UNIVERSITÀ: Numero chiuso, crollo dei laureati e carenza di docenti

“In Italia abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa”: è l’allarme che lancia il Corriere della Sera. Una situazione determinata non solo ma anche dal numero chiuso nei corsi di laurea.

 

Istituito dalla legge 264 del 1999 (governo D’Alema), stabilisce “paletti” all’accesso ai corsi universitari, di due tipi, come si legge sul quotidiano “a livello nazionale per medici, dentisti, infermieri, fisioterapisti, veterinari, architetti e maestre. A livello locale invece si lasciava ai singoli atenei la facoltà di disporre del numero chiuso per i corsi che prevedevano l’uso di laboratori o l’obbligo di tirocini”.

 

Tale boom delle università a numero chiuso, “che doveva essere una opzione circoscritta ad alcune facoltà” ed “è diventata nel tempo una scelta obbligata”, ha avuto come conseguenza la perdita di 10 mila docenti in dieci anni; infatti “si è iniziato con Biologia e Farmacia, diventate ripiego temporaneo per aspiranti medici eliminati al primo turno in attesa di riprovarci l’anno dopo. Poi un po’ ovunque. Quest’anno su 4.560 corsi di laurea solo 2.827 sono ad accesso libero; 732 sono quelli a numero chiuso programmati dal Miur, a cui si aggiungono 1.001 corsi decisi dagli atenei”.

Infatti, le lauree umanistiche rimangono più aperte agli studenti: “test obbligatorio quasi ovunque per diventare psicologi. Giurisprudenza invece, nonostante la cronica inflazione di avvocati, resta per lo più aperta, ma le iscrizioni sono spontaneamente in flessione. Mentre, nonostante il test imposto dai super Politecnici di Milano, Torino e Bari, gli aspiranti ingegneri cambiano città e gli immatricolati sono in costante aumento”.

 

Quindi, “gli atenei sono costretti a ridurre il numero di studenti perché non hanno abbastanza docenti: dal 2008 a oggi sono scesi da 63.228 a 53.801. Il continuo taglio dei finanziamenti all’università non consente di rimpiazzare i professori che vanno in pensione”. Dunque “il boom dei corsi a numero chiuso ha coinciso (colpa della crisi) con il crollo degli immatricolati: nel 2007-2008 erano 300 mila, scesi a meno di 270 mila nel 2013-14. Negli ultimi tre anni sono tornati a crescere fino a 290 mila, ma il miglioramento è imputabile più all’aumento del numero di diplomati che al tasso di passaggio dalla scuola all’università, bassissimo nel confronto col resto d’Europa (46 per cento contro 63 per cento)”. Nella classifica europea per numero di giovani laureati l’Italia è penultima, con “il 26,9 per cento dei 30-34enni, contro una media che sfiora il 40 per cento. Dietro di noi solo la Romania”.

 

Certamente il sindacato Anief non può che essere critico rispetto alla piega che sta prendendo il sistema scolastico e universitarioa causa dello scarso investimento delle risorse da parte del governo. Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal, infatti afferma che “la situazione attuale deve necessariamente mutare affinché gli eventi possano raddrizzarsi. È di poche settimane fa la notizia, basata sui dati pubblicati dall’Istat, di come solo un dottore di ricerca su 10 diventi professore; infatti, a sei anni dal conseguimento del dottorato, appena il 10% di coloro che conseguono il titolo riesce a svolgere poi la professione dell’insegnante. Noi lo sosteniamo da dieci anni, auspicando soluzioni e proponendo anche emendamenti al testo della legge di Stabilità: è necessario ripartire dalla stabilizzazione dei ricercatori, impossibilitati a passare al ruolo della docenza. Lo abbiamo fatto nuovamente, puntando al rilancio della figura del ricercatore a tempo indeterminato, attraverso la creazione di un albo nazionale”.

 

“La notizia non fa che confermare le nostre perplessità – continua il sindacalista autonomo – e accrescere il timore di assistere a una diminuzione continua degli investimenti atti a incrementare la formazione e la professionalità dei giovani cittadini. Per arrestare questa emorragia ed invertire la rotta si deve mettere mano al portafogli; infatti, servono più investimenti, molto più di quelli che finora sono stati garantiti. Le statistiche sono impietose e relegano l’università italiana agli ultimi posti d’Europa: basti pensare che in rapporto al Pil spendiamo lo 0,9% contro l’1,2% della Germania, l’1,3% della Spagna, l’1,5% della Francia e poco meno del 2% dell’Inghilterra”.