I nuovi sceicchi dello Stretto: a quale prezzo si vuole costruire il futuro?

Andrea Filloramo 

Ricostruisco quella che è stata la storia recente della città di Messina, simbolo di rinascita, i cui cittadini hanno saputo sempre trasformare la tragedia in memoria e la memoria in forza identitaria. Pertanto, per loro, l’eventuale “bocciatura” definitiva, da parte della Corte dei Conti, del progetto “Ponte sullo Stretto” – da molti di loro considerato soltanto una smania politica” – non farà venire meno, anzi aumenterà, il loro impegno a cercare per la Città solo quello di cui essa ha veramente bisogno. 

La storia da raccontare, anche se in modo sintetico, ha inizio la mattina del 28 dicembre 1908, alle 5:21, quando un boato, squarciò il silenzio dello Stretto di Messina. In meno di mezzo minuto, la città venne rasa al suolo da un terremoto di magnitudo 7.1, proveniente dall’interno della litosfera, da una faglia, seguito da un maremoto che travolse le coste della Sicilia e della Calabria. Il disastro cancellò quasi completamente la città: oltre 80.000 morti, intere famiglie annientate, un patrimonio artistico e architettonico perduto per sempre. 

Da quel momento, essere messinesi non fu più soltanto appartenere a una città, ma portare nel cuore una ferita collettiva e la volontà di rinascere dalle macerie. Quel terremoto non fu, quindi, soltanto un evento naturale, ma una cesura nella storia e nella memoria. 

I sopravvissuti si trovarono davanti a un paesaggio spettrale: una città scomparsa, una comunità disgregata, la perdita della propria casa e del proprio passato. 

Da quella tragedia nacque un nuovo spirito: un’identità fondata sulla resilienza, sulla forza di chi, pur colpito duramente, decise di restare e ricominciare. L’essere messinesi divenne così un atto di coraggio: ricordare la distruzione, ma anche testimoniare la capacità di ricostruire, di non arrendersi mai alla fatalità.  

Dopo il disastro del 1908, il mondo intero si mobilitò: Messina divenne simbolo di solidarietà internazionale, ma anche di dimenticanza nazionale negli anni successivi, quando la ricostruzione fu lenta e faticosa. 

Con la ricostruzione avviata nel 1911, Messina cambiò volto.
Il nuovo piano regolatore, voluto dal governo e ispirato a criteri antisismici, creò una città moderna, con strade più larghe e edifici più sicuri, ma anche più impersonali. Il volto antico, con la sua  “palizzata”, costituita da 37 isolati e 36 porte di cui 23 principali e 13 secondarie, su una cortina continua di imponenti edifici di fronte al porto scanditi da un monumentale colonnato di ordine ionico, le sue chiese barocche, i palazzi nobiliari e le stradine medievali, sparì per sempre.  

Eppure, da quella “tabula rasa” nacque una città nuova e fiera, simbolo di rinascita. I messinesi seppero trasformare la tragedia in memoria, e la memoria in forza identitaria: sentirsi cittadini di una città “rinata”. Da questa esperienza nacque una doppia eredità psicologica: orgoglio e diffidenza, speranza e disillusione. I messinesi impararono a contare su se stessi, sviluppando un forte senso di appartenenza e di autonomia morale. Una città ricostruita, un’identità ricreata. 

Appena trentacinque anni dopo la rinascita, Messina tornò a vivere l’incubo della distruzione.  Durante la Seconda guerra mondiale, tra il 1943 e il 1944, la città, infatti, fu pesantemente bombardata dagli Alleati per la sua importanza strategica come porto e snodo militare. Gli attacchi aerei rasero al suolo interi quartieri, colpirono la Cattedrale, la Stazione, il porto e le vie centrali, causando migliaia di vittime civili e costringendo gran parte della popolazione a fuggire sui monti o nelle campagne circostanti. 

Per la seconda volta in pochi decenni, Messina, quindi, conobbe la distruzione totale. Le rovine della guerra si sommarono a quelle antiche del terremoto, eppure la città trovò ancora la forza di rialzarsi. 

Nel dopoguerra, la ricostruzione fu nuovamente segno di orgoglio e dignità, consolidando quell’immagine di città “martire e rinata” che ancora oggi caratterizza la sua identità. 

Messina è una città che conosce il peso delle grandi trasformazioni cambiando più volte il suo volto, sempre tra speranza e sacrificio.  

Oggi, di fronte all’eventualità ventilata dal governo della realizzazione del Ponte sullo Stretto e se ciò dovesse accadere, si potrebbe profilare una nuova prova: dieci anni di lavori con cantieri che coinvolgerebbero l’intera dorsale urbana che oggi regge la mobilità cittadina.  

Chiudiamo gli occhi e immaginiamo quello che potrebbe succedere: durante questo tempo, camion, betoniere e mezzi pesanti attraverserebbero quotidianamente le vie principali; alcune strade costiere verrebbero chiuse o deviate; l’accesso al porto, già congestionato, diventerebbe un punto critico permanente. In una città lunga e stretta come Messina, dove ogni deviazione genera caos, il rischio sarebbe quello che la vita quotidiana verrebbe totalmente stravolta: i tempi di percorrenza triplicati, i trasporti pubblici molto rallentati, l’aria sarebbe satura di polveri e rumore costante. Le attività commerciali nei quartieri interessati rischierebbero la chiusura; il turismo potrebbe subire un crollo; la qualità della vita dei residenti diminuire drasticamente. E intanto, milioni di metri cubi di terra sarebbero movimentati, con conseguenze ancora poco chiare su ambiente, falde e coste. 

Ci sarebbe anche un altro rischio, meno visibile ma altrettanto grave: la paralisi amministrativa. Tutte le risorse e le energie politiche di Comune e Regione verrebbero, infatti, concentrate su quest’unica opera, mentre resterebbero in sospeso problemi urgenti — dal risanamento dei quartieri degradati alla sicurezza sismica, dal potenziamento del trasporto pubblico alle periferie dimenticate. 

Messina rischierebbe, così, di diventare una città sospesa, in attesa di un futuro che potrebbe arrivare troppo tardi e i messinesi si troverebbero ancora una volta – speriamo che non accada – davanti a un bivio. Da un lato la promessa di sviluppo, lavoro e connessione con l’Europa; dall’altro, la certezza di vedere la propria città   trasformata, per un decennio, in un immenso cantiere, dove la quotidianità si piegherebbe alle ruspe e alla burocrazia.  

Chi difende l’idea a tutti i costi del Ponte sullo StretTo, parla di modernità, di integrazione tra Sicilia e continente, di sviluppo economico, ma il prezzo che i cittadini messinesi e calabresi dovrebbero pagare, almeno nel breve e medio periodo, sarebbe altissimo. 

La storia insegna che Messina ha sempre saputo rinascere, come la sua storia dimostra. Ma perché questa rinascita sia autentica, non deve fondarsi su promesse grandiose e lontane, bensì sulla concretezza dei bisogni reali.  

Oggi, quindi, più che mai serve una domanda di fondo: a quale prezzo si vuole costruire il futuro della città? I messinesi, riflettano sul fatto che ogni volta che si parla del Ponte, si dimenticano le emergenze vere che quotidianamente i cittadini vivono.