Marcello D’Agata, la speranza torni in carcere. Affinché altri non commettano i miei stessi errori (seconda puntata)

Il numero dei suicidi è solo uno degli indicatori sulle condizioni carcerarie in Italia, tra sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile.

Il carcere deve avere funzione rieducativa, deterrente e perché no, punitiva. Non dimentichiamo però che i detenuti sono persone. Un sistema carcerario sovraffollato non può essere rieducativo. E’ necessaria allora una riforma del sistema giudiziario e carcerario. Chi è ristretto in carcere è una persona da rieducare, non oggetti: un uomo può sbagliare e pagare con dignità. Ecco perché noi di IMG Press, stiamo dando spazio a un progetto di miglioramento della vita in cella scritto da Marcello D’Agata,  per circa dieci anni è stato al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano.

“Lo Stato ha l’obbligo di garantire la sicurezza e la libertà di ogni cittadino e per la realizzazione di questo principio e impegno assoluto, deve dare il massimo delle proprie risorse umane e finanziarie, ma se per un verso lo Stato ha questo obbligo, per altro verso ha tutto il diritto di considerare i delitti in danno della collettività anche contro se stesso. La riparazione del danno non dovrà influire sul trattamento del condannato altrimenti sarebbe discriminante per chi non possiede niente, che comunque, ultimata la pena, sarà obbligato alla riparazione del danno con dei lavori socialmente utili”. 

La rieducazione del detenuto deve passare attraverso comportamenti e fatti concreti facilmente riscontrabili e non dalla sola condotta personale che può essere ingannevole. Il condannato con il lavoro sarà comunque messo in condizione di riparare il danno recato.

D’Agata nel suo scritto non fa sconti a nessuno: “Appare inconfutabile l’esistenza di un fenomeno sociale chiamato microcriminalità e le conseguenze sono preoccupanti e dannose per l’intera collettività…il nostro Paese, oggi più di ieri, è costretto a subire l’assalto della criminalità comune perché non è in grado di assicurare la certezza della pena a tutti i condannati di tali delitti, poiché il numero degli Istituti penitenziari è molto inferiore alle necessità reali. Anche la costruzione di nuove strutture sarebbe solo una soluzione temporanea, giacché la stessa necessità si ripresenterebbe nello spazio di poco tempo. La stampa stessa a conoscenza del grave sovraffollamento, più volte ha scritto di “carceri lager”, inaccettabili e indegne di un Paese civile, in quanto violano precise norme di legge. Infatti, non solo il trattamento rieducativo è di fatto impossibile, ma si sopprimono gli stessi diritti fondamentali della persona: primo fra tutti quello della salute. A mio parere non sarà mai nel numero delle carceri la soluzione del problema. Lo Stato con l’attuale sistema non potrà mai far scontare per intero la pena ai condannati per fatti di microcriminalità, ovvero di delinquenza comune, perché di fatto il sovraffollamento non glielo consente: basti pensare che un giornale ha scritto che nel nostro Paese ci sono circa 10 mila soggetti in detenzione domiciliare, senza contare quelli nelle comunità o degli affidati in prova, ma la gravità di questa situazione così complessa, sta soprattutto nell’insegnamento di impunità che lo Stato incolpevolmente dà a questi detenuti. La facilità con cui questi soggetti possono accedere alla libertà immediata, dopo una breve detenzione, o addirittura senza aver scontato un solo giorno di carcere, lascia nella loro mente la convinzione che delinquere comunque resta un fatto convenientissimo perché si guadagna molto e non si “paga” il prezzo dell’azione delittuosa e tutto questo poi li porterà al grande passo: entrare nel mondo della grande criminalità o di continuare a delinquere sempre con maggiore aggressività”. 

Come affrontare il problema? La misura penale deve essere affiancata da misure rieducative e riassociative che includano l’aumento dell’inclusione sociale. Occorre un cambio di prospettiva culturale che permetta di investire più risorse verso percorsi formativi che incentivino misure di vario tipo su percorsi con esecuzione penale esterna. Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di scontare una doppia pena: quella data dalla sua condanna legale e quella, una volta libero, del rifiuto sociale. Quest’ultimo è terreno fertile per i tanti casi di recidività.

Papa Francesco ha detto: “Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. L’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni”.

Insomma: la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il “respiro” della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno…

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