LA MISSIONE DOPO LA FINE DELLA CRISTIANITA’

Non c’è nessuno dubbio che la Cristianità è finita, ma nello stesso tempo questo non significa che i cristiani non sono chiamati alla missione. L’importante questione è stata affrontata da Marco Invernizzi, reggente nazionale di Alleanza Cattolica, nonché conduttore di programmi a Radio Maria, nell’ultimo numero della rivista Cristianità (Gennaio-Febbraio 2022, n. 413).

“E’ tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio». Sono parole che ha pronunciato Papa Pio XII soltanto sette anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), quando, cominciata la ripresa economica, gli italiani erano usciti almeno psicologicamente dalla tragedia del conflitto, di quello civile in particolare. Il venerabile Pio XII ha combattute diverse battaglie a cominciare quella dell’elezione del 18 aprile 1948, quando i Comitati Civici di Luigi Gedda hanno sconfitto la coalizione del Fronte Popolare delle sinistre dando la vittoria alla Dc e poi nel 1952, quando cercò di favorire la nascita di una lista elettorale anticomunista a Roma — guidata dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959) — senza simboli di partito ma aperta a tutte le forze politiche. Si trattava della cosiddetta «operazione Sturzo», che peraltro fallì per volontà della Democrazia Cristiana (DC) e dei suoi alleati.

Pertanto, le parole di Pio XII, nonostante la vittoria del 18 aprile rilevano che forse la società degli anni Cinquanta, non era così «sana» così «bigotta» come viene spregiativamente definita. Certamente la Chiesa, nel dopoguerra, attraverso i suoi parroci in particolare, aveva la fiducia della stragrande maggioranza del popolo italiano dando loro conforto e aiuto anche materiale, favorendo la riappacificazione degli animi dopo la guerra civile e contribuendo alla ripresa del Paese. “Però, accanto al «miracolo economico» e al boom demografico vi era qualcosa che spingeva in un’altra direzione: non si trattava soltanto del comunismo e dei tanti voti che il PCI raccoglieva soprattutto in alcune regioni, ma di un male che penetrava nel tessuto sociale, a cui i vescovi, non molti anni dopo, nel 1960, dedicarono una lettera pastorale intitolata Il laicismo”. Si trattava della penetrazione nel corpo sociale di una forma di materialismo pratico che assumerà il nome di «consumismo». Non era una vera e propria ideologia, per certi aspetti, può avere anche degli aspetti positivi, in quanto attraverso l’incremento dei consumi può favorire il miglioramento delle condizioni materiali della vita dei popoli, soprattutto delle categorie più disagiate, consentendo l’allargarsi della classe media. Tuttavia, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la società cresceva dal punto di vista delle condizioni materiali con il cosiddetto boom economico, venivano erose le radici cristiane nel comportamento pubblico e si realizzava quel processo di allontanamento della maggioranza della popolazione non solo dalla pratica religiosa, ma soprattutto dalle finalità della vita, che diventavano sempre più «terrene», cioè legate al «consumo». Si insegue la felicità riposta nel perseguimento di un bene mondano: il successo, il denaro, il sesso, il potere economico o politico. Su questo cambiamento esistenziale si innesterà, con motivazioni anche ideologiche, la rivoluzione antropologica del 1968. Inoltre, c’era la questione democristiana, o meglio il potere democristiano. “Era un problema tutto italiano, – scrive Invernizzi – che non aveva uguali in Europa, se non forse in Germania. La DC aveva un potere rilevante, che sarebbe durato fino agli anni Novanta, ma non aveva il potere, e neppure il «volere», probabilmente, di impedire che l’«ombra» di quel «male» penetrasse nelle viscere del Paese ed esplodesse, come avverrà dopo il 1968”.

