PAOLO PAGLIARO, GIORNALISTA E AUTORE TELEVISIVO, RACCONTA LA RESISTENZA VERONESE E LEGGE CON LUCIDITA’ IL PRESENTE IN OCCASIONE DELL’80ESIMO ANNIVERSARIO DELLA FESTA DELLA LIBERAZIONE

Verona – Tra il 1943 e il 1945,  659 veronesi furono deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti. 177 giunsero a Mauthausen; 133 a Dachau; 85 ad Auschwitz; 61 a Flossenburg; 17 a Mittelbau-Dora. Gl altri furono rinchiusi a Buchenwald; a Natzweiler; a Neuengamme; a Ravensbrück; a Bergen-Belsen; a Stutthof, a Gross Rosen.  Quasi la metà di loro non fece ritorno. Fra i deportati politici i più giovani, Danilo Momi ed Ennio Trivellin, avevano 16 anni. Il più anziano, Candido Ginepro, 65. Fra le vittime della Shoha, invece, Magda Bodner aveva appena due anni; il più anziano, Giacomo Cuzzeri, 86.  Deportati entrambi nel 1944, ad Auschwitz non vennero neppure immatricolati, ma avviati direttamente alle camere a gas.
Oggi siamo qui per loro.
Siamo qui anche per ricordare i coniugi Robert Löwenthal e Anne Rosenwald, che a Tregnago preferirono il sucidio alla cattura da parte delle Brigate nere. O i cugini Tullio Basevi e Gilda Forti, lui diplomato in pianoforte lei impiegata, catturati in vicolo Stella 6 e in via Duomo 5 e assassinati pochi giorni dopo a Flossenburgg e a Ravensbrück.  Il comune di Verona ha dedicato a loro le sue due prime pietre di inciampo.
Siamo qui per rendere omaggio 80 anni dopo, in una città che è stata una piazza militare di grande importanza, ai 600 mila militari italiani  che dopo l’8 settembre rifiutarono di combattere o di lavorare per l’esercito tedesco, e che  per questo vennero rinchiusi nei campi di concentramento.  Furono definiti “internati militari”, per negare loro in questo modo persino lo status di prigionieri di guerra.
Ben cinquantamila di loro morirono nei campi di detenzione a causa degli stenti e delle violenze.
Siamo qui per ricordare anche i 119 militari veronesi della divisione Acqui che insieme ai loro commilitoni dissero no ai nazisti e sacrificarono la loro vita nell’isola di Cefalonia.
E i membri veronesi del Cln deportati e assassinati nei lager: l’anarchico Giovanni Domaschi a Dachau,  i socialisti Angelo Butturini a Bergen-Belsen  e Giuseppe Marconcini a Gusen, i comunisti Giuseppe Deambrogi a Herbruck e Guglielmo Bravo a Flossenburg, l’azionista Francesco Viviani a Buchenwald.
Ma per ricordare anche che a Verona fu rifondato il partito fascista repubblicano, operò la Gestapo, e si tenne il processo farsa ai gerarchi che il 25 luglio del 43 avevano votato contro Mussolini.
Anche di loro parla la mostra su Fascismo Resistenza Libertà in corso al museo di Castelvecchio, che con immagini e parole ci restituisce la memoria di ciò che è stato e con lo spirito civile che la anima onora  la città.
Mi auguro che molti ragazzi la visitino.
Le motivazioni della medaglia d’oro lette poco fa ci ricordano che  il prezzo pagato da  Verona al secondo Risorgimento fu  molto alto: deportazioni,  repressioni, bombardamenti devastanti da parte delle forze alleate, la distruzione dei collegamenti tra le sponde dell’Adige perpetrata dai nazisti.
 Il 25 aprile è una delle  date fondanti della nostra democrazia, e uno dei modi  per preservarla è quello di non piegare il passato alle esigenze del presente. E di non avere timori nel confrontarsi con la propria storia, come ha detto il sindaco di Verona.
