Riforma del MES: è questa l’Europa che vogliamo?

Circa due settimane fa, prima che la polemica politica impazzasse sulla questione del c.d. “Fondo Salvastati” avevamo scritto un articolo auspicando un dibattito che andasse oltre i formalismi tecnici. La riforma del MES, il Meccanismo di Stabilità Europeo, potrebbe rappresentare un tassello importante della riforma delle istituzioni europee, ma la piega che sta prendendo, dimostra molto chiaramente che la direzione è quella sbagliata: prima ancora che nel merito è sbagliata nel metodo.

Nessuna nuova, cattiva nuova
Fuori dalle sterili polemiche politiche, possiamo dire che la modalità con la quale si sta cercando di far passare questa riforma è esattamente la stessa con la quale si sono costruiti tutti i passaggi precedenti dell’architettura istituzionale europea.
Nell’Unione Europea, sostanzialmente, non decidono i parlamenti. Decidono i governi e poi i parlamenti ratificano.
Ieri il Presidente del Consiglio Conte si è affannato a dare una ricostruzione dei fatti esattamente opposta. Chi desidera approfondire può leggere quanto ha comunicato alla camera a questo link.
Ciò che ha detto è tecnicamente vero, ma sostanzialmente falso.
E’ verissimo che formalmente il Parlamento è stato più volte informato, ma è stato informato in modo così generico che di fatto non era possibile esprimere nessun vero indirizzo.
Esattamente come è sempre successo per gli altri trattati.
Formalmente il Parlamento sapeva, ma non c’è mai stato modo di fare un vero dibattito, entrando nel merito delle questioni.
Da questo punto di vista, quindi, non c’è nessuna novità. Ma è proprio questo è il problema.

Evidentemente non si è ancora preso atto che questo modo di procedere ha creato una frattura sempre più incolmabile fra le istituzioni europee ed i cittadini.
Una riforma così importante come quella che dovrebbe garantire la stabilità delle finanze degli Stati europei non può essere decisa senza che prima vi sia un ampio dibattito pubblico fra i cittadini europei sulle opzioni in campo.
Continuare a mettere i Parlamenti delle varie nazioni alle strette lasciando solo la possibilità di approvare o respingere un testo, con la solita minaccia che non approvando potrebbe accadere un disastro, può portare qualche avanzamento momentaneo nella costruzione del castello istituzionale, ma mina le fondamenta dello stesso.

La questione della risoluzione del Senato
Nel caso specifico della riforma del MES c’è un tassello in più che rende questo modo di procedere formalmente ancor più inaccettabile.
Nella seduta del Senato del 19 Giugno 2019, prima che si svolgesse la riunione del Consiglio Europeo dei due giorni successivi, fu votata una risoluzione che impegnava il Governo, fra l’altro, a questi tre punti finali:
“11) più specificamente, in ordine alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale;
12) a promuovere, in sede europea, una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’Unione economica e monetaria – la riforma del trattato del Meccanismo europeo di stabilità (MES), dello Schema europeo di garanzia sui depositi (EDIS), e del budget dell’area euro -, riservandosi di esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto, favorendo il cosiddetto “package approach”, che possa consentire una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo;
13) a rendere note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato.”

Fino a qualche settimana fa, si riteneva che la riunione del 20 e 21 Giugno avesse trovato un accordo su una bozza di testo che però aveva ancora dei margini di modifica e che il testo definitivo sarebbe stato firmato solo nella prossima riunione di dicembre. La dichiarazione ufficiale pubblicata sul sito del Consiglio Europeo (4) riporta espressamente: “sulla revisione del trattato MES. Ci attendiamo che l’Eurogruppo prosegua i lavori in modo da consentire il raggiungimento di un accordo sull’intero pacchetto nel dicembre 2019”.
Dal momento che i lavori devono proseguire non si può parlare di “firme vincolanti” messe dal Presidente del Consiglio. Al tempo stesso non si può non sottolineare come il Ministro dell’Economia abbia sostenuto in Parlamento che non ci si sarebbero più margini per fare nessuna modifica al testo.  Quindi dobbiamo concludere che formalmente il Presidente Conte non ha violato la risoluzione del Senato, ma sostanzialmente è stato fatto.

