Le parole di papa Francesco

di ANDREA FILLORAMO

Dinnanzi alle notizie dei nuovi scandali che provengono dal Vaticano, che riguardano particolarmente “reati amministrativi” e addirittura “penali”, nasce in ciascuno di noi la convinzione che, i segreti imposti, l’omertà, le difese d’ufficio, che non mancano mai fra gli uomini di Chiesa, non risolvono alcun problema; non risolvono, quindi, i vizi e i difetti dei cardinali, le carenze dei vescovi e del clero, ma è la denuncia aperta dei fatti che a loro vengono imputati alla quale sempre bisogna riferirsi. Per fortuna c’è papa Francesco, al quale occorre manifestare piena fiducia sia per la sua capacità di governo, sia per il suo “decisionismo”, sia per la piena volontà di cambiare “a fundamentis” la Chiesa. Rimanendo ancora nei “dati amministrativi”, un altro dato mi preme evidenziare: nella Chiesa e in molte diocesi non vengono valutati o non sono conosciuti i livelli di trasparenza, di controllo e partecipazione nei processi di formazione, approvazione e rendicontazione di bilancio. I bilanci delle curie diocesane e degli Istituti diocesani per il Sostentamento del clero e di quello centrale che gestisce la relativa voce dell’otto per mille, pertanto, o non ci sono, o sono raffazzonati, oppure sono dai vescovi “segretati” come se i beni della Chiesa non appartenessero al Popolo di Dio. Come dice Umberto Folena di “Noi siamo Chiesa”: “Non c’è un Istituto religioso che, a nostra conoscenza, renda pubblico qualcosa. I fondi dell’otto per mille sono rendicontati allo Stato, secondo quanto previsto dalla legge, in modo così sintetico che non passerebbero al vaglio di nessun serio organo di controllo. I fondi alla carità sono solo il 16% dell’otto per mille (solo gli interventi nel terzo mondo sono ben documentati). Una gran parte servono per sostenere gli interventi centrali della Chiesa. A tal proposito più d’una volta è intervenuta la Corte dei Conti, muovendosi contro il modo come viene gestito l’8 per mille destinato alla Chiesa Cattolica. Infatti leggiamo: “Non esistono verifiche di natura amministrativa sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni, nonostante i dubbi sollevati dalla parte governativa della Commissione paritetica Italia-Cei su alcune poste e sulla ancora non soddisfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi". Le cifre che riguardano il caso non sono esigue: la Cei ha incassato nel 2014 1.054.310.702 di euro, di cui 388.251.190 stati utilizzati per il sostentamento del clero, 433.321.320,67 per le esigenze di culto e 245.000.000 per gli interventi caritativi. ”Le diocesi rendicontano, quasi sempre, male la gestione dei fondi dell’otto per mille che ricevono dal centro. Stupefacente che nessuno dica niente. Solo nelle parrocchie, in modo diversificato, si hanno bilanci in alcuni casi chiari e discussi. Solo quando la stampa si impadronisce di alcune notizie concernenti casi clamorosi, come quelle di Messina dove un vescovo si è dimesso ed è stato accusato dai giornali locali di un “ buco” di 8 milioni di euro e di aver avuto un’eredità milionaria ad personam, si vede come il vescovo e la curia si chiudano a riccio nel circuito del loro mondo ecclesiastico, per non far vedere che non hanno incontrato problemi, non hanno rivelato incapacità, non hanno fatto sperperi, imbrogli, spese faraoniche, opere inutili, non hanno incontrato difficoltà nel gestire entrate e spese di grande rilevanza, anche sociale. Pertanto, in mancanza di esibizione delle carte dimostrative della falsità delle accuse fattegli, senza rendicontazione tale vescovo, a sua difesa, può dire a quelli che egli definisce “detrattori” che la loro: “è tutta una pretestuosa costruzione fatta da gente senza scrupoli che vuol apparire, pronti a trasformarsi in avvoltoi per avere un momento di gloria, pronti ad accanirsi”. Roberto Beretta, giornalista di Avvenire, è intervenuto sul sito “Vino Nuovo” con in cui si è chiesto “come mai ancora poche diocesi non pubblichino i loro bilanci”, “per non parlare della stessa CEI”. Beretta ha anche chiesto che qualcuno lo “smentisca”: “ma credo che siano casi rari come le mosche bianche”. Secondo il giornalista, benché non esista alcun obbligo, “proprio perché siamo in Italia, dove chiunque riesce a farla in barba al fisco viene considerato un furbo, credo che parroci e vescovi dovrebbero dare l’esempio e andare in controtendenza, contribuendo a rovesciare la cultura opportunista nei confronti dello Stato”. Non solo, rivendica anche “una ragione ecclesiale” per farlo: “se davvero siamo una “comunità” e i fedeli sono l’origine prima dei capitali accumulati (e dei debiti contratti), gli “azionisti” diciamo di queste benefiche Spa, sarebbe doveroso presentare un rendiconto periodico e del tutto trasparente all’assemblea dei cattolici”. Le ragioni per cui ciò non accade, a detta dell’autore, sono almeno quattro: il “nero è fisiologico”, non si vuole far vedere quando la parrocchia o la diocesi è ricca, non si deve far conoscere l’origine dei soldi e, infine, i vescovi sarebbero refrattari ai controlli. Beretta conclude l’intervento sostenendo che “il risultato è che nella Chiesa italiana una vera trasparenza per quanto riguarda i soldi ancora non esiste. Per cui suona un po’ falsa la suscettibilità dimostrata dai vertici ecclesiali davanti alla recente campagna massmediatica”. Diciamolo pure; purtroppo nel mondo ecclesiastico ancora non c’è un’opinione pubblica che, senza pigrizie e timore, pretenda trasparenza e condivisione nelle sedi opportune per mettere tutto in discussione, avendo come punto di riferimento le parole di papa Francesco sulla povertà della Chiesa e nella Chiesa.