Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà

di ANDREA FILLORAMO

L’uomo non si è mai rassegnato all’idea che la morte abbia l’ultima parola e ha sempre cercato una qualche forma di sopravvivenza. Questo è il motivo per cui a fondamento della fede e non solo di quella cristiana deve necessariamente esserci la credenza che al momento della morte, l’anima abbandoni il corpo e non può più decidersi pro o contro Dio.

Morte, giudizio, Inferno e Paradiso, chiamati una volta “i novissimi”, sono stati per millenni l’esito di tutte le fedi e temi di una predicazione quasi totalmente incentrata a monte su queste realtà ultime e definitivee a valle sugli scenari perennemente incombenti sul vissuto quotidiano delpost-mortem.  

Questo è avvenuto fino a che il mondo occidentale è caduto in un assordante silenzio e in una coltre di omertà sulla morte, che è divenuta il grande tabù di cui nessuno parla ed è indecente parlare. Conseguentemente il tema dei novissimi è diventato espressione vuota ai più, specialmente alle giovani generazioni. 

Le nuove generazioni più o meno religiose o più o meno secolarizzate, infatti, in larga maggioranza non credono in una qualche previsione divita-dopo-la-morte, non ci pensano proprio, non la temono, né la sperano, né se ne occupano.  

Se guardiamo, infatti, diverse analisi sociologiche degli ultimi anni dedicate a misurare la temperatura della fede dei cattolici, particolarmente dei giovani,  emerge che, mentre la maggior parte crede genericamente in Dio,neppure un quinto di essi confida nella risurrezione della carne, chebadiamo bene – è un elemento cardine del credo cristiano, a partire dal cosiddettoSimbolo apostolico: “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna”, e dal Simbolo niceno-costantinopolitano: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. 

Così,le parole: morte,giudizio,inferno,paradiso, ma anche purgatorio al quale gli ortodossi non credono, diventano sempre di più solo parole distanti e utilizzate con significati metaforici, affidabili all’immaginario, pensati con i contorni e i contrappassi di matrice dantesca e permangono sullo sfondo delle rappresentazioni mentali, contribuendo a rendere difficile la strutturazione delle credenze. 

La domanda è d’obbligo: “si può recuperare il senso vero nascosto in queste parole?” Ciò può avvenire se si comprende che al di là dell’involucro dottrinario e degli assiomi, c’è la costatazione acquisibile che la morte è il più grande mistero della vita; che il peccatore si auto-infligge il castigo, come afferma il profeta Geremia che avverte dicendo: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono.  Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio” (Geremia 2,19); che il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 679 dice: “Il Figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in lui. È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da se stesso, riceve secondo le sue opere”.

Scriveva Aristotele (Metafisica):” La causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose”.

Fra queste “cose” per i cattolici, ci sono  le dottrine della Chiesa,

Se è così, ricostruire, la loro nascita, l’espressione, l’evoluzione, il modo in cui sono state prodotte, trasmesse e trasformate attraverso la storia, l’incontro e lo scontro con le filosofie, nonché l’influenza da esse esercitata sulla storia stessa, è un compito estremamente difficile.

Esso è riservato ai teologi, ai filosofi e agli storici e non ai giovani che non comprendono né possono comprendere il linguaggio e gli stessi contenuti teologici, che gli stessi preti ignorano o trascurano, non si sa se volontariamente o involontariamente nella loro predicazione che di tutto trattano ma non delle verità nascoste nelle dottrine e fra queste, quelle concernenti il post mortem cioè quelle contenute nelSimbolo apostolico: “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna” e nel Simbolo niceno-costantinopolitano: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. 

Sia chiaro, quindi, che la fiducia in un «oltre» la vita terrena non è un’immortalità pura e semplice, come la concepiva la cultura greca classica per l’anima, ma una comunione con il Dio eterno, tra le sue braccia. L’incontro è misterioso, come misteriosa è la vita e conseguentemente anche la morte

Morte e vita sono due imponderabili misteri. La morte ha molto da dire sulla vita, ha una «valenza rivelativa», dice la cifra di un’intera esistenza.

 Per questo la teologia cristiana la colloca tra i novissimi ossia le realtà che segnano una definitività.

Ad essere resa definitiva è una storia di libertà nell’incontro con l’infinita e assoluta libertà di Dio. Pur nella sua non addomesticabile drammaticità, la morte si fa allora passaggio, pasqua verso la pienezza della vita se essa giunge a compimento di un’esistenza vissuta con l’altro e per l’altro, in quel “dare la vita” che costituisce la cifra interpretativa della morte come della vita del Cristo.