Intanto il Magistero della Chiesa indicava la strada della missione non solo ad gentes ma ad intra, e addirittura aveva convocato il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) per lanciare la prospettiva missionaria, ma tanti, soprattutto in Italia, ancora oggi stentano a comprendere. IL Concilio da alcuni è stato visto come un cambiamento rivoluzionario e pertanto hanno utilizzato la Chiesa, trasformandola nell’«ancella» di una Rivoluzione che nella sostanza mirava a espellere il cristianesimo dalla vita pubblica sfruttando il rancore diffuso, soprattutto a livello giovanile, contro il potere democristiano. Di questa rivoluzione se ne accorse san Paolo VI (1963-1978) nel 1968 dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, “che non riuscì a farla accettare a molti vescovi e a pezzi interi del mondo cattolico, mentre la prospettiva di non limitarsi a dire no alla contraccezione, ma di ritornare al principio fondativo dell’amore umano che sta alla base dell’atto coniugale, stentò a prevalere e dovette aspettare la «teologia del corpo» di san Giovanni Paolo II per essere diffusa, peraltro limitatamente” . In quella battaglia entrò anche don Joseph Ratzinger. Si ingaggiarono battaglie che andavano combattute perché vi è sempre un meno peggio da conservare, ma faticò a penetrare la mentalità racchiusa esemplarmente in una frase dell’allora cardinale Ratzinger: «Il Concilio voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”.

A questo punto Invernizzi ritiene opportuno definire preliminarmente il termine «missione». Qui Invernizzi propone una egregia sintesi della Storia della Chiesa. La Chiesa è stata missionaria fin dagli esordi, memore dell’invito di Gesù a evangelizzare tutti i popoli e anche semplicemente osservando la sua testimonianza durante i tre anni della vita pubblica. E’ notorio che nei primi tre secoli la missione passa soprattutto attraverso la testimonianza dei martiri, tuttavia il cristianesimo si diffonde da uomo a uomo, da famiglia a famiglia, fino a contagiare in modo significativo tutta la società. Gli Atti degli Apostoli sono il primo testo missionario, nonché il primo documento sulla storia della Chiesa. Dopo l’Editto di Milano dell’imperatore Costantino (274-337) nel 313, che permette alla Chiesa di operare pubblicamente e liberamente all’interno dei confini dell’Impero Romano, la missione assume modalità diverse. Per approfondire l’argomento, ho appena recensito il volume del giornalista francese De Jaeghere, “Gli ultimi giorni dell’Impero Romano” (Leg edizioni) Vi sono in questo periodo figure importanti che accompagnano il passaggio da un’epoca a un’altra. Sono quei cristiani a cavallo dei due mondi, testimoni come Stilicone (359 circa-408), Boezio (475/7-524/5)10 e Cassiodoro (485/90- 580)11, che attraversano i due mondi. Intanto, la Chiesa lentamente si organizza con una struttura visibile e sarà soprattutto il monachesimo a favorire le conversioni e a svolgere la missione evangelizzatrice. San Benedetto da Norcia (480-547) e san Colombano di Bobbio (540-615) sono le figure più rappresentative di questo spirito missionario che lentamente permette al cristianesimo di penetrare nel corpo sociale, grazie anche alla contemporanea e decisiva «missione» delle famiglie, che favorisce l’inculturazione della fede.

