La gioventù cattolica a Messina negli anni del Post Concilio

La gioventù cattolica a Messina negli anni del Post Concilio. Nell’anniversario della morte del prof. Matteo Durante, venerdì 29 novembre alle 15,30 nel Salone dell’Azione Cattolica in via I Settembre 117, si è tenuto un incontro, patrocinato dall’Associazione “Intervolumina”, dall’Azione Cattolica dell’Arcidiocesi  di Messina, Lipari e Santa Lucia del Mela  e dal Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina, dal titolo: La gioventù cattolica a Messina negli anni del Post Concilio.

Ricordando Matteo Durante” volto ad illustrare la figura del docente universitario già esponente di primo piano della Gioventù cattolica messinese. Molto partecipata l’iniziativa che ha dimostrato l’affetto e l’apprezzamento di quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Nell’impossibilità di essere presente e di dare la mia testimonianza diretta, ho fatto pervenire online il mio contributo che è stato letto e, quindi, fatto conoscere e che qui pubblico per quanti non hanno partecipato all’iniziativa.

 

di ANDREA FILLORAMO

 

Con la morte di Matteo Durante una parte della mia vita, quella più bella coincidente con la mia giovinezza, se n’è andata via con lui. Erano quelli gli anni ormai lontani, in cui io ero assistente diocesano degli Aspiranti della Gioventù Cattolica e Matteo era delegato.

Non mi giunse improvvisa la notizia della sua dipartita. Sapevo, infatti, della terribile malattia che l’ha portato alla morte; egli ne parlava al telefono con me, informandomi del suo decorso clinico, che purtroppo non lasciava molte speranze. Io, tuttavia, contavo nel miracolo della sua guarigione che speravo avvenisse per l’intercessione di Mons. Francesco Fasola, con il quale eravamo stati ambedue legati da filiale affetto, per la cui causa di beatificazione Matteo si era battuto tanto da contribuire in modo determinante alla ricostituzione della Commissione Storica dell’inchiesta diocesana sulle virtù eroiche, avvenuta il 1 luglio 2018 e della quale egli faceva parte. Nello stesso giorno manifestava la sua soddisfazione, mandandomi online la locandina dell’avvenimento e scrivendomi: “Sono molto contento di come le cose stiano andando avanti!!”.  

Conservo ancora, memorizzati nel cellulare i suoi messaggi. In essi l’argomento più frequente era – e non poteva non essere – la sua salute che destava serie apprensioni. A tal proposito in un SMS del 27giugno 2018, sentendomi preoccupato, mi scriveva in modo lapidario: “tranquillo abbi fede”. Da osservare che l’etimo “tranquillo” che come si sa, è una parola comune facile da trovare e da usare, in quel particolare contesto, esprimeva l’invito a una serenità sostenuta dalla certezza della fede.  

Il 7 settembre 2018, inoltre, alle ore 10,21 nell’attesa di un incerto e assai problematico intervento chirurgico, mi scriveva: “oggi pomeriggio in sala operatoria. Urge preghiera speciale alla Madre, grazie Andrea”. In seguito a questo SMS le sue condizioni disperate mi venivano comunicate da Maria, la moglie, tranne un brevissimo ma intenso e indimenticabile contatto telefonico che ho avuto direttamente con lui. Era l’ultimo saluto prima che sorella morte se lo portasse via. Sorella morte? Proprio così. Per Matteo la morte era come per Francesco d’Assisi una sorella ed egli poteva ripetere con il Poverello d’Assisi, come aveva fatto tante volte nelle sue lezioni: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, dalla quale nullu homo vivente po’ scappare”. La morte da Matteo, come dovrebbe essere per ogni cristiano, era vista non come porta che si chiude sulla vita, ma come porta che si apre sulla nuova e definitiva vita.

Matteo da tempo era preparato a questo grande passo, in pieno contrasto con chi pone una sorta di censura culturale che esclude la morte dai discorsi socialmente accettabili e che vive, perciò, in una “bolla”, dimenticando ciò che, alla fine, può dare un senso all’esistenza. Troppe volte, come diceva lo scrittore Charles Dickens, “si muore a 27 anni, ma si viene seppelliti a 72”. Matteo aveva più paura di una vita sbagliata, vuota e inutile che della morte.

