“Voglio fare la calciatrice”: di Francesca Gargiulo e Gaia Missaglia

Nell’ambito degli incontri che la scuola calcio Esquilino FC organizza nel corso dell’anno, convinta che la funzione educativa e quella sportiva di un centro di formazione sportivo debbano trovare un punto di equilibrio, alcuni giorni fa abbiamo incontrato Francesca Gargiulo, autrice insieme a Gaia Missaglia del libro Voglio fare la calciatrice uscito nel 2022 per le edizioni Piemme di Milano.

Mescolando realtà e finzione Francesca e Gaia raccontano le vicende di un gruppo di bambine appassionate di calcio che entrano a far parte di una squadra femminile e iniziano insieme il loro faticoso percorso in un mondo prevalentemente fatto da maschi.

Francesca e Gaia, che hanno giocato ad alti livelli, ora allenano una nella scuola calcio del Como e l’altra in quella del Milan e si trovano ad operare quindi con quella delicata fascia d’età di cui appunto parlano nel loro libro, quella di chi inizia a frequentare lo sport prima che esso proietti i praticanti nel mondo dell’agonismo.

“Pazienza – ha detto Francesca durante l’incontro – Il requisito principale di un allenatore o di una allenatrice che si trova a lavorare con bambini o bambine in questa fascia d’età è proprio la pazienza, perché l’ansia di dover raggiungere necessariamente livelli d’élite può provocare problematici contraccolpi. L’ansia di voler a tutti i costi dimostrare la propria bravura di allenatore, formando giovani giocatori e giovani giocatrici, può portare ad anteporre il fattore tecnico ad altri obiettivi forse ancora più importanti che chi opera a questo livello dovrebbe invece considerare prioritari, un pericoloso virus contro cui trovare antidoti è fondamentale”.

L’incontro, oltre ad affrontare tematiche generali riguardanti il calcio e i mali che lo assillano, tanto a livello di base come ai gradini più alti della piramide, si è focalizzato sul rapporto tra maschi e femmine all’interno di questo sport e sulle difficoltà che incontra chiunque provi a costruire degli ambienti misti invece di optare, come molto più diffusamente si fa, per ambienti omogenei.

A un certo punto del libro le bambine della squadra femminile si ritrovano a giocare contro una squadra maschile di un certo livello, che accoglie le ragazze arrivate al campo per disputare la partita contro di loro con quel riconoscibilissimo mix di spocchia e sufficienza, tipico di chi si sente superiore ed è convinto che avrà vita facile. Durante la partita, invece, l’equilibrio spinge i maschi a innervosirsi e il loro allenatore ad aumentare la pressione sui bambini, incapaci di battere un gruppo di bambine, come se non si stessero impegnando abbastanza.

Francesca, che allena una squadra femminile, è consapevole del fatto che questo tipo di situazioni si producono proprio perché tra maschi e femmine vige una netta separazione che induce ad atteggiamenti agonistici e di contrapposizione, invece che di incontro e collaborazione. Se i maschi avessero maggiori occasioni per relazionarsi con le femmine, se all’interno delle società sportive, come d’altronde invitava a fare almeno fino a qualche anno fa la federazione, fossero maggiori i gruppi misti, probabilmente assisteremmo a spettacoli di altro tipo.

Per Francesca l’ideale sarebbe un modello misto in cui ci si possa allenare insieme e convivere nello stesso gruppo ma poi avere anche spazi di autonomia nei quali giocare per conto proprio, magari contro altri gruppi di femmine.

Certo, gestire la differenza all’interno del gruppo è più complesso per le società e i loro allenatori che non invece lasciare le cose come stanno. È chiaro che la convivenza di bambini e bambine all’interno dello stesso gruppo, nello sport come in altri ambiti della società, spingerebbe a una maggiore riflessione sul concetto di “maschile” e “femminile”, sul significato che diamo a queste due parole e sui comportamenti che attribuiamo necessariamente all’uno o all’altro.

L’interesse però a “decostruire” entrambi, per rimontarli in base a criteri diversi, più equi, sani, positivi, non è considerato un obiettivo educativo di chi si occupa di sport, tanto meno nel calcio.

Il libro, oltre a raccontare le vicende di una squadra di femmine alle prese con le difficoltà che devono superare per realizzare il loro sogno, cioè giocare a calcio come i loro amici maschi, presenta alle giovani lettrici e ai giovani lettori brevi biografie di atlete che hanno raggiunto l’obiettivo di giocare nelle serie più prestigiose. Come quella di Elena Linari, che racconta come fino a pochi anni fa nonostante giocasse in Serie A, il materiale sportivo se lo dovesse lavare da sola; come Laura Giuliani che racconta come la famiglia sia stata un appoggio determinante per il suo successo sportivo, cosciente del fatto che invece in molti casi l’insuccesso è proprio determinato dall’ostilità che il proprio ambiente dimostra alla passione delle bambine; o come Eleonora Goldoni, che racconta come il difficile rapporto con il cibo e le sue problematiche alimentari, tanto diffuse oggi tra i giovani, più tra le ragazze ma ormai anche tra i ragazzi, avrebber potuto compromettere il suo percorso. Storie importanti, leggere, brevi, che servono molto a comprendere quante differenze ci siano tra il presente e il recente passato, ma anche quanti scogli, ostacoli, pregiudizi, luoghi comuni, vadano ancora sfatati per costruire un ambiente realmente in grado di offrire pari opportunità di realizzazione a bambini e bambine.

Come d’altronde sottolinea nella postfazione Anita Pirovano, docente di Psicologia sociale ed esperta di studi di genere dell’università Bicocca di Milano. Dobbiamo e possiamo contribuire a dare una visione plastica del concetto di modello, perché esso non si trasformi in un vestito che deve andare bene per tutti ma piuttosto perché possa essere associato a un materiale che ciascuno manipola e modella come crede, in modo che diventi un riferimento utile a pensare con più convinzione e ottimismo al proprio futuro.

Ci saranno sempre bambine che preferiscono ballare la danza classica o praticare la ginnastica artistica e la pallavolo, ma dobbiamo costruire una società in cui possono sentirsi assolutamente a posto con se stesse giocando al calcio se lo vogliono. Visto che un secolo fa era vietato, nessuno può negare che dei passi avanti siano stati fatti. Ora si tratta di ragionare su una cornice che permetta a questo sport di risolvere alcune sue contraddizioni e, attraverso la presenza delle femmine, modificare il modello a cui si ispirano i maschi.

Nella speranza che non sia invece vero il contrario e cioè che lo sport professionistico femminile replichi in scala più piccola le disfunzioni a cui gli appassionati di calcio maschile si sono purtroppo abituati.

Giovanni Castagno – Collaboratore Uisp Roma per le iniziative di calcio sociale