Un ’esigenza del nostro eterno presente sembra essere ora la pacificazione, quasi che la guerra civile non si fosse ancora conclusa e i torti e le ragioni in qualche modo si dovessero compensare. Ma non può esserci pace senza verità.
E non c’è equivalenza possibile tra la parte che allora sosteneva gli occupanti nazisti e la parte che invece ha lottato per l’indipendenza e la libertà.
Nelle scorse settimane si è aperto un assurdo dibattito sul Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. I tre si trovavano al confino, l’Europa era sotto il controllo tedesco e non si sapeva ancora come la guerra si sarebbe conclusa. Non lo avrebbe mai saputo Colorni, poi assassinato da una pattuglia di militi fascisti della banda Koch.
Il Manifesto di Ventotene è un testo fondamentale per il federalismo europeo, prevedeva cessioni di sovranità  nazionale in favore di un governo comune, esattamente ciò di cui oggi si avverte l’urgente bisogno.
Da quel manifesto è stata estrapolata una frase relativa ai limiti della proprietà privata, limiti oggi riconosciuti peraltro dalla stessa Costituzione all’articolo 42 .
Rispondendo a un segnale venuto purtroppo dall’alto, contro il Manifesto di Ventotene e i  suoi autori si è aperta una campagna di odio e di dileggio. Poche voci si sono levate per ricordare cosa stava accadendo, in quel 1941.  Iniziava l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, iniziava la deportazione degli ebrei, la Germania e l’Italia invadevano i Balcani e dichiaravano guerra agli Stati Uniti.
Mussolini spiegava ai suoi che la partecipazione al conflitto  avrebbe consentito di avere un “pugno di morti da usare al tavolo delle trattative”. Quel pugno di morti erano i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri figli, e chissà quanti di noi se fossimo vissuti allora. In Italia 320 mila vite finirono bruciate  sull’altare del razzismo, del   militarismo, della retorica nazionalista.  E noi abbiamo discusso per giorni del manifesto di Ventotene!
La democrazia che oggi compie 80 anni ha garantito la pacificazione quando ha varato l’amnistia, quando ha consentito agli sconfitti di tornare a fare politica, anche in Parlamento, godendo dei diritti e delle garanzie che loro non avevano concesso ai loro avversari. A guardar bene, la differenza tra democrazia e dittatura è tutta qui.
La libertà di cui oggi tutti godono, la possibilità di esprimere opinioni diverse, è un’eredità diretta del 25 aprile, della Resistenza e della Liberazione, che hanno restituito all’Italia la libertà per tutti, indipendentemente dalle idee politiche.
Non era così nel ventennio fascista per le ragioni ben riassunte da Sergio Mattarella. Gli oppositori venivano  bastonati, incarcerati, costretti all’esilio o uccisi.
Non era permesso avere un pensiero autonomo, si doveva soltanto credere  in modo acritico e assoluto alla propaganda del regime.  Bisognava poi obbedire, anche agli ordini più insensati o crudeli. L’ordine di odiare: gli ebrei, i dissidenti, i Paesi stranieri. E, soprattutto, si doveva combattere. Non per difendersi, ma per aggredire.
Ha scritto Primo Levi che se questa politica  avesse prevalso (e poteva prevalere) l’intera Europa, e forse il mondo, sarebbero stati coinvolti in un unico sistema in cui l’odio, l’intolleranza e il disprezzo avrebbero dominato incontrastati.
Se non prevalsero  lo dobbiamo anche un uomo scomparso nei giorni che precedettero di poco la Liberazione.
Si chiamava  Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti che è giusto ricordare oggi perché diede un contributo  decisivo alla sconfitta del nazifascismo. Tra le cose che ci ha lasciato c’è il famoso discorso sulle quattro libertà che occorre garantire a tutti i popoli del mondo : libertà di culto, libertà di espressione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura.