Invernizzi continua nella descrizione della giovane Chiesa, che ormai si diffonde sull’intero territorio dell’impero, porta il Vangelo agli uomini del tempo, generazione dopo generazione, con un apostolato costante: santi e uomini comuni, preti, vescovi e laici, papi e imperatori, madri di molti bambini che ripopolano i territori dopo le invasioni barbariche, soprattutto i tanti monaci che ricoprono di monasteri l’Europa. Si passa dall’incoronazione a imperatore del re dei franchi, Carlo Magno (742-814), da parte di Papa Leone III (795-816), con la creazione di una civiltà cristiana, non della Gerusalemme celeste, ci tiene a precisare Invernizzi. In questa società, non mancano delitti e corruzione, tradimenti e confusione, ma il senso comune conosce la differenza fra bene e male, fra vero e falso, anche se spesso le conseguenze di questo cambiamento non sono così evidenti come sarebbe lecito aspettarsi. “Costituita una cristianità, per secoli l’imperativo diventa difenderla dai nemici esterni e interni, le eresie prima e le rivoluzioni poi, a cominciare dalla Riforma protestante. La missione è invece ad gentes, rivolta ai popoli lontani — che non conoscono il Vangelo, ma possono essere raggiunti, soprattutto dopo la scoperta dell’America e i viaggi di Cristoforo Colombo (1451-1506) —, con i quali si apre una stagione missionaria nuova e straordinaria, che forse ha il proprio modello nella figura immensa di san Francesco Saverio (1506-1552)”. La Chiesa si diffonde con un nuovo impulso missionario, verso l’Africa e l’Asia, i continenti che ancora non conoscono il Vangelo. È una stagione complessa, perché la missione si svolge durante l’epoca coloniale, e se la fede nasce in molti uomini e si diffonde fra i popoli dei due continenti — molto in Africa, molto meno in Asia —, da diversi popoli viene percepita come espressione dei regimi colonialisti d’Europa, che nel frattempo stanno abbandonando la fede e cominciano a perseguitarla: un caso eclatante è la soppressione della Compagnia di Gesù nella seconda metà del secolo XVIII in tutta l’Europa, che spinge la stessa Santa Sede allo scioglimento della Compagnia, forse l’evento più drammatico del Settecento insieme al 1789.

Intanto siamo giunti alla Lettera apostolica, Maximum illud, di Benedetto XV, promulgata dopo la Prima Guerra Mondiale (1914- 1918), con la conseguente fine degli imperi, russo, tedesco, austriaco e ottomano, contemporaneamente alla decolonizzazione comincia una nuova stagione missionaria per la Chiesa cattolica. La Lettera viene pubblicata in un clima culturale e morale di grande sfacelo. La guerra ha provocato grandi rivolgimenti nel modo di vivere delle popolazioni contadine e infranto il «sogno» della Belle Époque, per il quale, secondo le classi alte delle grandi città europee, in primis Parigi, il Novecento sarebbe stato un secolo di pace e di progresso materiale continuo e inarrestabile. Fra le principali conseguenze della guerra vi sono l’abbattimento degli imperi e la nascita di nuovi Stati nazionali. Ma il nazionalismo dall’Europa si estende ai Paesi colonizzati, che iniziano a ribellarsi per ottenere l’indipendenza. Sia la Chiesa cattolica, come le altre chiese cristiane, aveva beneficiato della possibilità di operare nei Paesi coloniali, sia evangelizzando ed educando, sia contribuendo allo sviluppo sociale, ma aveva anche dovuto subire un’identificazione con essi che non corrispondeva alla realtà. Intanto nei Paesi europei era in corso una rivoluzione anticristiana, soprattutto a livello culturale, e i governi «usavano» la religione nella misura in cui serviva loro per controllare le masse, ma ciò non impediva ai movimenti di liberazione dei popoli colonizzati di confondere e sovrapporre le due realtà.

