Io non ho scelto di vivere, tuttavia vivo

di Ettore Sentimentale

In questa riflessione di inizio estate (preludio alle vacanze) vorrei riprendere il discorso iniziato il mese scorso, stimolato ancora da una nuova missiva dello stesso giovane e che in buona parte ripropongo qui.

“[…] Io non ho scelto di vivere, tuttavia vivo. Lo faccio perché avverto che questa vita mi chiede – come diceva lei – una risposta, un assenso. Ciò forse rimanda alla parola “vocazione”? Penso spesso a tutti coloro che scoprono la vocazione non come un essere viventi e restare tali, ma come un dare alla vita una certa “approvazione”. Potrebbe forse configurarsi (la vocazione) come una “storia di senso” da articolare attorno a ciò che devo essere?…”.

Sì, si tratta di divenire ciò che siamo, altrimenti la nostra vocazione resta incompiuta. È questo il profondo insegnamento della parabola dei talenti, come già dicevo. Se l’unico talento donato a tutti – senza eccezione – è la vita, dobbiamo necessariamente aggiungerne un altro perché essa fruttifichi: la risposta. Per coloro che non colgono la loro vita come una risposta da dare, c’è il rischio che il punto di “convergenza” (tra la vita naturale e il senso) sia alquanto opaco. A meno che le numerose prove non vengano a risvegliarli e li costringano a uscire dalla loro passività. Coloro che, al contrario, sulla risposta da dare divengono “responsabili” accolgono la loro vita come una vocazione da “discernere” e la “sincronizzano” su ciò che intendono essere.

Mi piace ricordare quello che Jean Louis Chrétien elabora nel suo libro “L’indimenticabile e l’insperabile” (Cittadella 2008) allorché afferma che l’incontro nella vita degli uomini fra questi due “opposti” avviene tramite l’«incessante», vale a dire ciò che non cessa di venire a noi, verso di noi, sia dopo il passato (l’indimenticabile) che dopo il futuro (l’insperabile; sebbene nella versione originale si trovi “l’insperato”). Si intuisce la propria vocazione nel momento in cui l’indimenticabile e l’insperato entrano in risonanza, il primo elemento rimanda al secondo e non riesce a sussistere senza l’altro. La risonanza designa quindi questi due movimenti reciproci che si congiungono e amplificano a vicenda. Allora si è veramente unificati nell’intimità del nostro essere. A dare poi l’ultimo sigillo a questo processo dinamico, arriva il “riconoscimento” di chi sta attorno che conferma alla persona interessata quanto lui portava dentro senza saperlo. Una domanda (forse banale?) può chiarire questo discorso: di cosa “risuona” la nostra esistenza?

Vorrei adesso tornare sul campo ancora più pratico e rileggere questi passaggi in chiave spirituale. In ciascuno di noi vi è un desiderio naturale di felicità che dobbiamo dipanare lungo la nostra esistenza. Se dovessimo cercare e trovare tale dimensione nelle gioie puramente umane saremmo sulla strada giusta ma non sufficientemente completa per dare un senso pieno alla nostra vita. S. Agostino diceva: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, per indicare sia la provenienza “divina” (l’indimenticabile originario) sia il traguardo finale (l’insperato). Fra l’uno e l’altro c’è la nostra vita da vivere pienamente, perché a questo ci sprona il Signore: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Non possiamo accontentarci di “vegetare” senza accogliere la sfida della risposta responsabile: la vocazione. E, sia detto chiaro una vota per sempre, tale orizzonte riguarda tutti, nessuno escluso. Non è appannaggio di preti, suore, frati, anime consacrate…ma tutti dobbiamo – prima o poi – dare un colore, un sapore, uno spessore al dono della vita. La “vocazione” riguarda ogni forma di incontro che si pone nell’orizzonte di un appello, “contestualizzato” nel riquadro socio-ambientale-religioso di ogni persona. Se viviamo attorniati da un ambiente gioioso, costituito da uomini e donne che sanno infondere sicurezza e attenzione, allora facilmente saremo portati a “ripresentare” nelle nostre scelte l’esempio di qualcuno che ha inciso particolarmente (e positivamente) la nostra vita. Viceversa se il contesto nel quale ci muoviamo (e che noi stessi determiniamo) è contrassegnato dalla rabbia, dalle piccole o grandi scaramucce con le quali pensiamo di “vendicare” la nostra inquietudine, avremo una visione tetra del mondo e delle persone e inevitabilmente comunicheremo solo negatività.

Carissimi, penso che la lunga pausa estiva arrivi proprio in tempo utile per scoprire di cosa è fatta la nostra vita (un po’ come quando si deve preparare un piatto gustoso e si scelgono con cura gli ingredienti genuini), quindi –senza montare in superbia – proviamo a percepire la risonanza interiore del dono che il Signore ci fa continuamente per poter scegliere “ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).

Per questa estate, auguro a tutti – cominciando dal giovane in “ricerca” – di poter “ricaricare” le energie” necessarie a una vita pienamente fedele a Dio e all’uomo.