La pallacanestro alla deriva: difendiamo i giovani dalle regole di Mamma Fip

Ha sorpreso in modo particolarmente spiacevole l’atteggiamento dei tanti tesserati della Federazione pallacanestro davanti all’utilizzo degli stranieri nella nazionale.

 

Hanno tutti parlato di opportunità da prendere al volo per raggiungere gli obiettivi, della condanna al silenzio di chi rema contro la Fip, di resistenze da parte di vecchi nostalgici all’utilizzo dei giocatori non italiani. Nemmeno uno che si sia preoccupato dei ragazzi locali che vengono costretti a quattro anni di formazione per poter giocare nei campionati, pena l’utilizzo limitato, perché equiparati agli stranieri, delle società che li tesserano.

Il problema è la Nazionale, la possibilità di arrivare ai mondiali, alle olimpiadi, agli europei, il suo permettere o meno di formare atleti: basta una convocazione del Ct azzurro per sanare i buchi nella formazione e rendere più ricco il procuratore di quell’atleta (straniero) poiché come per magia il giocatore potrà essere considerato “italiano”.

Che poi si costringa cinquanta, centomila, un milione di ragazzi alla formazione e al numero minimo di gare da dover disputare ogni stagione con quello che ne consegue, non sembra rilevante. Conta solo il fatto tecnico, questa perversa regolarità della formazione, il mito del sempre e comunque e il suo susseguente martirizzarsi con l’aria di chi nonostante tutto ce l’ha fatta anche stavolta. Per carità, la nostra riflessione non è una crociata nazionalista contro l’uso di giocatori stranieri.

Certo è l’aver dato la possibilità di tesserarli nei campionati minori non aiuta la crescita dei nostri ragazzi che trovano sempre meno spazio nelle turnazioni a vantaggio degli atleti stranieri. Per non parlare dei costi della società di C e D nel reclutarli: il gioco vale la candela? Noi crediamo di no.

Epperò tutti contenti quando l’Armani ci dona i suoi stranieri per rinforzare il roster di coach Sacchetti. Questo ci fa pensare che manca completamente un’educazione civica e morale che permetta di considerare il ragazzino di Giarre, Messina, Urbino, Asti o Treviso una parte integrante del gioco. Quanto lo si rispetti poco è dimostrato dalle regole a volte paradossali di molti Comitati regionali che, per esempio, costringono gli under 15 o 16 a trasferte folli per poter far disputare alle società il numero necessario di gare per il regolare svolgimento del campionato giovanile.

E questo perché spesso in molte Regioni, vedi Sicilia e Calabria, ma non solo loro, ogni anno si iscrivono sempre meno società. Siccome le famiglie pagano le rette, quasi che fossero gli unici sponsor delle società, sono considerate dagli stessi dirigenti e d-istruttori oltre dalla Federazione pallacanestro, disponibili a una sorta di cambiale volontaria. Dimenticando che di questa specie di “prelevamento forzato” o “abbruttimento del basket giovanile” il nostro movimento sportivo vive.

Il punto invece è riuscire a stabilire che per giocare una partita non deve essere agibile solo il palazzetto, ma anche l’ambiente sportivo ed etico in cui questo gioco si “fruisce”. Non possono essere solo quattro anni di formazione, l’aver ingaggiato quel procuratore influente, o addirittura il pagamento o meno delle rate da parte delle famiglie, a decidere la condanna all’addio del basket di migliaia e migliaia di ragazzi. Adesso tutti a dire che siamo degli ignoranti, dei cattivi comunicatori, che il basket è questo, questi gli uomini, queste le regole di Mamma Fip e questa anche l’aria rancida, per dirla alla Scariolo, che si torna a respirare.