Invisibili: tutte le facce dello sfruttamento del lavoro

Le menti dei nostri Padri Costituenti avranno contemplato, anche solo per un momento, la possibile integrazione di questo participio aggettivale (“sfruttato”) nel dettato dell’Articolo 1 della Costituzione?

Il decorso degli eventi storici, politici, sociali del nostro “bel Paese” ha avallato la necessità di aggiungere questa postilla. Per capirne a fondo le ragioni, ci si può lasciare accompagnare da un valido vademecum: il primo numero della collana Tempi Moderni/Infinito edizioni: “Articolo 1. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro sfruttato” (https://www.infinitoedizioni.it/prodotto/articolo-1litalia-e-una-repubblica-fondata-sul-lavoro-sfruttato/), a cura di Marco Omizzolo, sociologo dell’Eurispes, presidente del Centro Studi Tempi Moderni,  docente di Sociopolitologia delle migrazioni della Sapienza Università di Roma.

Prosceni diversi uniti da fattori comuni: sfruttamento, emarginazione, privazione di dignità, negazione di diritti. Che siano le campagne italiane, i laboratori tessili, i cantieri edili, il mare aperto, la strada, gli esercizi commerciali fa poca differenza: si configurano tutti come “non-luoghi” di rispetto della dignità della persona che lavora. Tutt’altro. In essi si rimarcano, a tratti spessi, le linee del colore, del margine, dello sfruttamento, della schiavitù, della discriminazione, della forza e della violenza.

Voci autorevoli dal mondo dell’Università, della ricerca, del sociale, del giornalismo d’inchiesta indagano il fenomeno dello sfruttamento del lavoro e lo analizzano nei settori specifici di propria conoscenza e competenza, sviscerandolo nelle pieghe più recondite e facendo addentrare il lettore nei meandri più nascosti e inesplorati di un mondo così complesso e articolato, qual è quello del lavoro sfruttato.

Subordinazione, impoverimento, vulnerabilità e fragilità: tutto questo caratterizza i braccianti della terra e del mare, spesso immigrati provenienti da vari paesi africani, asiatici e sudamericani, “invisibilizzati” dall’ipocrisia, dall’indifferenza, dagli egoismi dell’Occidente globalizzato.

La “religione dello scarto”, di cui siamo divenuti abili cultori, spinge il sistema a sacrificare i reietti della società sulle are del profitto e degli utili economici, nel mondo di un capitalismo predatorio che, mentre sbarra le porte alla rivendicazione di diritti fondamentali per tutti, quali libertà, giustizia, equità, le spalanca sempre di più ad investimenti ed interessi personali.

Le biciclette dei braccianti indiani sikh tra le migliare dell’Agro pontino sui sentieri sconnessi delle assolate campagne per raggiungere le aziende dei propri padroni non sono meno alienanti di quelle dei tanti riders, poco tutelati e “regolati”, ma sempre pronti a soddisfare celermente le esigenze di cittadini “comodi”. A tal proposito, la fase dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha confermato come il fenomeno dello sfruttamento del lavoro non sia da ricondurre ad attività lavorative del passato, caratterizzate da un basso tasso di utilizzo delle tecnologie digitali. Al contrario. Come dimostra William Chiaromonte, professore associato di Diritto del lavoro presso l’Università di Firenze, con i riders lo sfruttamento si annida proprio nell’espansione della cosiddetta economia delle piattaforme, in settori come il food delivery.

Le campagne dell’Agro pontino, attraversate, esplorate, indagate, studiate con acume intellettivo e umana sensibilità da Marco Omizzolo fanno da contraltare a quelle della Puglia, della Calabria e della Basilicata con le sagaci riflessioni su agromafie e schiavismo di Jean-René Bilongo, capo dipartimento politiche migratorie, inclusione e solidarietà sociale Flai-Cgil, e di Sara Manisera, giornalista indipendente e scrittrice che ha tratteggiato in modo accurato le lotte dei braccianti nelle campagne italiane per i diritti e l’ambiente. I braccianti indiani sikh di Bella Farnia sono, infatti, “fratelli” dei lavoratori africani della baraccopoli di San Ferdinando nella Piana di Gioia Tauro e dei lavoratori albanesi del tabacco nelle campagne tra Marcianise, Santa Maria Capua Vetere e San Tammaro, cuore della produzione italiana di burley, come ha descritto in modo assai interessante e originale Angelo Mastrandrea, giornalista che da anni si occupa di lavoro e diritti dei migranti: fratelli negli stessi ghetti, vittime degli stessi incidenti sul lavoro, preda di quella parte del mondo dell’agricoltura italiana che sfugge ad ogni regola.

