Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: il futuro non sia solo nelle “mani di Dio“, ma nelle mani dei “costruttori di pace”

di ANDREA FILLORAMO

 

Ho vissuto, nella mia prima infanzia l’amara esperienza del secondo dopoguerra, fatta di miseria, desolazione, distruzione, che si è impressa talmente nella mia memoria che spesso l’ho richiamata in alcuni miei scritti.

Sapere e vedere adesso quel che succede in Ucraina e che c’è il rischio reale che possa ancora succedere anche a noi mi angoscia.

Sapere, inoltre, che quel che abbiamo con grande fatica costruito in 70 anni possa – e il rischio è reale – in un attimo o in giorno o in un mese essere distrutto e che ai nostri nipoti venga consegnato un futuro di fame e di miseria, mi copre di spavento.

Do alla lettura uno stralcio di un mio inedito, che qui si allega, che ha lo scopo di invitare quanti credono con il Papa che il futuro non sia solo nelle “mani di Dio“, ma nelle mani dei “costruttori di pace”, che possono essere, sì, le nazioni ma anche e soprattutto quanti pongono nella fede le loro attese e le loro speranze.

 

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Quando era bambino ed eravamo allora nel secondo dopoguerra, in ogni angolo della mia città, vedevi uomini, donne e bambini che chiedevano l’elemosina; vedevi le madri che erano quasi tutte casalinghe per le quali la vecchiaia non era dovuta all’età ma agli stenti che dovevano sopportare, che affollavano le Due Vie, per acquistare a poco prezzo gli “stracci” usati che indossavano tutti i membri della famiglia.

Molti allora possedevano solo un paio di scarpe che magari calzavano alla domenica per andare a Messa.

Non in tutte le case allora c’era la luce e là dove non c’era l’elettricità veniva usato il lume a petrolio.

Non c’era neppure il gas per cucinare e cibi si cucinavano sulla “funnacella” a carbone che si comprava a piccole quantità dal “cabbunaru”.

Per attizzare il fuoco si ventolava con il “muscarolo“: compito questo che spesso veniva affidato ai bambini che s’affaticavano per non far spegnere il fuoco.

Allora, come ancora oggi, non sapevo se la povertà fosse una virtù morale o una piaga sociale, una “grazia” o una “disgrazia”.

Una cosa è certa: tutte le più importanti scelte della mia vita sono state determinate dai pensieri contenuti in quella preghiera della povertà che mi ha insegnato la mamma.

Da allora mi sono convinto sempre di più che è nella forza dei legami umani che possiamo aprirci al futuro.

Sono convinto che quando l’incontro con i poveri lascia noi e loro indifferenti o, peggio, più distanti e giudicanti, è segno che il nostro modo di rapportarci è infantile o malato.

Non conoscevo mio padre: era, infatti, andato in guerra quando io ero appena di sei mesi. Si può solo immaginare com’era ridotto al ritorno dalla guerra: aveva preso parte a vari campi, aveva fatto a piedi circa 400 chilometri, dopo essere sbarcato da clandestino nel porto di Taranto per tornare a casa: era lurido, cencioso, col viso disfatto con la barba lunga. Ebbi paura allora, pur dicendomi la mamma che era mio papà.

L’avevo prima visto solo in foto in bianco e nero, e nulla lo faceva assomigliare a quello che in quel giorno mi ha preso in braccio, mi ha stretto a sé.

Lo vidi l’indomani era un altro, ripulito cominciava ad assomigliare a quello visto nella foto.

Era, tuttavia, in condizioni fisiche e psicologiche tali che non gli permettevano di svolgere alcun lavoro, oltretutto lavoro allora non ce n’era, quindi, per tanto tempo, nessun reddito entrava nella famiglia.

Passavamo assieme le sere prima di andare a letto.

Come Telemaco, mi mettevo allora alla ricerca della sua storia di combattente e di prigioniero, ma più ancora della sua Odissea di ritorno in un’Italia devastata dalla guerra, sperando di trovare un insegnamento su come si mettono a posto le cose ed egli e ha fatto conoscere tutte le sue peripezie concedendole a piccole dosi tenendo conto della mia età e della mia sensibilità. Mi ha raccontato di com’era orrenda la guerra che aveva vissuto.

Rispondeva sempre alle mie domande e mi rassicurava in ogni occasione.

Non voleva spaventarmi, al contrario cercava sempre di farmi capire che la vita doveva andare avanti, che avevamo vissuto dei momenti molto brutti, ma che erano passati.

