UN’EVASIONE “SILENZIOSA”

Il confine tra evasione ed elusione. Le “cifre ufficiali”, quando si parla di evasione fiscale, si aggirano intorno ai 110 miliardi di euro, ma i valori numerici sono in realtà molto superiori, dato che in quel conteggio non rientra quello che forse è il problema principale, anche in termini di mancato gettito, del nostro sistema tributario: l’elusione/abuso del diritto.

 

Il confine tra evasione ed elusione non è mai stato ben individuabile. Lo scopo, infatti, è pur sempre lo stesso: la sottrazione al proprio obbligo di contribuzione alle spese pubbliche in ragione del principio di capacità contributiva. Ciò che cambia è solo il metodo di perseguimento di tale scopo illecito: diretto nel caso dell’evasione, mediante l’occultamento dei redditi; indiretto nel caso dell’elusione, che, in sostanza, si verifica quando il soggetto passivo d’imposta si sottrae all’imposta con la “dissimulazione” della propria capacità contributiva. Mentre con l’evasione il contribuente occulta il presupposto d’imposta, con l’elusione il contribuente non occulta, ma impedisce, almeno formalmente, l’insorgere del presupposto stesso.
Elusione e abuso del diritto. Ma la differenza più difficile da individuare è sempre stata proprio quella tra elusione ed abuso del diritto, trattandosi sostanzialmente di uno stesso fenomeno, in cui la distinzione si basava solo sul fatto se la fattispecie oggetto di contestazione fosse o meno prevista, positivamente, tra quella tassativamente indicate dall’art. 37 bis del Dpr 600/73.
L’abuso del diritto è nato come uno sviluppo teorico/giurisprudenziale, volto a sopperire alla mancanza di una clausola generale volta a impedire la realizzazione di operazioni negoziali, il cui scopo essenziale fosse il mero risparmio di imposta. Prima della sua codificazione nell’art. 10 bis dello Statuto del contribuente, l’“ingiustizia” dell’abuso, non essendo riferibile a parametri normativi diretti e ad una
norma tributaria imperativa, che tale lo qualificasse e come tale lo sanzionasse, doveva essere necessariamente riferita a una clausola metagiuridica insita nell’Ordinamento e riportata alla luce solo grazie alla giurisprudenza.
Poi, anche in ottemperanza ad una specifica raccomandazione comunitaria (la 2012/772/Ue), con il decreto sulla certezza del diritto (Dlgs n. 128/2015) è stata introdotta una norma generale antiabuso, abrogando la precedente norma antielusiva, applicabile solo per l’accertamento delle imposte sui redditi e comunque solo ad un numero chiuso di operazioni (articolo 37-bis, Dpr. n. 600/73).
In sintesi, l’abuso del diritto si configura oggi in presenza di: una o più operazioni prive di sostanza economica; rispetto formale delle norme fiscali; realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; vantaggio fiscale che costituisca l’effetto essenziale dell’operazione.
Non si considerano invece abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, laddove viene anche esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
Il ruolo dello Stato: la lotta all’evasione non basta. Perseguire fiscalmente le attività illecite.

Lo Stato dovrebbe intraprendere innanzitutto questa battaglia di “civiltà”, cominciando a combattere proprio contro il nemico più forte (ed economicamente più solvibile): i grandi evasori e le società multinazionali che tendono a sfruttare la labilità dei confini nazionali per azzerare il carico fiscale (basti pensare anche alla famosa web tax, mai ancora attuata).
C’è urgente bisogno di sfidare gli abusi fiscali e di rivedere le regole tributarie sulle imprese, facendo sì che i ricavi e i profitti
siano tassati principalmente nei paesi nei quali le multinazionali li realizzano e non più dove a loro maggiormente conviene. Il valore di evasione ed elusione/abuso è stimato ufficialmente sui 200 miliardi di euro: cifra che non comprende i proventi criminali. Tutte le attività illecite, comprese quelle che fruttano miliardi di euro alle varie forme di racket e criminalità organizzata, devono però essere perseguite, non solo penalmente, ma anche fiscalmente (con tassazione dei relativi proventi). Non basta confiscare i proventi delle attività illecite: intanto perché il provento confiscato e quello fiscalmente accertabile non sempre coincidono e poi perché tali proventi possono avere generato, nel frattempo, altri proventi. L’illiceità penale, in sostanza, non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un
dato economico e non giuridico. Insomma, abbiamo un “tesoro” molto ampio da aggredire.