Quanti pregiudizi, etichette, preconcetti ci fanno erigere muri e abbattere ponti tra noi e “gli altri”. È quanto avviene, ad esempio, per il muro dell’etichetta di “migranti economici”, come mostra lucidamente il giornalista Emilio Drudi.

Accanto alle campagne si annoverano, tuttavia, altre ribalte per lo sfruttamento.

Partiamo da Federico Oliveri, dell’Università di Pisa, che fa un’accurata analisi del “distretto della moda” in regioni a economia avanzata come la Toscana, un vero e proprio laboratorio per nuove e più sofisticate forme di sfruttamento, cercando in tal modo di adombrare il lavoro sfruttato. Marco Benati, della Fillea Cgil nazionale, ci porta invece a scovare lo sfruttamento del lavoro e il caporalato nei cantieri edili italiani; con Pina Sodano, vice presidente di Tempi Moderni, sociologa delle migrazioni islamiche in Europa per l’Università degli Studi Roma Tre, saliamo poi a bordo delle imbarcazioni che solcano il Mar Mediterraneo, con i lavoratori immigrati sfruttati nella pesca, senza sosta, sotto il sole, con l’umidità e la salsedine che entrano nelle ossa. Ancora, con Beppe De Sario, ricercatore e responsabile dell’Osservatorio sulle migrazioni della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, scrutiamo il lavoro degli immigrati nel settore commerciale, in un intreccio non semplice da sbrogliare tra la posizione dei dipendenti e quella dei titolari delle imprese, nella cornice di legami tra connazionali e di rapporti di parentela e affinità che talvolta coincidono e si confondono con i rapporti di lavoro.

Perché il mercato del lavoro non sia più caratterizzato dai cosiddetti lavori delle “tre d” (dirty, dangerous and demeaning jobs, vale a dire sporchi, pericolosi e umilianti), o delle 5P (pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzanti socialmente), secondo la felice formulazione del sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini, è doveroso che la memoria storica si trasformi in azione concreta.

La memoria è un processo continuo, per ricordare il passato affinché ciò che è successo non capiti più. I morti sono un punto di riferimento, un esempio per sviluppare il senso della comunità e aprirsi verso una mentalità nuova.

Uomini, donne, ragazzi non sono morti per una targa, una lapide, un discorso commemorativo, ma per un ideale di giustizia che sta a tutti noi realizzare. Ricordare non basta: occorre trasformare la memoria in memoria viva, ossia in impegno a costruire una società diversa, formata da persone che si oppongono, non solo a parole, ma con le scelte e i comportamenti, alle ingiustizie, alle violenze, alla corruzione.

Solo in questo modo il sacrificio di Jerry Essan Masslo, di Soumaila Sacko, bracciante sindacalista ucciso nei ghetti italiani e analizzato con un saggio approfondito di Arturo Salerni che della famiglia di Soumaila è avvocato, o di Paola Clemente potranno avere un senso. La sottoscrizione di nuovi Patti di Corleone o un nuovo 18 aprile – interessante la coincidenza della data 18 aprile per pratiche di lotta ed emancipazione: nel 1900 per i braccianti italiani emigrati in Messico e nel 2016 per i braccianti indiani sikh in piazza della Libertà, a ridosso della Prefettura a Latina – potrebbero, come scrive Sara Pirandello, trasformare quel fuoco che tante volte aveva divorato le baracche dell’accampamento di San Ferdinando o i tanti tuguri dei “San Ferdinando” o dei “Bella Farnia” d’Italia – e non solo – in fuoco vivo di desiderio di giustizia, libertà, diritti umani, dignità. Solo così i lavori sfruttati delle “tre d” o delle “5P” cederanno il testimone al lavoro libero che nobilita l’uomo.

GIUSY ROSATO