Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: Non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca

di ANDREA FILLORAMO

Non è passato molto tempo da quando Papa Francesco nella Basilica di San Pietro ha avviato ufficialmente il cammino sinodale, esortando la Chiesa a un esame di coscienza sulla sua capacità di incarnare – come lui ha detto – “lo stile di Dio”.

“Non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca”: Così disse il Pontefice.

Se osserviamo bene,  questa frase del Papa, non contiene un gioco di parole ma esprime sinteticamente, in modo lapidario, quanto incisive e profonde siano le trasformazioni che negli ultimi trent’anni hanno conosciuto un’accelerazione che non è esagerato definire inedita nella storia stessa dell’umanità, che non può non rivedere alcune posizioni della Chiesa, che sono arcaiche, obsolete, che allontanano intere generazioni dalla pratica religiosa e, quel che è più importante, dalla stessa fede e che operano, quindi, uno scollamento della stessa Chiesa con la realtà sociale e culturale e che rischiano in un breve tempo a portare al declino definitivo del cattolicesimo, di cui non è difficile individuare alcuni segni.

Il Papa, pertanto, all’inizio del cammino sinodale, ha posto una serie di domande, sotto forma di esame di coscienza, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” e in quella omelia disse: “Oggi, aprendo questo percorso sinodale, iniziamo con il chiederci tutti – Papa, vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, sorelle e fratelli laici, tutti i battezzati – : noi, comunità cristiana, incarniamo lo stile di Dio, che cammina nella storia e condivide le vicende dell’umanità? Siamo disposti all’avventura del cammino o, timorosi delle incognite, preferiamo rifugiarci nelle scuse del “non serve” e del “si è sempre fatto?”.

Da allora sono passati 18 mesi e, ascoltando l’invito del Papa, in tutto il mondo cattolico è stato messo in moto un processo di revisione, di rinnovamento e di aggiornamento della dottrina, della struttura, della concezione stessa dell’essere Chiesa, sollevando problematiche che mettono in discussione praticamente l’intero edificio ecclesiastico.

Vari sono stati e continuano ad essere trattati temi ritenuti importanti. Fra questi: la questione femminile (incluso il sacerdozio), gli abusi clericali, il clericalismo, l’abolizione del celibato obbligatorio, l’apertura a persone lgbtq, l’accoglienza piena per divorziati risposati, la revisione dell’insegnamento sulla sessualità, la trasparenza nell’esercizio e nella gestione del potere, il ruolo dei laici, la povertà, le migrazioni, la salvaguardia del Creato.

Da più parti d’Europa, particolarmente là dove più attivi sono stati gli episcopati nella realizzazione del cammino sinodale, già sono giunte richieste di cambiamenti anche radicali come per esempio dalla Germania, dal Portogallo, dalla Spagna, dall’ Irlanda.

E in Italia? Il cammino sinodale, a mio parere, nel nostro Paese, va a rilento e può esserci una spiegazione; il cattolicesimo italiano è tipicamente tradizionalista. Il tradizionalismo, per buona parte dei vescovi e dei preti non ha alternativa; è quel sistema filosofico-teologico che, a loro parere e, quindi, a loro convincimento è l’unico sistema che garantisce la presenza della Chiesa nella società, pronto sempre a  polemizzare all’interno degli ambienti ecclesiali contro la legittimità di un aggiornamento ecclesiale di carattere dottrinale e pastorale, contro possibili realizzazioni, e principalmente contro l’ipotesi di avviare un dialogo autentico  tra Chiesa e modernità.

La modernità con i suoi principi filosofici è considerata per molti vescovi la causa prima di un pericoloso relativismo e snaturamento del bimillenario depositum fidei della Chiesa.  

La tradizione, fatta di dottrine, riti e credenze, pertanto, diventa, per loro, un archetipo ipostatico, alieno alla storia e alle sue dinamiche, considerate le premesse di un’insanabile pensata corruzione del patrimonio della fede cristiana.

Non si tiene conto che alcune tra le principali forme storiche della Chiesa, relative al dogma, alla morale, alla liturgia, alla disciplina e all’istituzione, estrapolate acriticamente dalla dinamica storico-ecclesiologica, divengono espressione di una riflessione sclerotizzata perché nettamente separata dalla storia.

Per tali motivi i vescovi e la stessa CEI hanno oscillato fra la riluttanza e la ricerca del significato del Sinodo, rischiando di far diventare la sinodalità una questione di facciata, soltanto una cerimonia senza conseguenze, incapace di affrontare i tratti problematici, lasciando quindi intoccate strutture o dinamiche nella Chiesa.

Occorre, quindi, una presa di coscienza collettiva della Chiesa Italiana per far guardare al Sinodo come cassa di risonanza del Vangelo, per avviare un processo che non si limita ad azioni adattive, a ristrutturazioni messe in atto a partire da ciò che manca o dai problemi.

Esso non prevede nemmeno azioni reattive che mettono in campo azioni sensazionalistiche che lasciano il tempo che trovano.

L’avvio di un processo si attua nella presa di coscienza di essere di fronte ad un tempo opportuno (kairos) che apre a nuove possibilità per l’azione pastorale e diviene la via per mettere in atto un cambiamento creativo, capace di trasformare la comunità cristiana così da renderla più adatta all’annuncio del Vangelo nel contesto attuale.