La cartina della felicità: non aspettiamo la fine del mondo, ma la sua restaurazione

di Ettore Sentimentale

Noi cristiani iniziamo l’anno liturgico con il tempo di “Avvento”, termine derivante da “Adventus” e che in greco suona “Parusìa”.

Anticamente questa espressione designava la venuta o la visita dell’imperatore. Allora raramente gli imperatori si facevano vedere e quelle poche volte che gli abitanti di una città si preparavano a ricevere un’imponente visita del re, lo aspettavano e lo celebravano con fervore. Poi tutto continuava come prima o peggio. È chiaro che noi cristiani in Avvento non attendiamo nessun imperatore, ma aspettiamo Gesù condannato dal potere imperiale. I primi cristiani professavano che Dio era con il crocifisso che risorto e asceso al Padre tornerà nel tempo della consolazione e della restaurazione universale.

La Parusìa è quindi la vicinanza di Dio che consola perché ha scelto di stare con tutti i crocifissi, come lo fu Gesù. In questo tempo forte dell’anno liturgico siamo invitati ad avere fiducia in Gesù che rimane con noi. Ecco perché fin dai primi secoli i cristiani implorano: “Maranatha/ Vieni Signore”.

In realtà, celebriamo l’Avvento per attendere come Gesù, più che attenderlo. La vera attesa consiste nell’attuare totalmente la Parusìa, la vicinanza salvifica di Gesù, per fare sorgere e crescere la presenza misteriosa di Dio, fonte di consolazione di tutti gli afflitti, motivo di liberazione di tutte le creature oppresse.

La liturgia di questo periodo ci fa riflettere sugli ultimi tempi, facendoci scoprire che non aspettiamo la fine del mondo, ma la sua restaurazione.

È probabile che Gesù, seguendo il genere apocalittico di quel tempo, attendesse letteralmente la fine del mondo, cioè la distruzione della Terra attraverso una catastrofe cosmica. Da subito, i cristiani associarono la Parusìa con la fine del mondo e il giudizio universale e la separazione fra buoni e cattivi… Una miscela sufficiente per far tremare perfino i migliori. Purtroppo, dopo alcuni decenni i cristiani si insediarono comodi e tranquilli nel contesto imperiale e invece di pregare e invocare “Maranatha”, iniziarono a pregare perché non arrivasse la Parusìa… Cominciò a circolare il detto: “Se non arriva la fine del mondo, è grazie ai cristiani”.

Ma che significa “fine del mondo”? Non si tratta certo della fine del cosmo, che i fisici collocano fra 4 o 5 milioni di anni… Non è questa la fine che Gesù annunciava e desiderava. Il Maestro parlava della fine del mondo crudele e inumano dell’Impero, la “bestia” di cui parla l’Apocalisse e che viene vinta dal sangue dell’Agnello.

Gesù proclamò, incarnò e anticipò un mondo nuovo in questo mondo obsoleto, il mondo buono e bello di Dio e di tutti gli esseri sulla terra. La fine del mondo inumano è quindi la venuta di Dio nella nuova creazione. Qui si innesta la sfida più bella e intrigante della nostra attesa: la speranza che alimenta l’impegno a far sviluppare “cieli nuovi e terra nuova, ove la giustizia avrà stabile dimora” (2 Pt 3,13).