La cartina della felicità: Voi mi cercate perché vi ho sfamato, non perché credete in me

Carissimi amici,

in questo mese di Settembre che funge da cerniera fra un’estate rovente e l’inizio delle attività pastorali, desidero riprendere la riflessione sulla pagina del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, Gesù pane di vita, pagina che ci ha accompagnato per cinque domeniche nei mesi di Luglio e Agosto.

A mio avviso, è opportuno ritornare e porre l’attenzione sull’intero capitolo per meglio riscoprire e motivare il centro della nostra fede in Colui che, mediante il dono del suo corpo e del suo sangue, alimenta la nostra vita e comunica a noi l’amore del Padre. Per meglio comprendere e gustare gli stimoli che derivano da questa pagina evangelica, vi chiedo di prendere in mano il testo di S. Giovanni e rileggere con calma tutto il capitolo 6. È questa, di certo, una premessa necessaria. Suddetto capitolo, infatti, si apre con il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, episodio dal quale trasuda che la preoccupazione principale di Gesù è la fede dei suoi discepoli, che intendeva mettere alla prova (Gv 6,6), mentre la risposta che questi danno al Maestro si snoda attraverso la constatazione scettica e desolata dell’impossibilità di poter soddisfare la fame di tantissime persone:

Cinque pani d’orzo e due pesci… ma cos’è per tutta questa gente” (Gv 6, 8- 9).

 

È triste osservare che, mentre i discepoli lamentano l’incapacità di coinvolgere loro stessi in un gesto oblativo, il fanciullo senza nome, al contrario, dà tutto ciò che possiede, dona con generosità il suo nutrimento. Qui emerge un primo insegnamento per la nostra vita spirituale: la grazia germina sull’offerta di quel poco che abbiamo e siamo, perché non dovremmo mai sentirci padroni dei bisogni immensi della Chiesa e del mondo, ma “collaboratori” della grazia che il Signore riversa abbondantemente, moltiplicando i nostri “piccoli e pochi pani e pesci”. L’atteggiamento che il Vangelo ci richiede nei confronti di Gesù è quello della fiducia, ovvero una fiducia capace di riconoscere che tutto è già un “segno”, un “miracolo” o, per dirla con il finale del Diario di un Curato di campagna (Bernanos), “tutto è grazia”. La difficoltà, di certo, rimane quella di saper leggere i segni quotidiani della grazia che abbondantemente si riversa nelle nostre vite.

Compiuto il “segno”, Gesù in fretta allontana i Dodici e, per pregare, si ritira verso la montagna, con il favore del sonno che vince le sue pecorelle, distese ancora sull’erba odorante… I discepoli, però, per raggiungere il luogo dell’appuntamento, faticano a remare contro vento. Ma il Maestro che cammina li riunisce all’alba, vedendoli “agghiacciati dal terrore” (Gv 6,19) e li rassicura:

Sono io, non abbiate paura” (Gv 6,20).

Sembra paradossale, eppure i Dodici sperimentano che la presenza del Signore può essere molto più insopportabile della sua assenza. Gesù li rassicura non tanto del fatto di essere lasciati soli o della solitudine ancor più profonda della sua compagnia, quanto del non avere alcun timore davanti a Lui. Non devono avere paura dei suoi “segni” e neppure del suo essere straordinario.  È bene fermarsi a riflettere su queste parole di incoraggiamento che Gesù, oggi, rivolge anche a noi provati nel “corpo e nello spirito” dalla pandemia e dalla morte di tante persone a noi care.

Troppe volte abbiamo rivissuto l’esperienza di trovarci sbattuti dalle onde dello smarrimento, ma in numerose circostanze Gesù ha continuato a ripeterci: “non temere!

È Lui che ci aiuta a portare l’angoscia umana, perché conosce la paura ed ha sperimentato l’angoscia che dobbiamo in un certo senso condividere, accogliendolo sulla nostra barca per arrivare al porto sicuro (cfr. Gv 6,21).