Ricevuta la dolorosa notizia della morte di Matteo, immediatamente quasi mi sono vergognato di essergli sopravvissuto. È proprio vero: quando una persona cara se ne va, si ha la strana percezione d’essere stato come tradito. Pensi che non ti abbia voluto compagno di viaggio e la cerchi dentro di te per spiarne la figura impressa nella memoria, immersa nell’ombra; ritornano nelle tue orecchie gli echi della sua voce, anche se disfonica come quella di Matteo. Allora resti muto, senza fiato, guardi ma non vedi. Ti senti immerso nella nebbia e non sai che direzione prendere. Proprio allora ricordi forse quanto hai letto casualmente in un blog che hai trovato nella Rete: “Nei giorni di nebbia puoi smettere per un attimo di guardare, puoi respirare ed ascoltare…chiudi gli occhi e concentrati sulle tue sensazioni, perché anche un giorno di nebbia non è per caso”.  Ti colpiscono, così, improvvisamente dei flash con cui tornano alla mente frammenti di memorie poste in parti recondite del tuo subconscio, che ti permettono di riesprimere emozioni apparentemente dimenticate.  

Sono tornato così con il ricordo, nella sua casa ultrapopolare di Piazza del popolo a Messina dove in quel mattino di tanti anni fa è morta la sua mamma. Mi aveva telefonato, alle prime luci, dicendomi: “Vieni, Andrea, è morta mia mamma”. Lo raggiunsi subito, guardai, vidi davanti a me un giovane uomo, che dimostrava una forza morale incredibile, nessuna lacrima bagnava i suoi occhi, eppure sapevo quanto amasse quella donna, madre di un unico figlio. Sapeva bene che la madre non l’avrebbe abbandonato. Scriveva S. Agostino nelle sue Confessioni quando ha perso anche lui la madre: “Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo”.

Diciamolo chiaramente: non era una persona facile Matteo, non lo è mai stato, non lo era da giovane e non lo è stato da adulto; ha sempre avuto più passione che certezze da dare. In lui coesistevano (mi scuserà il prof. Durante se gli rubo il mestiere) il fanciullino di pascoliana memoria che se ne stava sempre in un cantuccio della sua anima, che guardava tutte le cose con stupore, con aurorale meraviglia e il professore universitario a volte severo ma sempre rigoroso. Da questa solo apparente contraddizione nasceva il suo rapporto con gli altri. Egli si relazionava con il prossimo, infatti, con modi che potevano apparire sbrigativi, che sembravano supponenti: ma egli sapeva come farsi avanti non appena intuiva negli altri l’esistenza di una difficoltà; sapeva come mettere gli altri a proprio agio, nelle situazioni in cui si sentivano esposti e indifesi; sapeva sciogliersi in un sorriso, portando una nota gentile di freschezza e leggerezza; sapeva aprire gli occhi avanti allo spettacolo incantevole del mondo.

Lo rividi ancora il giorno del suo matrimonio, una meravigliosa unione, con Maria, festeggiato con tutti gli amici nel Salone dell’Azione Cattolica del Palazzo Arcivescovile.

Ho pensato infine ai tempi della nostra collaborazione nella Gioventù cattolica non solo ai Convegni al Mondo Migliore di Ariccia o di Gambarie ma particolarmente quando con la mia vecchia cinquecento raggiungevamo le parrocchie della vasta arcidiocesi. Ci sentivamo allora ragazzi con i ragazzi e, quindi, ci impegnavamo ad essere sempre giovani. Ci convinceva Bob Dylan quando diceva: “Essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro”.

Erano allora quelli gli ultimi anni sessanta, quelli della contestazione giovanile, dei postumi del Concilio Vaticano Secondo che ci ha visto ambedue e altri impegnati nella Gioventù Cattolica a vivere e a far vivere, quella che consideravamo la primavera della Chiesa che volevamo cambiare “ab imis”, “a fundamentis”. Volevamo tornare alle fonti, all’inizio dell’esperienza cristiana, alla comunità degli Atti degli Apostoli. Eravamo convinti che la Chiesa si lasciasse interrogare dalla storia e per questo scrutasse i segni dei tempi. Il rinnovamento era la nostra parola chiave. Cantava Giorgio Gaber, nel 1965, in una delle sue ballate: “e la Chiesa si rinnova per la nuova società e la Chiesa si rinnova per salvar l’umanità…”; a documentare come anche la società del tempo avesse percepito quanto stava accadendo nel mondo ecclesiale.

