Il nuovo Piano Nazionale Liste d’Attesa (PNGLA) annuncia trasparenza, tempi certi e tutela per chi aspetta una visita o un esame. Ma dentro questo quadro apparentemente moderno continua a mancare un intero settore: i servizi sociosanitari. RSA, strutture per disabili, centri diurni, residenzialità psichiatrica, assistenza domiciliare integrata. Un universo enorme, riconosciuto come Livello Essenziale di Assistenza e finanziato dal Fondo sanitario nazionale, che però non compare in nessuna delle tabelle, delle priorità o dei percorsi di tutela previsti dal PNGLA. La conseguenza è semplice e devastante: per queste prestazioni non esiste alcun tempo massimo di attesa, nessun obbligo di pubblicità delle graduatorie (se non quelle genericamente imposte dalla disciplina sulla trasparenza amministrativa), nessun meccanismo che garantisca la presa in carico entro limiti ragionevoli.
Il risultato è un Paese dove per una TAC si applicano standard nazionali mentre per un posto in RSA o in una struttura psichiatrica residenziale si vive in un limbo amministrativo.
La persona spesso ha già ottenuto una valutazione UVM/UVG, un progetto individualizzato e un bisogno sanitario riconosciuto, ma resta etichettata come “collocato in graduatoria” senza alcun orizzonte temporale. È una situazione che crea disparità territoriali enormi e che collide frontalmente con i principi costituzionali di uguaglianza e tutela del diritto alla salute. Non si capisce perché una prestazione sanitaria “pura” debba essere garantita in tempi certi e una prestazione sociosanitaria, pur essendo LEA, possa invece dipendere dalla disponibilità di posti o di bilancio della singola regione. È un corto circuito normativo inaccettabile, che pesa soprattutto sulle persone non autosufficienti, sulle famiglie già provate da carichi di cura e sulle situazioni di maggiore fragilità.
Nella realtà quotidiana l’utente non ha strumenti semplici di tutela. È costretto a inseguire informazioni frammentarie, a confrontarsi con graduatorie spesso non pubblicate, astruse, incomprensibili, a dipendere dal buon volere dell’amministrazione. Ed è qui che la parte più debole del sistema sanitario mostra tutta la sua opacità. Mentre il governo delle liste d’attesa per le prestazioni ambulatoriali è stato elevato a priorità nazionale, l’accesso alle prestazioni sociosanitarie rimane privo di un impianto di garanzia. Nessuna effettiva trasparenza, nessuna responsabilità, nessuna certezza.
In questo vuoto programmatorio e legislativo, il cittadino deve attrezzarsi.
La prima azione
utile è l’accesso agli atti: chiedere formalmente la propria posizione in graduatoria, i criteri con cui è stato attribuito il punteggio, le date di scorrimento e i tempi medi di attesa degli ultimi anni. La PA è tenuta a rispondere e, una volta costretta a esibire i dati, diventa meno facile mantenere opacità o discrezionalità non motivata.
La seconda azione
è la richiesta di aggiornamenti periodici, sempre per iscritto, sullo scorrimento della graduatoria e sull’andamento dei posti disponibili.
La terza azione è la diffida formale, soprattutto quando il bisogno è urgente o quando la permanenza in graduatoria supera ogni limite ragionevole: una diffida ben costruita richiama l’obbligo di garantire i LEA, la giurisprudenza sul “nucleo irriducibile” del diritto alla salute e la responsabilità dell’ente nell’assicurare una presa in carico tempestiva.
In casi più complessi, soprattutto quando la mancata presa in carico produce un danno alla persona o alla famiglia, si può valutare il ricorso al giudice amministrativo o civile, richiedendo l’attuazione del progetto terapeutico individuale o la condanna dell’ente all’erogazione della prestazione in deroga, come riconosciuto dalla giurisprudenza in molte materie ad alta fragilità. Non è una via semplice, ma è spesso l’unica che permette di superare l’immobilità istituzionale.
Claudia Moretti, legale, consulente Aduc
