LA VIOLENZA ISLAMISTA SULLE DONNE CRISTIANE IN NIGERIA

Ogni anno, giustamente, per la giornata contro le violenze sulle donne, si condanna senza se e senza ma, questo odioso abuso degli uomini sulle donne. Però c’è un tipo di violenza sulle donne, del quale i talk show non si occupano, e per il quale non si organizzano manifestazioni. È il genere di violenza che sono costrette a subire le donne in Medio Oriente e in Asia. In molti Paesi e non solo quelli di religione islamica, le donne in quanto donne sono considerate inferiori e che sono trattate come tali senza troppi mezzi termini. Su questo tema ormai da tempo le nostrane femministe non vedono e non sentono.

Tuttavia, tra esse, esiste un sottogenere, si tratta delle non musulmane, le “infedeli”, le cristiane, equiparate alle bestie. Forse anche meno. L’odio e il disprezzo islamico è rivolto in particolare a loro. È la donna non musulmana l’oggetto preferito della persecuzione islamica. Stando ad un recente studio pubblicato da Open Doors, «le donne cristiane sono tra le più violate al mondo, forse in una maniera che non ha precedenti». I dati diffusi certificano la media di sei donne stuprate ogni giorno solo perché cristiane. «Dobbiamo alzare la nostra voce, tutto ciò è ormai prassi», ha denunciato il presidente e CEO di Open Doors USA, David Curry.

Per molti è la sharia a prescrivere queste violenze. L’argomento è stato più volte  dibattuto sulla responsabilità più o meno della legge islamica, nota per la sua severità, e che dà agli uomini il diritto, l’autorità di picchiare le donne. Certo un’altra cosa è il fondamentalismo islamico, praticato dall’Isis e da altri gruppi di banditi come Boko Haram, el Shahbab, che usano la religione per i loro scopi di terrore. Tuttavia, «nell’immaginario islamico la donna è paragonata al cane o all’asino; la donna è in sé  motivo di disturbo per gli uomini, li distrae dalla preghiera; occorrono due donne per una testimonianza che possa avere la stessa valenza di quella di un uomo – una da sola non basta; una donna che disobbedisce va punita e percossa. E se la donna in questione è una “crociata”, ogni cosa assume dimensioni terrificanti». (Lorenza Formicola, “Violenze islamiche sulle donne: il silenzio dei media”, 20.7.18, FILODIRITTO).

Le donne non musulmane sono subumane che gli islamici, e le organizzazione jihadiste, dall’Isis a Boko Haram, vendono, comprano, stuprano, mutilano, spellano, bruciano. E non solo nel lontanissimo Medio Oriente.Le pratiche hanno una diffusione sproporzionata nella civile Europa. Sono ormai numerosi gli esempi di violenza e maltrattamenti che si possono citare anche nelle strade delle nostre città.

In questi giorni sono riuscito a leggere un interessantissimo testo sulle violenze subite dalle donne cristiane, ma anche musulmane, nella Nigeria, dove imperversano le milizie jihadiste di Boko Haram. Si tratta di un’impressionante reportage scritto da una giornalista tedesca Andrea C. Hoffman, Sono stata all’inferno. In fuga da Boko haram assieme a mia figlia”, Centauria S.r.l. Milano (2017).

Nella Nigeria del Nord si sta compiendo uno dei peggiori crimini contro le popolazioni cristiane. I miliziani jihadisti di Boko Haram, un’espressione che significa, “l’educazione occidentale è peccato”, sono una vera e propria macchina del terrore, guidati dal leader Shekau, un’armata di 50 mila uomini che intende instaurare uno stato islamico. Per questo scopo si comportano come i miliziani comunisti del maresciallo Tito in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia nel 1943-45. Terrorizzano in tutte le maniere la popolazione cristiana per costringerla ad abbandonare villaggi e territori del Nord Nigeria.

Giusto ieri l’ultimo massacro di innocenti, almeno 110 civili sono stati uccisi nel villaggio di Koshobe, nel nordest agricolo della Nigeria.

I miliziani jihadsti  «hanno assalito uomini e donne che si trovavano a lavorare nei campi. L’accusa è insensata: questi contadini avrebbero fornito delle informazioni alle forze governative o, in ogni caso, sarebbero state loro troppo vicine. È chiaro invece che gli jihadisti vogliono colpire al cuore il paese mentre, per la prima volta dopo 13 anni, si stavano svolgendo delle libere elezioni». (Mauro Leonardi, Strage in Nigeria. 110 morti, il primo alleato di Boko Haram è la nostra indifferenza, 30.11.20, ilsussidiario.net).

