
di Andrea Filloramo
Negli ultimi decenni, la promessa dell’Occidente, fondata sulla libertà, la dignità della persona e la democrazia, che sono valori che non hanno colore politico, ma dovrebbero essere condivisi da tutti, sembra essersi incrinata forse anche tende a scomparire. Leone XIV, da poco eletto al soglio pontificio, che è un americano, quindi un pragmatico, da considerare e che rimane oltretutto l’unico leader spirituale del mondo, dinnanzi a questa crisi, che coinvolge tutto il mondo, sicuramente non si limiterà a essere uno spettatore, perché la sua autorità lo chiama a farsi voce dei valori che vengono calpestati.
E’ indubbio che una tesi del genere, almeno così come viene qui espressa, è molto complessa.
Essa non si limita, infatti, a delle affermazioni semplici o a prese di posizioni immediate, ma tocca e implica più aspetti storici, filosofici, sociali, e particolarmente politici – ma non di parte – e richiede, perciò, di tenere insieme prospettive diverse.
Una cosa appare certa: alla base del cedimento dei valori ai quali si è fatto cenno, non vi è soltanto – come da più parti si può pensare, la crisi economica o il logoramento delle istituzioni, ma un fenomeno molto più profondo, cioè l’assolutizzazione del possesso e del denaro come misura di tutte le cose.
Oggi, infatti, la ricchezza materiale è considerata non solo come uno strumento, ma come il criterio principale o unico per valutare il valore delle persone, delle azioni, delle relazioni e dei successi.
Il pensiero liberale e democratico, da Tocqueville a John Stuart Mill, si reggeva su un equilibrio tra diritti individuali e la responsabilità collettiva.
Oggi, quel bilanciamento appare rotto: l’“io” ha sopravanzato il “noi”. Ciò significa che l’individualismo ha preso il sopravvento sul senso di comunità. Le persone tendono a privilegiare i propri interessi, i desideri e i bisogni rispetto al bene collettivo o alla responsabilità verso gli altri. La crescita economica è diventata un fine in sé, mentre concetti come solidarietà e giustizia sociale vengono relegati sullo sfondo.
La conseguenza è un indebolimento del tessuto comunitario e un aumento delle disuguaglianze.
Quando le logiche del capitale penetrano nella politica, la rappresentanza rischia di piegarsi a lobby e interessi finanziari. La democrazia, allora, più che un processo reale di partecipazione, diventa una vetrina, L’astensionismo crescente e la sfiducia verso le istituzioni in molti Paesi occidentali ne sono un chiaro sintomo.
Jürgen Habermas, filosofo e sociologo tedesco, figura chiave del dibattito internazionale, con la sua teoria dell’agire comunicativo, suggerisce che la democrazia viva non solo è fatta di istituzioni, ma di un discorso pubblico razionale, in cui i cittadini condividono norme e valori.
In altre parole, la dimensione etica e comunicativa è imprescindibile: senza di essa, la democrazia rischia davvero di essere “un guscio vuoto”.
L’ascesa e il “ritorno” di Donald Trump negli USA hanno mostrato, in modo chiaro, come la ricchezza personale e l’immagine imprenditoriale possano diventare strumenti di legittimazione politica.
Da osservare che Il trumpismo non è solo un fenomeno americano, ma è un paradigma globale, in cui c’è un leader che trasforma la politica in marchio, l’elettorato in mercato, la verità in slogan mediatico e in narrazione continua, con cui tende a semplificare i fenomeni complessi, a reinterpretare i dati secondo convenienza, a ingannare gli elettori, costruendo risoluzioni di problemi insolubili rimandando la soluzione sempre al futuro.
Lo sappiamo: il trumpismo da qualche tempo attecchisce bene anche in Italia.
Il trumpismo italiano non è certamente da considerare come una copia del Presidente USA, ma come un modello comunicativo e politico che trova terreno fertile in un contesto di crisi economica, di sfiducia nelle istituzioni e di frustrazione sociale.
Una certa politica italiana sa chiaramente che Trump è un narcisista patologico, tuttavia, lo considera un modello di leadership, di comunicazione e di conflitto politico da sempre seguire, addirittura da andare ripetute volte a venerare come un “santo in paradiso” nel sacro tempio della Casa Bianca.
Per questa politica Trump rimane un paradigma che aiuta a spiegare molti fenomeni della politica contemporanea come il ruolo della polarizzazione, quello dei social, della personalizzazione del potere e della retorica emotiva, che costruisce discorsi che enfatizzano slogan, nemici immaginari o minacce esagerate.
Sul versante opposto a Trump – ma non si capisce quanto – c’è Vladimir Putin che incarna un altro volto della stessa deriva.
Il suo potere è centralizzato e personalistico, la sua legittimazione deriva non da istituzioni democratiche ma dalla combinazione di controllo economico, coercizione militare e capacità di plasmare l’opinione pubblica.
In entrambi i casi, la politica smette di essere servizio al bene comune e diventa autoaffermazione: spettacolo ebusiness nel primo, dominio e forza nel secondo.
Due modelli diversi, ma accomunati dalla subordinazione della democrazia ai meccanismi del possesso e del potere.
Le guerre che insanguinano il nostro tempo – dall’invasione russa dell’Ucraina al conflitto in Medio Oriente – sono figlie della stessa logica: il possesso di territori, di risorse, di potere geopolitico. Dietro le rivendicazioni ideologiche o religiose, si nasconde sempre la volontà di dominio economico e strategico.
È la dimostrazione più brutale di come il denaro e il possesso, quando sostituiscono i valori del dialogo e della cooperazione, conducano inevitabilmente alla distruzione.
Questi conflitti non solo devastano popoli e nazioni, ma minano ulteriormente la credibilità di un sistema internazionale che si proclamava fondato sul diritto e sulla democrazia.
In una società dominata dal denaro, l’essere si confonde con l’avere. Il possesso di beni diventa segno di riconoscimento sociale, mentre valori immateriali – la cultura, la spiritualità, la ricerca del bene comune – perdono forza attrattiva.
Guy Debord parla di “società dello spettacolo”: l’apparenza sostituisce la sostanza e il cittadino si trasforma in consumatore.
La conseguenza più grave non è solo economica o politica, ma antropologica.
La centralità del denaro erode la fiducia reciproca, mina i legami sociali e svuota la democrazia della sua linfa vitale.
L’Occidente, che aveva fatto del primato della persona il suo vanto, rischia così di diventare prigioniero di un sistema che misura l’uomo solo in termini di produttività e possesso.
In questo scenario di crisi globale, Papa, Leone XIV, che è da considerare e rimane l’unico leader spirituale del mondo, sicuramente non si limiterà a essere uno spettatore.
La sua missione è smascherare l’idolo del denaro e del possesso che divora la democrazia dall’interno e alimenta le guerre all’esterno.
Ricorderà all’Occidente che i valori non si comprano e non si vendono ma si custodiscono.
Mentre Trump trasforma la politica in marchio e Putin in dominio, la voce del Pontefice griderà forte che, senza la giustizia, la solidarietà e la fraternità non esiste futuro per nessuna nazione.
Non basta riformare, quindi, istituzioni o mercati ma occorre rifondare un’etica comune.
Il Papa, libero da interessi di parte restituirà – ne siamo certi – all’umanità un orizzonte che la politica ha smarrito non per difendere un potere religioso, ma per riaffermare una verità semplice, ma allo stesso modo rivoluzionaria: la persona vale più del profitto e la pace vale più del possesso.