IL LIBRO DA LEGGERE: LA LOTTA ALLA MAFIA, NEL NOME DEL COLONNELLO GIUSEPPE RUSSO

Devo dire grazie a Giuseppe Scibilia per oltre quarant’anni investigatore antimafia, nell’Arma dei Carabinieri per aver raccontato, con dovizia di particolari, in un libro la storia del colonnello Giuseppe Russo, che offre una serie di spunti si riflessione sulla lotta alla mafia.

La storia del colonnello Russo, comandante del Nucleo investigativo Carabinieri di Palermo, si intreccia per buona parte con quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, al tempo comandante della Legione. La storia di Russo – nato a Cosenza il 6 gennaio del 1928 – sarà posta fine la sera del 20 agosto 1977, da gruppo di fuoco mafioso composto da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Vincenzo Puccio e Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda”.

Gli assassini arrivarono a bordo di una Fiat 128 nella piazza principale di Ficuzza (frazione di Corleone) e, armati di pistole calibro 38, spararono contro il colonnello Russo, il quale, essendo in vacanza, stava passeggiando assieme all’insegnante Filippo Costa (che lo stava aiutando nella stesura di un libro di memorie, anch’egli colpito e rimasto ucciso).
Scibilia nel suo racconto “Il colonnello Russo – storie di uomini, ominicchi e quaquaraquà – Calibano editore” porta a conoscenza del lettore gli elementi che compongono la verità su quanto di importante ha contribuito a svelare il colonnello Russo nella sua vita da carabiniere impegnato nel combattere il crimine e la violenza mafiosa. Scibilia non svela nelle pagine del suo libro solo i clamorosi dellitti di sangue e i sequestri di persona che segnarono la vita dei palermitani di quel tempo, ma anche l’ascesa criminale di Totò Riina e il conseguente crollo della vecchia mafia. Insomma, la storia del colonnello Russo è moltodi più di un romanzo criminale. Il “testimone” Scibilia ci svela come cambia un territorio finito sotto il controllo della criminalità organizzata, mentre la politica che governa il Paese fa fatica a far sentire la sua presenza, a ricostruire la fiducia nelle persone. Gli unici combattenti sono gli uomini in divisa che ciononostante stanno in trincea a tenere alto il vessillo dello Stato, perché la sicurezza e la tutela delle persone vanno garantite, perché si possa vivere dignitosamente con lavori legali al fine di essere indipendenti e avere servizi e una vita serena. Un progetto ambizioso e pericoloso perché al tempo come ci ricordano le cronache giornalistiche
“La mafia era l’unico, grande imprenditore di questa Sicilia. Su la Repubblica Antonio Calabrò farà i conti in tasca alla criminalità organizzata. Giuseppe Di Lello, anni e anni spesi a lavorare con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Ayala nel pool antimafia palermitano, così descriveva la situazione nelle settimane successivi alla strage di Capaci: “Sono gli interessi reali, quelli che premono e reagiscono, quando si sentono minacciati. E Falcone lo faceva ancora. Non era tanto la Superprocura in quanto tale, a dare fastidio ai clan. Ma l’attività costante di un magistrato che indagava sui punti di contatto tra la finanza in Italia e all’estero, la politica e le clientele che sparano, le cosche mafiose”. La morte di Falcone, il dolore e lo sdegno fanno spazio ai più lucidi tentativi di capire il contesto dei poteri economici e politici, a cavallo tra legalità e illegalità, che sono stati messi in crisi dal suo lavoro. La mafia imprenditrice, dunque. Quanto valeva, quanto fatturava? Difficile fare dei conti esatti.