Intanto la gente, entusiasta e sfamata dal prodigio della moltiplicazione, cerca disperatamente Gesù (per farlo re) e approda a Cafarnao, dove in modo chiaro il Cristo smaschera le vere intenzioni di questa folla numerosa:

Voi mi cercate perché vi ho sfamato, non perché credete in me” (Gv 6, 26).

Qual è la molla della nostra ricerca di Gesù? Se vi fossero motivi dettati dalla necessità materiale o dal momento di emergenza e non dalla fede vera ed autentica che si esprime nel compiere “l’opera gradita a Dio”, cioè fare del Figlio il motivo della nostra esistenza, saremmo veramente lontani dalle sorgenti della vita che sono in Lui. Ingannando noi stessi, abbiamo perso solo tempo!

Tuttavia la gente, con la pancia piena e con la pretesa di dover essere ancora sfamata, reagisce con estrema turbolenza alle parole di Gesù e gli obietta:

Se vuoi che ti crediamo, devi compiere altri segni (miracolosi)

I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto…

quello sì che fu un grande miracolo” (Gv 6, 30-31).

Borbottii, rimbrotti, chiacchiere interessate, vaniloqui, pettegolezzi, malignità!

Ieri come oggi, nutriti, restiamo sempre insoddisfatti di ciò che abbiamo, di ciò che siamo…

Il Maestro risponde con durezza e fermezza al punto che gli ascoltatori non restano solo colpiti, ma principalmente sconvolti:

Io sono il pane disceso dal cielo.

Chi viene a me non avrà fame. Chi crede in me non avrà sete, mai” (Gv 6, 35).

“Io sono” – e non altri – Colui che sfama e sfama in modo unico e definitivo: questo è il significato profondo del prodigio operato. Infatti, il Cristo nel saziare in modo miracoloso la loro fame fisica, li dispone ad accogliere l’annuncio che Egli è il pane disceso dal cielo (cfr. Gv 6,41), che sazia in modo decisivo.

Un grande teologo, Romano Guardini, commentando questa espressione scrive: “È una questione di vita o di morte: o sono pronti ad accogliere la vera rivelazione (…) o esigono di giudicare la possibilità della rivelazione secondo i loro presupposti. Nessuna parola di aiuto o di spiegazione; solo la richiesta di decidere”.

Amici cari, pensiamo a tutte le volte che ci mettiamo a “contrattare” con il Signore.  Riflettiamo.

Quante volte noi per primi abbiamo banalizzato il nostro rapporto con l’Eucaristia?

Quando decidiamo che una frequenza assidua e proficua dell’incontro settimanale o quotidiano sia roba di “vecchiette” che non hanno nulla da fare e possono trovare il tempo di andare in chiesa o quando decidiamo di essere noi presenti per ricordare al Signore che il nostro conto con Lui è in credito di favori, non sono forse queste azioni lontane dal vivere l’Eucaristia quale rendimento di grazie e unione intima con Colui che sazia e disseta con acqua viva che zampilla?  È comodo o superficiale pensare che solo perché mi nutro quotidianamente del Pane di vita, ho un corretto comportamento o atteggiamento cristiano. Attenzione a non far diventare l’andare a messa una pura routine o un atto monotono dovuto che si ripete con una cadenza temporale, giornaliera o settimanale che sia: la Comunione non è un gesto giuridico né filantropico né emotivo, ma un evento di grazia, un dono di Dio che, vissuto insieme tra battezzati, diventa una realtà vitale sacramentale. Per ciascuno di noi l’Eucaristia deve diventare il quid e il quomodo della nostra vita quotidiana, un modus vivendi, un segreto di riuscita, un elemento costitutivo, una mentalità, un impegno a metterci a disposizione di Dio.

Impariamo a vivere di Eucaristia e a trasformarci in Eucaristia.

A tal fine, sarebbe opportuno e interessante leggere con calma le catechesi di papa Francesco raccolte nel volume, “L’EUCARISTIA, CUORE DELLA CHIESA”.

Così facendo e pensando, abbiamo veramente accolto la provocazione del Maestro che vuol diventare sostanza e forza della nostra vita?