Ci eravamo forse, però, illusi di essere dei coprotagonisti di una rivoluzione, che a nostro giudizio doveva avvenire subito – era questa la fretta tipica dei giovani – ma che mai, però, è avvenuta; allora eravamo solo un poco ribelli ma non potevamo essere rivoluzionari. A posteriori oggi siamo obbligati ad affermare che non volevamo la rivoluzione. Del resto, persino Manzoni, il paladino del conservatorismo borghese, nella sua gioventù si atteggiava a ribelle e… “libertario”. ma un conto è essere ribelli e un conto è essere rivoluzionari. Raramente il ribellismo si accorda con la Rivoluzione. Resta il fatto che ancor oggi la Chiesa si trascina fra contraddizioni, ipocrisie, scandali, fiumi di denaro, dentro i quali non pochi uomini della Chiesa amano annegare, vizi e peccati ben occultati allora, coperti da segretezza e che oggi esplodono, come bubboni, sotto gli occhi di tutti.

Matteo – e di questo abbiamo parlato a lungo commentando un mio articolo su ImgPress, si aspettava e voleva una riforma che partisse dalla piaga degli abusi che come un’onda torbida travolge oggi pezzi di chiesa a ogni latitudine del globo, preti e vescovi trascinati in tribunale dopo essere stati esposti al pubblico ludibrio, accusati di aver taciuto e mentito per interi decenni. Matteo Durante aveva tanta fiducia e stima in Papa Francesco, ma era consapevole che il pontefice avrebbe potuto far poco al di là della decapitazione di interi episcopati come quello già agonizzante cileno, di obbligare al silenzio cardinali un tempo giramondo ai quali ha tolto d’imperio anche la porpora, di assicurare piena collaborazione con le procure al di qua e al di là dell’oceano. Sono queste delle toppe che reggeranno – se reggeranno – per un po’, ma è come svuotare il mare con un cucchiaio e concludeva dicendomi: “Lo sa bene il papa e lo sanno bene anche i suoi collaboratori”.

Erano quelli gli anni, infine, degli abbandoni del ministero sacerdotale, dei quali oggi poco si parla. Da allora, infatti, circa centomila preti nel mondo hanno lasciato l’esercizio del sacerdozio. Ovviamente le cause degli abbandoni, almeno quelle dichiarate, sono molto varie e non si limitano ai preti che vogliono sposarsi ma non mancano casi di crisi di fede, di conflittualità con i superiori o di difficoltà con il magistero o di mancata “metanoia” della Chiesa, cioè di mancanza della sua riconversione attraverso un profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire. Di qualcuno di loro Matteo ha seguito affettuosamente e con grande discrezione il doloroso itinerario dell’abbandono. Ne difese rispettosamente la scelta anche da chi ipocritamente cercava di demolirne il passato, ha fatto da testimone al suo matrimonio religioso, una volta avuta la dispensa dagli obblighi sacerdotali. L’ha sempre considerato un prete che ha seguito la sua coscienza dimostrando tanto coraggio nell’intraprendere una nuova vita, senza sbattere la porta al passato e, la cosa più importante, conservando la fede.

Concludo con una semplice considerazione: Matteo Durante è conosciuto particolarmente perché è stato un brillante professore universitario di letteratura italiana, ma non bisogna dimenticare che è stato anche un uomo di fede, di una fede rinsaldata e fatta operativa all’interno dell’associazionismo cattolico e precisamente all’interno dell’Azione cattolica, che ha favorito l’acquisizione nella Chiesa dell’importanza della soggettività dei laici, cioè di tutti i battezzati ed è diventato il modello di riferimento per pensare alle caratteristiche di ecclesialità delle diverse forme di laicato associato che negli anni precedenti e successivi al Concilio hanno arricchito il panorama ecclesiale.