E’ giusto ricordarlo oggi, nel momento in cui  gli  Stati Uniti sembrano aver smarrito la bussola morale ereditata da presidenti di quella levatura.
Questi 80 anni in parte li abbiamo spesi bene. L’aspettativa di vita è aumentata, raggiungendo livelli tra i più alti al mondo. La mortalità infantile è diminuita drasticamente. Sulle macerie della guerra è stato ricostruita un’economia competitiva. Sono state avviate riforme significative nel sistema sanitario e in quello pensionistico,
progressi sono stati fatti anche nel campo dei diritti civili e delle pari opportunità. Il tasso di analfabetismo è stato ridotto drasticamente, l’istruzione superiore è diventata più accessibile,  le pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani hanno un impatto superiore alla media europea. Abbiamo pagato un prezzo alto al terrorismo, che ci ha privato di alcuni dei nostri uomini migliori,  ma alla fine lo abbiamo sconfitto. Siamo ai primi posti nelle classifiche dell’economia circolare e siamo tra i paesi del G20 con le minori emissioni di CO2. Ma soprattutto la società italiana ha mostrato una forte coesione e un forte senso di cittadinanza, come si è visto nel drammatico biennio della pandemia.  Un numero crescente di italiani dedica­no  tempo libero e risorse alla cura dei beni comuni. Che non sono solo  parchi, scuole, piazze, monumenti, teatri, sentieri, spiagge, boschi, ma anche beni immateriali, come i diritti civili, la legalità, la memoria collettiva.
Una memoria consapevole, non strumentale e non riduttiva.  Molte amministrazioni locali –  Verona tra le prime  – hanno adottato regolamenti che si ispirano al principio della democrazia partecipata e disciplinano la gestione condivisa dei beni comuni. La vicenda del volontariato italiano è fra le più significative al mondo per qualità e quantità.
Ma adesso il progresso sembra essersi fermato,  e per la prima volta da molto tempo, c’è qualche cosa che suona male per il futuro nostro e dell’Occidente.    Non ci sentiamo più al riparo.
Mentre nel do­poguerra l’Occidente rappresentava circa un terzo della popolazione mondiale ed era l’unico terzo che stava bene, nel corso degli ultimi settant’anni la po­polazione è triplicata, il Pil mondiale è decuplicato e oggi l’Occidente rappresenta solo una piccola quota, il 10-15 per cento del totale.
Nella parte che prima era considerata in via di sviluppo, sono aumentati i livelli di istruzio­ne, e si sono affermati una classe media, un ceto intellettuale di prim’ordine e milioni di persone con competenze tecnico-scientifiche importanti.
La globalizzazione  ha portato un grande rimescolamento di carte, con una riduzione dell’iniquità e delle disuguaglianze  a livello mon­diale e un enorme aumento delle disuguaglianze nei Paesi ricchi.
Quello che sta cambiando  è anche il rapporto tra il benessere e la democrazia.  Alcuni grandi paesi stanno dimostrando che si può creare sviluppo economico, benessere e progresso tecnologico anche in assenza di democrazia.
Nella nostra parte del mondo  abbiamo fatto di tutto per accrescere le inquietudini: mortificando le pro­spettive della classe media, predicando le virtù dell’austerità, comprimendo i salari reali e non po­nendo limiti alla crescita della ricchezza di pochi.
S ‘è diffuso così un senso di insoddisfazione, e  insicurezza che si traduce in un malcontento politico profondo e in un crescente rifiuto della de­mocrazia. Oltre metà dell’e­lettorato non va più a votare.
Sta crollando la fiducia nelle organizzazioni multilaterali che ci eravamo dati  dopo la seconda guerra mondiale.    Sono in discussione istituzioni come l’ONU, come l’Organizzazione mondiale della sanità o quella del commercio, come la Corte penale internazionale.
Queste istituzioni, nate dopo la tragedie del Novecento  per promuovere la cooperazione internazionale, e scongiurare nuovi conflitti,  oggi  sono vissute come un’ingerenza costosa negli affari interni dei vari paesi.