Ma si possono fare delle stime, sapendo comunque che sono sempre approssimate per difetto, mai per eccesso. Il giornalista Calabrò lo spiega: “Nell’ ’85 il Censis aveva calcolato in 100 mila miliardi il giro d’affari complessivo per tutta la criminalità, dai piccoli reati ai proventi del traffico degli stupefacenti: un dato che nel 1990 è stimato in quasi 200 mila miliardi, tenendo conto del naturale incremento degli affari e dell’inflazione. E sono tanti, quei 200 mila miliardi: poco meno di un quinto dell’intero prodotto interno lordo italiano del tempo, oltre tre volte di più del fatturato del gruppo Fiat (58 mila miliardi nel ’91). Utili altissimi. Il calcolo cambia se si guarda soltanto alla criminalità organizzata, agli affari dei clan come “aziende del crimine”.

La fonte è ancora una volta una ricerca del Censis, condotta tra il ’90 e il ’91 su “criminalità, istituzioni, società”. Il fatturato della cosiddetta “crime company” è stimato in 15.689 miliardi di vecchie lire. E tra le voci più grosse c’è il traffico di stupefacenti, con i suoi 4 mila miliardi soltanto per l’Italia. Più di 2 mila miliardi che sono il frutto del racket delle estorsioni. E poi ecco i furti, soprattutto quelli in grande stile (il traffico dei Tir, tanto per fare un esempio), le truffe e le frodi (alcuni processi hanno accertato i raggiri condotti da famiglie mafiose, come quella dei Greco, ai danni della Unione europea), il gioco clandestino, il contrabbando e il traffico di armi. Ma attenzione: quei 15.689 miliardi sono soltanto in parte il vero fatturato della “crime company”. Perché dal calcolo il Censis esclude innanzitutto i proventi del traffico internazionale della droga, di cui mafia, camorra e ‘ndrangheta sono protagoniste di primissimo piano. E soprattutto perché dal calcolo totale, per impossibilità di valutazione, mancano i ricavati del riciclaggio. E non è affatto un’assenza da poco. Quei capitali garantiscono ampissimi margini di utili su fatturati enormi.

Quanti soldi… d’altronde chi conosce la storia della violenza mafiosa di quegli anni sa che gli omicidi sono sempre scattati quando ci si è avvicinati a quelli che il giudice Di Lello chiama “gli interessi reali”, le migliaia di miliardi della mafia. Nel 1977, a esempio, i killer del clan dei corleonesi uccideranno, per l’appunto – il 20 agosto a Ficuzza, una frazione di Corleone, il colonnello Giuseppe Russo, che indagava un po’ troppo su certi appalti per le dighe in Sicilia. O nel luglio del 1979, quando muore Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, sulle piste degli affari del clan dei Gambino e degli Inzerillo e di don Michele Sindona, del traffico di droga e del riciclaggio dei miliardi tra Italia e Usa. La stessa pista su cui lavorava il procuratore della Repubblica Gaetano Costa, quando venne assassinato nell’agosto del 1980. Costa fu il primo magistrato ad andare a chiedere alle banche siciliane i conti delle famiglie e dei finanzieri amici. Anni durissimi, quelli.

Di mafia che traffica, accumula ricchezze, corrompe e spara. Contro il presidente della Regione Piersanti Mattarella, che aveva aperto indagini amministrative sugli strani appalti di Palermo. E contro il segretario siciliano del Pci Pio La Torre, che difendeva in Parlamento la sua legge che avrebbe consentito gli accertamenti patrimoniali e la confisca dei beni accumulati illegalmente dai boss. Contro il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui inchieste minacciavano i grandi appaltatori tra Palermo e Catania e i clan degli esattori delle tasse, e contro il consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva formato il pool anti-mafia e stimolato il lavoro di Giovanni Falcone. Non svelo altro perché il libro di Scibilia va assolutamente gustato pagina dopo pagina per scoprire le sfumature di un uomo, Russo, di un gruppo valoroso di soldati, i carabinieri, per la verità e soprattutto per realizzare un grande sogno: sconfiggere la mafia, il male assoluto. E allora sarà tremendo il giudizio finale. Perché il male è il contrario del bene: non paga, invece lo si paga. La fiducia nello Stato la ricostruisci se offri riscatto attraverso la cultura, l’istruzione e il lavoro. Solo così i territorio possono rifiorire e il sacrificio di uomini come il colonnello Russo sarà ricordato per sempre.