Abbiamo sperimentato che Lui è vera carne, vero sangue, vero cibo e vera bevanda (cfr. Gv 6,52-56)?

Questo è il punto discriminante della nostra fede, negando il quale, di fatto sconosciamo il mistero dell’Incarnazione, della Trinità, della Chiesa.  Questa realtà non interessa un fatto di sentimento o di sentimentalismo, ma l’entrata nel Regno di Dio.  Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, spiega così: «erano lontani da quel pane celeste, ed erano incapaci di sentirne la fame. Avevano la bocca del cuore malata… Infatti, questo pane richiede la fame dell’uomo interiore» (Omelie sul Vangelo di Giovanni, 26,1).

E dobbiamo chiederci se noi realmente sentiamo questa fame, la fame della Parola di Dio, la fame di conoscere il vero senso della vita. Solo chi è attirato da Dio Padre, chi Lo ascolta e si lascia istruire da Lui può credere in Gesù, incontrarLo, nutrirsi di Lui e così trovare la vera vita, la strada della vita, la giustizia, la verità, l’amore.

Sant’Agostino aggiunge: «il Signore affermò di essere il pane che discende dal cielo, esortandoci a credere in Lui. Mangiare il pane vivo, infatti, significa credere in Lui. E chi crede, mangia; in modo invisibile è saziato, come in modo altrettanto invisibile rinasce a una vita più profonda, più vera, rinasce da dentro, nel suo intimo diventa un uomo nuovo».

Finito il discorso in Cafarnao, San Giovanni scrive che Gesù si allontanò con coloro che abitualmente lo seguivano dal luogo ove era convenuta molta gente. Ora, molti dei suoi discepoli, avendo sentito dire – Questo linguaggio è duro! Chi può intendere il significato di queste cose? (Gv 6, 60) – cominciano ad allontanarsi e mormorano contro di Lui. Al gruppo sparuto che resta Gesù rivolge una domanda inquietante: “Volete andarvene anche voi”? (Gv 6, 67), e subito Pietro professa la sua scelta radicale di sequela:

Signore, da chi andremo? Solo Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).

Quali sono le ricadute, nella nostra vita, di questo dialogo serrato fra Gesù e i suoi discepoli?

Penso che abbia un peso specifico nella vita di ogni giorno, perché quotidianamente sembra che ci allontaniamo da Gesù circa il mistero dell’Eucaristia (perché questo è il sottofondo di tutto il capitolo preso in esame), quando tocchiamo con mano che senza di Lui ci perdiamo sempre di più, smarriamo il senso delle cose e di noi stessi. Rileggiamo tutto il racconto per scoprire che alimentarsi di Gesù significa associare la propria vita alla sua, così che diventi unica. Il Cristo sazia l’uomo con la sua vita, un infinito dentro le creature, e l’uomo sente e vede il volto vero di un Dio che vive nell’umanità.

  1. Giovanni ci ricorda che il gesto di Gesù, all’inizio del racconto e nel successivo commento a quanto accaduto, “espropriando” il pane nella sua funzione di alimentare la vita degli uomini, ha consegnato la sua persona, la sua vita per la salvezza del mondo e non del singolo. Vuole che ogni credente faccia ciò che ha fatto Lui per ciascun essere umano. È il mistero che ruota attorno all’espressione:

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6, 56).

 

Nutriti del Suo corpo, lasciamo che la nostra vita possa essere “mangiata” dagli altri perché abbia il gusto del dono incommensurabile dell’amore del Signore. E, usciti dal Cenacolo di Gerusalemme con il Paraclito nel cuore, si possa essere testimoni a tempo pieno per la liberazione dell’uomo.

Invocando Maria Santissima, chiediamole di guidarci all’incontro con Gesù perché la nostra amicizia con Lui sia sempre più intensa; chiediamole di introdurci nella piena comunione di amore con il suo Figlio, il pane vivo disceso dal cielo, così da essere da Lui rinnovati nell’intimo del nostro essere.

 

Ettore Sentimentale

parrocchiamadonnadelcarmelo.it