L’affermarsi di politiche nazionaliste, la retorica del sovranismo, le crisi economiche, il crescente populismo e lo sguardo corto di molta parte delle classi dirigenti  stanno mettendo in discussione  la cultura della mediazione e la pratica del compromesso, che l’antipolitica ha stupidamente degradato a “inciucio”.
Sulla responsabilità delle classi dirigenti fa testo quanto detto nell’omelia pasquale dal vescovo di Verona quando ha citato Paul Valery: la guerra é un massacro di persone che non si conoscono / per conto di persone che si conoscono bene.
 Il diritto cede il primato alla forza, e quando il diritto è messo da parte il risultato sono le stragi che ogni giorno, da anni, ormai insanguinano paesi a noi vicini per geografia cutlura, tradizioni, appartenenze ideali.
Assistiamo a intellettuali e politici impegnati in una disputa umiliante sulle parole giuste da utilizzare per descriverle, queste stragi, quasi che di fronte a decine di migliaia di innocenti assassinati –a Gaza, in Israele, in Ucraina e in molti altri paesi –   l’urgenza fosse quella di accordarsi sulla giusta definizione dei massacri, e la questione fosse di competenza dei filologi degli storici e dei politici , prima che delle nostre coscienze.
Non vediamo che le guerre commerciali ne annunciano altre più cruente. Che di terre rare e materie prime sono  lastricate le nuove vie dell’inferno.
Tra le istituzioni create dalla politica lungimirante di 80 anni fa c’è – nelle sue diverse declinazioni – quella che infine è diventata l’Unione Europea. Anche in questo caso è opportuno tornare al Manifesto di Ventotene, 1941,  per citare un altro passaggio di straordinaria attualità:
 “la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più̀ lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”. Erano parole profetiche, considerando quanto sta accadendo in questi mesi. .
Mentre ci sono chiari i vantaggi della nostra adesione all’unione europea  (l’ultimo si chiama debito comune, da cui il Pnrr) siamo sempre più insofferenti ai doveri che l’appartenenza all’Unione  comporta..
Si è accusata l’Europa di impotenza mentre ci si rifiutava di delegarle responsabilità  e competenze.
In questo quadro,  sono molti i segnali di un declino dell’Italia.
 Dopo la crisi del 2008 abbiamo cominciato a coltivare le nostre speranze non più guardando al futuro, bensì al passato.
Abbiamo  assistito alla progressiva estinzione dei partiti, straordinario strumento di partecipazione, sostituiti da leader più o meno carismatici. Alla scomparsa degli eletti, sostituiti dai nominati.
Al declino della storia sostituita dallo storytelling, che sarebbe l’arte di raccontare, a prescindere dalla verità.
E a proposito di verità, abbiamo visto crescere la sua irrilevanza nel dibattito pubblico, abbiamo assistito al dilagare della comunicazione e al declino dell’informazione, trattate come se fossero la stessa cosa mentre la loro missione è profondamente diversa: perché lo scopo della comunicazione è la persuasione, quello dell’informazione è la conoscenza.
Abbiamo sostituito la vita reale con una vita posticcia, la second life digitale, con le conseguenze drammatiche di cui cominciamo finalmente ad avere coscienza, a cominciare da quelle che riguardano la salute dei nostri ragazzi.
Abbiamo donato i nostri dati e la nostra identità a piattaforme digitali che ne fanno un uso spregiudicato e spesso illecito.
Abbiamo scambiato per libertà la loro totale irresponsabilità – anche giuridica – per tutto ciò che veicolano.
E sull’altare dell’algoritmo – come ci ha ricordato il filosofo Remo Bodei poco prima di lasciarci – rischiamo di sacrificare  quei valori di libertà, eguaglianza, dignità, emancipazione, umanesimo, misericordia, che hanno finora ca­ratterizzato, seppure a intermitten­za, la nostra civiltà.
