A FINE ANNO LA QUESTIONE DELL’UNITà RISORGIMENTALE RESTA SEMPRE APERTA

“Finisce l’anno del Centocinquantesimo. Al netto della retorica, e a tratti dell’ipocrisia, valeva la pena di festeggiarlo” (?) Il punto interrogativo è mio, Sallusti, nel suo bilancio dell’anno, non l’ha previsto. Per il 150° dell’Unità d’Italia, ci sono stati quelli che lo hanno festeggiato insistendo con la solita retorica sull’epopea risorgimentale, in particolare ripetendo la noiosa beatificazione a senso unico dei cosiddetti padri della patria (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele), in questo modo, imponendo una specie di “catechismo risorgimentale” edulcorato, altri invece, in verità una minoranza, non solo si sono rifiutati di festeggiare il 150° dell’unità del Paese, ma hanno inneggiato ai vecchi Regni prima dell’unità d’Italia, creando una sorta di leggenda aurea, in particolare per il Regno delle Due Sicilie. Per la verità, questi ultimi, forse meritano maggior rispetto dopo decenni di demonizzazione di quel Regno e di palese occultamento degli avvenimenti che misero fine al Regno stesso. In pratica le celebrazioni spesso sono state accompagnate o da troppe glorificazioni al limite della comicità ( penso alle dichiarazioni penose e farsesche di un sindaco della riviera jonica messinese) o da troppe polemiche e criticità assoluta contro la nuova unità statuale. Nei miei interventi ho cercato di seguire il senso dello slogan che Alleanza Cattolica ha utilizzato nei tanti convegni organizzati in numerose città italiane: “Unità Si. Risorgimento No”, e credo che anche il cardinale emerito di Bologna, monsignor Giacomo Biffi, non si sia tanto discostato dallo slogan nel suo ultimo libro sul risorgimento: mi riferisco a L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861 – 2011, edito da Cantagalli, Siena (pp.86, e 8,00). “E’ una ricorrenza suggestiva e non può essere disattesa”, scrive monsignor Biffi a proposito del 17 marzo 1861, “è una rievocazione ricca e complessa, al servizio (almeno nelle intenzioni) di una approfondita e più adeguata comprensione dell’intera vicenda”.Come Massimo Viglione, nel suo Le Due Italie, edito da Ares, anche Biffi per affrontare il risorgimento italiano, parte dalla data del 1796, l’anno dell’ingresso in Italia delle truppe guidate da Napoleone. Una invasione di nuovo genere. L’Italia aveva patito diverse invasioni, questa era molto diversa, inedita, non paragonabile alle precedenti. Gli eserciti francesi hanno inferto alle popolazioni italiane una miriade di tasse per contribuire alle spese di guerra. I francesi furono un esercito di ladri. Prima di allora i conquistatori, spagnoli, austriaci, mai si erano permessi di derubarci delle nostre opere d’arte. (si ripete oggi con Sarkozy, quello che avvenne allora?) Biffi insiste, i francesi erano un esercito di “ladri”, ma forieri di novità, cioè era un esercito di “missionari”. “Nascosto negli zaini di quei soldati, entrò in Italia l’annuncio di un radicale capovolgimento delle regole di convivenza sociale (…)”. In pratica, Napoleone, portò in Italia quelle “conquiste”, che avevano appena acquisito in Francia con la Rivoluzione del 1789. In particolare il “terrore” insanguinato del 1793, con il regicidio e il genocidio vandeano. Soprattutto portò quell’idea di Nazione, formulata dall’Assemblea Costituente del 1789. Scomparso Napoleone resta il modello transalpino, che affascinò una certa élite di italiani, che pensarono di superare la pluralità degli Stati italiani. Da questo momento inizia il cosiddetto processo del Risorgimento con la guida determinante della dinastia sabauda. Il nome stesso è suggestivo e fortunato e si può capire secondo Biffi, da quale speranza erano mossi i cosiddetti patrioti. Per loro il popolo italiano era vissuto nelle condizioni di semi schiavitù: “calpestati e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”. L’Italia era morta, adesso bisogna farla risorgere. Il cardinale è convinto che alla fine del XVIII secolo, l’Italia aveva bisogno di riforme che per certi versi il risorgimento ha in parte prodotto, però secondo Biffi, quello che non si può accettare è quella retorica divulgata che considera il risorgimento come rinascita totalizzante, un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Infatti, con le celebrazioni del 150° si ama supporre che prima del 1860 “tutto è degenerazione e squallore – scrive Biffi – dopo il 1860 tutto riprende a fiorire: il termine stesso ‘risorgimento’ insinua o suppone proprio questa amplificazione che invece chiederebbe, a nostro parere, di essere attentamente verificata”. A questo punto il libro racconta la ricca vitalità del popolo italiano, della nostra penisola, in particolare del settecento. Il cardinale fa un elenco di conquiste in tutti i campi. Nella vita culturale e artistica, “les italiens” son presenti a Parigi; a Vienna, i “poeti cesarei”, non hanno cognomi tedeschi, ma si chiamano, Apostolo Zeno, Pietro Metastasio, il linguaggio dell’opera lirica è italiano. Inoltre “Nel secolo XVIII – scrive Biffi – si costruiscono chiese e palazzi sui modelli italiani, prima secondo gli stilemi barocchi e roccocò poi su quelli palladiani e neoclassici”. Perfino nella lontana capitale russa, San Pietroburgo, si edificano i palazzi da italiani come Francesco Rastrelli, Antonio Rinaldi. E poi la musica sinfonica, non solo quella operistica, da citare Corelli, Scarlatti, Vivaldi. Perfino Mozart viene a studiare in Italia. Nel mondo scientifico il nostro Paese annovera nomi dal prestigio universalmente riconosciuto, quali Marcello Malpighi, Morgagni, Spallanzani, Galvani, Volta: “una stagione felice, che dopo l’unità non si ripeterà più”. Pertanto secondo Biffi, proprio quando abbiamo“un governo ‘italiano’, un parlamento ‘italiano’, un esercito ‘italiano’, proprio quando siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno”. Così le genti italiche quando erano divise, insegnavano qualcosa a tutti, una volta raggiunta la sospirata unità e indipendenza politica, hanno solo cercato di imitare un po’ tutti(…)Comunque sia scrive il cardinale, se c’è stato un ‘risorgere’, è stato un ‘risorgere’ relativo e parziale. Anzi con l’unificazione statuale c’è stato un calo della nostra connaturale creatività. Al capitolo V monsignor Biffi si domanda se nel 1861c’è stata unificazione o conquista da parte piemontese. Biffi sembra optare per la seconda opzione, la così detta ‘rivoluzione italiana’ è stata un procedimento di annessione. Per Biffi il pluralismo statuale precedente, anche se andava superato, “non era un fenomeno del tutto negativo: corrispondeva a un certo genio del nostro popolo e aveva dato tra l’altro, come ammirevole risultato, il fascino impareggiabile di molte città italiane vestite a festa come si conviene alle capitali”. Non si tenne conto delle particolarità e delle ricchezze degli Stati pre-unitari, sbrigativamente si impose a tutti i territori, la legislazione, la struttura amministrativa e la burocrazia piemontese.
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DOMENICO BONVEGNA
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