 Il ritorno a casa di mio padre, quindi non migliorava le condizioni economiche della famiglia anzi le aggravava, in quanto c’era un’altra bocca da sfamare, che s’aggiungeva anche a quella di Donna Cuncetta, una vecchietta sola, abbandonata e cieca, alla quale molto spesso la mamma faceva pervenire un piatto di pasta. Ed ero proprio io a portargliela. Capivo che dar da mangiare agli affamati è una manifestazione di misericordia strettamente connessa ai doveri di un buon cristiano. Per certi versi è anche una forma di giustizia, dal momento che tutti dovrebbero avere il diritto di possedere il necessario per vivere.

Mia madre dovette vendere ricami ad amici e parenti per poterci assicurare almeno una tazza di latte al mattino quando passava per i vicoli donna Lucia con la sua capretta, un pezzo di pane, una minestra al giorno, la carne due o tre volte l’anno.

Quel poco che si poteva avere quotidianamente era preso a credito.

Si pagava, infatti, quando si poteva a don Ciccio Scannavino, nella cui mal odorante “putia” c’era quanto era necessario solo per sopravvivere.

Egli con quel vocione che spaventava i bambini, spesso minacciava di non fornire più quanto richiesto nel caso in cui non avessimo pagato, ma la sua minaccia era rivolta – lo sapevamo – a quelli che, pur potendo, rimandavano sine die di soddisfare i debiti:

Basta – egli diceva – questa è l’ultima volta che ti do da mangiare. Puoi vivere anche senza. Qualcuno, tuttavia, faceva orecchio da mercante e cambiava bottega e andava da Caliri, inteso “U carabbineri”.

Fortunatamente don Ciccio pazientava con tutti i suoi clienti poveri perché povero sostanzialmente a causa di quei tristi tempi e di coloro che non pagavano, si considerava o si era ridotto anche lui.

Già da bambino intuivo sentendo quanto raccontavano le persone nel Villaggio che ci sono quelli che si riscattano dalla povertà e che, nonostante le condizioni avverse, riescono a nuotare contro corrente e riescono, perciò, ad arrivare alla riva. Sono quelli che, con l’impegno riescono a realizzare le proprie aspirazioni, far fiorire i loro talenti, al di là dello stato di indigenza in cui si trovano e, da grande, volevo essere come loro.

Nel Villaggio dove abitavo, in mancanza di luoghi di aggregazione per bambini e giovani l’attività ludica e luogo d’incontro per i ragazzi era diventata la “a ciumara”, cioè il torrente, dove si svolgeva molto spesso, tranne nel periodo dell’inverno stretto, la vita dei ragazzi.

Là si giocava a pallone, servendosi di una palla di pezza fatta dai rimasugli di una maglia che era così mal ridotta da non poterla più recuperare e dove, a riparo degli occhi e delle orecchie indiscrete, i ragazzi comunicavano fra loro e si scambiavano informazioni su quanto i grandi non davano o non si sentivano di dare.

Non l’ho frequentato molto “a ciumara”; ci sono stato solo qualche volta, ma questo avveniva quando sono diventato più grande, sfuggendo al controllo della mamma, che me lo impediva, pensando come tante altre mamme che là avvenissero cose inenarrabili coinvolgenti ragazzi anche piccoli, che risulta, però, che non accadessero: “ sei troppo piccolo – mi diceva allora – per andare in quel luogo”; tuttavia quel tempo l’ho considerato più importante di quello passato nelle aule scolastiche, oltretutto perché mi era proibito andarci.

Esso mi è stato utile almeno ad intuire attraverso quel poco di cui venivo a conoscenza, che nella vita ci possono essere piaceri che devono essere soggetti all’autocontrollo; che ci sono cose che si possono fare, altre invece no; che ci sono sempre problemi che alterano la qualità della vita di ogni giorno, di cui si può anche provare vergogna.

Il rapporto con i pari, però si svolgeva particolarmente nelle “vineddi” dove, stando con i compagni, maturavo, quelle abilità che andavano oltre l’ambiente familiare, dove cercavo di acquisire maggiore sicurezza nei movimenti, di ricostruire situazioni secondo nuovi modelli mentali.

Sperimentavo inoltre l’esistenza di regole e norme sia specifiche che generali, giungendo anche se spesso non riuscivo a cogliere le ragioni della loro necessità.

(continua)