Abbiamo visto il centro delle nostre città  perdere l’anima per l’overdose da turismo e per il deserto commerciale causato dalle nuove piattaform, abbiamo assistito al progressivo  spopolamento delle aree interne, incapaci di compensare la denatalità con un governo saggio e non ideologico dell’immigrazione.
Da anni ormai  il numero degli italiani è in costante diminuzione. E anche l’immigrazione è una risorsa demografica che si va esaurendo. Gli italiani che se ne vanno sono più degli stranieri che arrivano.  E l’unica Italia che cresce  è  quella che ha scelto di vivere all’estero. Se ne vanno soprattutto i giovani, gli emigrati hanno un’età media di 30 anni. Se ne vanno i più istruiti e i più qualificati. I più preziosi, come gli infermieri.
Abbiamo visto, in questi anni, la metamorfosi della nostra identità:
80 anni fa da sudditi siamo diventati cittadini, ora rischiamo di trasformarci  da cittadini in  consumatori. Non un grande progresso.
E’ vistoso il disaccoppiamento tra occupazione e salari,   con la crescita del lavoro povero e il crollo dei salari reali, che in Italia – unico paese Ocse – oggi sono  più bassi di trent’anni fa. . Sono state abbandonate al loro destino, mortificandole,  categorie cruciali come insegnanti e medici. Enormi ricchezze sono passate dal lavoro e dai salari / al profitto e alle rendite.
Disuguaglianza è la parola che riassume le caratteristiche di un paese in cui aumentano sia il benessere sia la pover­tà.  La prima disuguaglianza riguarda il rapporto che i cit­tadini hanno con il fisco, dunque con lo Stato, dunque con gli altri cittadini. È in nero una parte rilevante delle attività economiche, dove nero significa imposte evase e, per le imprese, concor­renza sleale.
Ma siamo disuguali anche nell’accesso alle cure, alla cultura, alla mobilità, all’informazione, all’istruzione. L’abban­dono scolastico è un fenomeno che riguarda ancora quasi esclusivamente i figli dei poveri, come ai tempi di don Milani.
Sono disuguali i diritti e i doveri di genere, con discriminazioni non formalizzate ma interiorizzate, che è assai peggio.
E soprattutto, con l’ascensore sociale bloccato,    da noi uno resta quello che nasce.
Le disuguaglianze sono il principale detonatore dei conflitti sociali . Contribuiscono a erodere la fiducia nella democrazia e nei suoi strumenti.
La democrazia è un meccanismo molto delicato. Non si regge solo sul consenso, a differenza di ciò che ci sentiamo ripetere  tutti i giorni.
Ebbero grandi consensi, consensi plebiscitari, anche le sanguinose dittature del Novecento.
Per essere tale la democrazia deve essere sostenuta dal pluralismo, dalla separazione dei poteri, dalla tutela dei diritti di tutti. Non perché ce lo ha insegnato Norberto Bobbio, che fu peraltro anch’egli prigioniero a Porta Vescovo, ma perché ce lo ha mostrato la storia.
 Ha ragione chi ritiene  che la qualità di una buona democrazia si misura non dal grado del consenso ma da quello del dissenso.
La Resistenza fu levatrice della democrazia non perché rappresentasse la maggioranza, ma perché incarnò un progetto di libertà e giustizia che, dopo la Liberazione, divenne egemonico attraverso le istituzioni repubblicane.
Quel progetto ora va ripreso e rinnovato, perché – come abbiamo visto – ci sono sfide nuove e perché libertà e giustizia non si conquistano una volta per sempre
Per concludere, credo che oggi sia giusto celebrare gli 80 anni dalla Liberazione con un pensiero  dedicato a Papa Francesco.
La sua vita dedicata a costruire ponti tra le persone,  riflette bene lo spirito di unità e di speranza che la Festa di oggi rappresenta.

Grazie dell’onore che mi avete concesso e Buon 25 aprile a tutti!