbiamo conoscerci di più per costruire un futuro di pace. È questa la testimonianza che il mondo si aspetta da cristiani e musulmani. Più volte da ambedue le comunità sono stati formulati appelli per denunciare le atrocità di cui, in vari Paesi, sono vittime sia i cristiani che i musulmani.
Occorre passare dalle parole ai fatti. Infatti, le comuni radici sono amore, misericordia, compassione e queste tre parole devono spingerci ad accoglierci fraternamente avendo stima gli uni per gli altri. È di attualità sorprendente quanto è stato detto, cinquant’anni fa, dal Concilio Ecumenico Vaticano II:
«La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce.”