Il problema nel merito
La compressione del dibattito pubblico che indiscutibilmente c’è stata, per la riforma del MES, così come per tutte le precedenti riforme più importanti delle istituzioni europee, ha di fatto impedito di discutere la sostanza del problema.
Come ho cercato di scrivere nel precedente articolo, si tratta di due visioni dell’economia che si scontrano, e in particolare la concezione del debito pubblico e dell’uso del potere di emettere moneta.

Un passaggio del discorso del presidente Conte, fa capire come lo stesso sposi in modo convinto la visione economica di fondo che tutt’ora domina nelle istituzioni europee. Si può definire, con un termine un po’ abusato ed anche un po’ ambiguo: la visione neoliberista. Il passaggio è il seguente:

“Nel dibattito in corso si è levata qualche opinione – non mi è sfuggita – di chi ritiene negativo l’aver inserito nel Trattato il concetto di sostenibilità dei debiti di chi riceve il prestito e parimenti negativo l’avere definito regole chiare per la restituzione dello stesso. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che se il meccanismo di stabilità non fosse affidato a regole chiare e certe quanto all’accesso ai fondi e alla loro restituzione staremo ora a discutere – ecco, vedetela diversamente dal lato opposto – dell’avventatezza di avere consentito che il risparmio dei nostri concittadini possa essere impiegato a favore di Paesi che non appaiono in grado di restituire i prestiti.”

In sostanza è il medesimo argomento che la Germania utilizza nei confronti dell’Italia! “Io ti presto i soldi, ma tu mi devi garantire di essere in grado di restituirli”.
La visione economica che sta dietro a questo approccio è quella che il denaro sia una merce, non una convenzione sociale.
Al contrario, il prestatore di ultima istanza, quello vero, non necessariamente deve ricevere indietro il denaro prestato. Quando la FED presta i soldi al governo USA, non pone condizioni. Non perché la FED sia scellerata, ma semplicemente perché all’interno di una diversa visione economia, il problema non si pone. E’ evidente che l’equilibrio economico di una nazione sia sempre e comunque un presupposto necessario, ma all’interno di una diversa visione economica, chiamiamola – sempre semplificando –  neokeynesiana, non è un problema che si deve porre il prestatore di ultima istanza, ma se lo deve porre il Governo.

La questione di fondo del MES è quella di aver dato per scontato, senza neppure prendere in considerazione le alternative, che la BCE non faccia da prestatore di ultima istanza, come le altre banche centrali. Avendo escluso questo, è ovvio che qualsiasi altra istituzione che non abbia il potere di stampare moneta, dovrà sempre e solo utilizzare dei soldi che vengono da altre parti e quindi dovrà assicurare un equilibrio fra coloro che mettono i soldi e coloro che li prendono.

Secondo una diversa concezione economica, il MES è sbagliato proprio concettualmente, di fondo. Non si tratta di dettagli, è proprio una visione macroeconomica di fondo che non funziona.

E’ questa l’Europa che vogliamo?
In sintesi, abbiamo visto che la questione della riforma del MES si sta realizzando né più né meno con le stesse modalità dirigiste che sono state seguite per gli altri pezzi della costruzione istituzionale europea.
Questo approccio ha reso impossibile un vero ed ampio dibattito pubblico che proponesse approcci radicalmente diversi.
E’ veramente questa l’Europa che vogliamo costruire? Un’Europa che si fonda su una precisa visione economica che costituisce a fondamento di tutte le sue scelte e che non è mai stata seriamente messa in discussione all’interno di un dibattito pubblico?
L’Europa, come istituzione, sta attraversando una grande crisi politica e di consenso non solo perché è evidentemente una progetto politico-istituzionale incompleto, ma anche perché è stato costruito senza un vero coinvolgimento di una fetta sufficientemente ampia dei cittadini.
Continuare in questo modo non può che peggiorare la situazione.

Alessandro Pedone, responsabile Aduc per la Tutela del Risparmio