L’organizzazione, alleata con l’Isis, è nata nel 2002 e vede l’occidente come elemento corruttore dell’islam. Il movimento divenne tristemente famoso nel 2014 per le 276 ragazze rapite da un collegio di Chibok sempre nello Stato del Borno.

«I fondamentalisti agiscono secondo un’ottica suicida e demoniaca: colpire la gente che lavora in una nazione africana già vessata da enormi problemi economici e sociali. C’è una miopia crudele che mentre usa la propaganda anti-occidentale, continua a vessare proprio i più deboli e condanna alla povertà e alla guerra un Paese che millanta di “voler liberare”».

Ritornando al libro di Andrea Hoffmann, è nato da un incontro con Patience, una giovane mamma nigeriana cristiana (la Chiesa dei fratelli) che, a diciannove anni viene catturata dai jihadisti, dopo che ha visto uccidere davanti ai suoi occhi il proprio marito, anche lui cristiano.

E’ proprio Patience, la protagonista di questa testimonianza, che è probabilmente più potente in forma scritta di quanto non lo sarebbe in versione filmata. Anche perché alla giornalista tedesca – che nel libro si alterna al racconto della giovane rapita da Boko Haram per due volte, aiutando il lettore a contestualizzare – sono serviti lunghi giorni di delicato incontro, ancor più che di “intervista”, con Patience. Non è stato facile raccontare tutto quello che ha subito la giovane nigeriana. Non esagero se scrivo che Patience ha subito una vero e proprio calvario, E’ stata sul punto di interrompere la stessa intervista.

Appena diciassettenne, Patience è già vedova, ritorna dalla sua famiglia, e dopo qualche tempo si ritrova, lei, cristiana, a essere la seconda moglie di un uomo (Ishaku) che comunque ama. Intanto Boko Haram incombe sempre più. Sarà catturata, nelle prime settimane di gravidanza, costretta ad affrontare assieme alle altre ragazze le marce forzate, (quando era già a conoscenza delle ragazze di Chibok). Assiste impietrita a cose irriferibili (donne incinte sventrate, cannibalismo…).

Con l’aiuto di un jihadista dal volto umano (Petrus), che lei scopre essere stato cristiano, riesce a fuggire. Ma sarà ben presto catturata di nuovo. Ancora riuscirà a fuggire, grazie a un altro jihadista impietositosi di lei. Ritroverà fortuitamente, in un improvvisato campo profughi in Camerun, il marito. Ma anche lì piomba d’improvviso Boko Haram. Attacca e stermina gli uomini, tra cui il suo sposo Ishaku, di cui vedrà la testa mozzata. Poche ore dopo, partorisce. Da sola, in foresta. Riuscirà poi, aiutata dalle mogli dei soldati alla frontiera, a ritornare in Nigeria, a Maiduguri: ormai il suo villaggio è terra bruciata. Chi le dà la forza di andare avanti è Gift, che vuol dire “dono”: questo il nome che scelto per la sua bambina. «Non sono così ottimista per poter dire di essermi lasciata il peggio alle spalle, ma sono sicura che per me e Gift il meglio debba ancora venire».

Il merito di “Sono stata all’inferno”, è non solo di raccontarci una storia che andava fatta conoscere e di farci penetrare nella quotidianità delle prigioniere e prigionieri di Boko Haram, ma anche di farci entrare nell’ambiente culturale locale, con i suoi valori e anche le sue crudeltà.

A cominciare dall’accoglienza che riserva la famiglia a Patience. E’ un’accoglienza quasi fredda. «Sarà stata senz’altro “moglie” o comunque vittima di stupro – e qui lo stigma pesa più della pietà – dei jihadisti. Oppure, una potenziale kamikaze: «”Le mogli dei guerriglieri di Boko Haram sono spietate” dice Patience. “Molte si convertono durante la prigionia”. “Ci hanno provato anche con te?” mi spingo a chiederle alla fine. Patience tiene lo sguardo fisso a terra. “Sì, certo” risponde a voce bassa, cullando sua figlia».

Un altro merito del libro è quello di far risuonare «la sofferenza, la tenacia e il coraggio di una moltitudine di donne che combattono e soffrono in troppi terribili scenari del mondo. Un racconto mozzafiato, una testimonianza unica su una tragedia di cui sappiamo assai poco, un inno alla libertà femminile al di là di ogni etnia, di ogni religione, di ogni distanza geografica, in nome di quel luminoso, irrinunciabile valore assoluto che è la vita».

DOMENICO BONVEGNA

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