Per questo la Maximum illud, dopo avere ricordato l’importanza della missione e la sua imprescindibilità per il cristianesimo, insiste sull’importanza che il missionario “non venisse confuso con chi curava gli interessi della propria patria invece che quelli del Vangelo, e per questo chiede ai missionari: «[…] ricordatevi che voi non dovete propagare il regno degli uomini ma quello di Cristo, e non aggiungere cittadini alla patria terrena, ma a quella celeste». Invernizzi chiarisce la questione: “La preoccupazione del Papa è che i popoli che hanno da poco accolto la fede, o ancora non la professano, non confondano la Chiesa con l’Europa o l’Occidente e comprendano la possibilità che sorga una Chiesa certamente legata a Roma ma con un proprio clero indigeno”. Infatti, per Benedetto XV il rischio è che la popolazione locale sia «[…] indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità». La questione era talmente grave che il Papa fu costretto a rimproverare certe riviste missionarie. Anche perché le forze rivoluzionarie alla guida dei movimenti di liberazione nazionale, cercavano di trasformare le richieste di indipendenza in rivoluzioni ideologiche. Benedetto XV colse il dramma che si stava preparando in Medio Oriente, in Africa, in Asia e la necessità che lo scopo della missione, cioè l’evangelizzazione e la salvezza delle anime, venisse preservato da ogni sovrapposizione con altro. Per ottenere questo scopo era essenziale preparare un clero indigeno che potesse nel più breve tempo possibile guidare direttamente il popolo cristiano. Un clero ben preparato, non formato in modo approssimativo, perché «dove […] esisterà una quantità sufficiente di clero indigeno ben istruito e degno della sua santa vocazione, ivi la Chiesa potrà dirsi bene fondata, e l’opera del Missionario compiuta. E se mai si levasse il nembo della persecuzione per abbattere quella Chiesa, non vi sarebbe da temere che, con quella base e con quelle radici così salde, essa non soccomberebbe agli assalti nemici». La Maximum illud rappresenta il primo documento missionario dopo la fine delle cristianità, che in qualche modo erano ancora rappresentate da alcuni degli imperi soppressi dopo la Prima Guerra Mondiale, e prende atto della fine dell’epoca coloniale e dell’inizio di una nuova stagione, nella quale la Chiesa dovrà operare in terra di missione in una condizione completamente diversa da quella precedente. Per Invernizzi, la Chiesa, “dovrà mostrare di essere altra cosa rispetto all’Occidente di allora, liberale e scristianizzato, senza rinnegare le radici cristiane che hanno creato la civiltà occidentale, di cui la Chiesa è stata l’anima”. Certamente è un’opera molto difficile, resa ancora più ardua dall’esistenza di un conflitto interno alla Chiesa stessa, in particolare sulla missionarietà, fra chi sostiene che la Chiesa dovrebbe liberarsi delle radici che hanno «fatto» la civiltà occidentale, giungendo a negare la validità della stessa missione — Riforma protestante, teologia liberale, de-ellenizzazione —, e chi invece crede che la Chiesa sia essenzialmente missionaria, come sostengono le Scritture e lo stesso Magistero. Quest’ultimo ribadisce in più di un’occasione l’importanza e la necessità della missione. La prima enciclica successiva è la Rerum Ecclesiae di Pio XI (1922-1939) nel 1926, cui seguono la Evangelii praecones di Pio XII nel 1951, la Princeps pastorum di san Giovanni XXIII (1958-1963) nel 1959, il documento del Concilio Vaticano II Ad gentes nel 1965, l’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi di san Paolo VI nel 1975, l’enciclica Redemptoris missio di san Giovanni Paolo II nel 1990 e infine l’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco, nel 2013.

Essere missionari non significa disprezzare le altre religioni, che possono avvicinare alla pienezza della verità, cioè a Cristo: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari».

Invernizzi continua nel suo approfondimento storico riguardo la vita della Chiesa in particolare al XIX secolo fino alla Prima Guerra Mondiale. La Chiesa ha resistito al processo di scristianizzazione promosso dai governi liberali che avevano conquistato il potere nei diversi Paesi europei dopo la Rivoluzione francese. Per quanto riguarda l’Italia, la Chiesa ha resistito, opponendo il «paese reale» a quello «legale» e originando una serie di istituzioni sociali che avrebbero dato vita a un tessuto impregnato di opere cattoliche, come banche, casse rurali, società operaie e di mutuo soccorso e tante altre. Questo avvenne grazie all’opera dei cattolici militanti del cosiddetto intransigentismo che non accettavano i fatti del 1870, cioè la soppressione violenta del potere temporale del Papa con l’ingresso manu militari dell’esercito italiano a Roma tramite la celebre Breccia di Porta Pia. Venne poi l’epoca delle ideologie e della «nazionalizzazione delle masse», che portarono alla scristianizzazione sempre maggiore anche dei ceti popolari attraverso la diffusione di un costume certamente anticristiano. Ancora una volta la Chiesa si oppose alle ideologie e ai sistemi totalitari che ne derivarono, per esempio con le tre encicliche rispettivamente dedicate al fascismo, al nazionalsocialismo e al comunismo, alle quali si potrebbe aggiungere quella a proposito della Chiesa perseguitata in Messico dai governi massonici.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel clima della Guerra Fredda che contrapponeva il mondo comunista a quello occidentale su scala internazionale, la Chiesa privilegiò l’opposizione al comunismo cercando contemporaneamente di arginare l’aumento del processo di scristianizzazione all’interno del mondo occidentale. Giunge così al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), che segna per diversi aspetti un nuovo atteggiamento pastorale della Chiesa di fronte a un mondo in grande trasformazione. Don Ratzinger era uno dei più consapevoli di questa tendenza, tanto da scrivere nel 1959 che i cristiani praticanti erano per lo più come dei pagani e che era quindi fuorviante illudersi circa l’esistenza di un’Europa cristiana. Ma vi era tutto un mondo interno alla Chiesa che auspicava una nuova stagione missionaria, consapevole che la cristianità era finita e che bisognasse riprendere uno slancio missionario all’interno dei popoli di antica tradizione cristiana, ormai sempre più lontani dalla fede. Anche il futuro Paolo VI, da arcivescovo di Milano, aveva lo stesso atteggiamento di Ratzinger.

Con la crisi del comunismo e la caduta del Muro di Berlino nel 1989 inizia una nuova stagione, cosiddetta post-moderna, caratterizzata dal declino delle ideologie e dall’emergere, in Occidente, di una nuova epoca segnata dalla «dittatura del relativismo», per usare le parole con le quali il futuro Benedetto XVI ha voluto esprimere il tentativo in corso in Occidente di imporre un senso comune che escludesse la ricerca della verità come un compito fondamentale dell’uomo in quanto creatura voluta a immagine e somiglianza del Creatore: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde — gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

In questo contesto, la Chiesa assume decisamente un ruolo missionario, volto a proporre nei Paesi di antica tradizione cristiana una “nuova evangelizzazione”. Interessanti le parole del card. Ratzinger, prima di essere eletto papa: «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo […] Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri”. Sono le stesse comunità cristiane a dover «auto-evangelizzarsi», cioè a prendere o riprendere quel fervore missionario, ad intra e ad extra, che sembra essersi perduto per strada nel clima di autodemolizione successivo a una lettura dialettica del Concilio contraria al Magistero, come denunciato esplicitamente da Benedetto XVI e anche dai suoi predecessori. Modello di questa scelta missionaria è stato san Giovanni Paolo II, anzitutto con il suo esempio di infaticabile visitatore di tutti i popoli della Terra, ma poi anche con l’enciclica Redemptoris missio per rilanciare il compito missionario ad gentes della Chiesa e con i tanti discorsi dedicati alla nuova evangelizzazione.

Tuttavia, in questa “nuova primavera” del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo Documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del Concilio e del Magistero successivo. I membri di Alleanza Cattolica,  “non partono per le Indie, come i gesuiti del Seicento, ma sono chiamati a servire la Chiesa promuovendo la nuova evangelizzazione, così come ha voluto san Giovanni Paolo II, per costruire una civiltà «a misura di uomo e secondo il piano di Dio». Il Papa polacco è stato chiaro: «Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli».

Nel prossimo intervento vedremo il programma del pontificato di papa Francesco.

DOMENICO BONVEGNA

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