“DUE POPOLI IN DUE STATI”, MA QUANDO MAI…

Quello di Roberto Ezio Pozzo non è un articolo, un intervento come gli altri, forse non c’è modo come definirlo, ma certamente sono considerazioni di un realismo estremo. Intrise di un forte pessimismo, quasi senza speranza, mi riferisco a (Due guerre, ma per fortuna tante anime belle, 4.9.25, atlanticoquotidiano.it) Pozzo si occupa dell’acceso dibattito sulla guerra a Gaza. Gli analisti della domenica parlano a vanvera a migliaia di chilometri di distanza, mentre l’Europa è accomunata solo dalle piazzate più o meno violente di inconsapevoli ragazzini pseudo-comunisti.

Trcactent fabrilia fabris, era una esortazione dei romani che serviva per i fabbri, di occuparsi esclusivamente del ferro era misura di buon senso, “oggi sempre più ci stiamo abituando a farci insegnare qualcosa da chi non abbia titolo a farlo. La moda attuale, e speriamo che rimanga soltanto una moda, è quella di divulgare con disinvoltura un verbo che si conosce poco o niente del tutto”. A suo tempo Paola Mastrocola esperta di scuola, rilevava che nei talk show, tutti pontificano di tutto, rispondono a tutte le domande, senza averne le competenze e mai nessuno che si degna di dire: “mi lascia una settimana di tempo perché studio l’argomento”. Tutti sono esperti e sconcerta riscontrare con quanta leggerezza fatti di cronaca o problemi di geopolitica vengano discussi da emeriti incompetenti che pensano ad un popolo che, oltre che bue, evidentemente ritengono anche privo della capacità di approfondire su altre fonti o anche solo leggere un libro che tratti quella materia. Pertanto: “Io pontifico della Palestina senza avere nemmeno quel minimo sindacale – come si diceva una volta – di conoscenza geografica e storica della Terra Santa, perché l’importante è orientare i miei lettori contro Israele”.

Potrei incorrere anch’io in quello che Pozzi fa osservare, ma cerco di rimediare con le mie letture. Tra l’altro ho ricevuto un libro inaspettato, non richiesto, proprio sul tema, “Israele, Palestina. La verità su un conflitto”, di Alain Gresh, Einaudi (Nuova Edizione, 2025) Durante le vacanze ho letto alcuni capitoli del voluminoso testo (1180 pagine) del giornalista inglese Robert Fisk, “Cronache Mediororientali”, (Il Saggiatore, 2006) Tornando alle vicende della interminabile guerra tra arabi e israeliani, in corso da millenni, sono soltanto la punta dell’iceberg di una narrazione parziale e scorretta di vicende che affondano le loro radici nell’odio (cominciamo a chiamare le cose coi loro nomi) che divide quei popoli da sempre. Di fronte a questo i giornali e i vari sapienti si limitano a interventi politicamente corretti sostenendo che l’unica via d’uscita da questa guerra è la pacifica coesistenza tra due popoli. Ecco la retorica dei “due popoli in due stati”. “Due popoli che si lanciano vicendevolmente missili e bombe di vario genere da molti decenni, senza che vi sia né l’intenzione né, soprattutto, la possibilità pratica di farli pacificamente convivere sui medesimi territori”.

La storiella dei due popoli in due stati ha un effetto quasi terapeutico. Tutti i politici la ripetono come un mantra. Ma i due popoli finora hanno dimostrato di non crederci tanto. E allora si parla a vanvera senza avere nessuna condizione dell’argomento. Pozzo insiste nella polemica, è “inutile nascondersi dietro al dito quando due popoli confinanti credano in valori molto diversi, inconciliabili e reciprocamente intolleranti come quelli di religione musulmana contrapposti a quelli di religione ebraica o cristiana, se ci si perda nei distinguo di comodo (quelli dei “diversi contesti”) o nelle gratuite asserzioni dei liberali da strapazzo che tutto ammettono finché non siano toccati in casa loro, non si caverà un ragno dal buco”. Come può prevalere la reciproca tolleranza dopo decenni di guerre tra i due popoli? Avete conoscenza di cosa stiamo parlando?

Quale speranza ci può essere di fronte a una situazione che si protrae per troppo tempo. Certo per i cristiani, la speranza è fondamentale, ma non possiamo accettare l’utopia delle anime belle, che pensano che un colpo di spugna si cancelli tutto. Anime belle che nel conflitto israelo-palestinese hanno subito individuato non nei terroristi di Hamas ma nel governo Netanyahu il colpevole di un nuovo genocidio prim’ancora che Israele reagisse al pogrom del 7 ottobre. E “così abbiamo assistito – scrive Giancristiano Desiderio – alla nascita di un delirio organizzato o di una isteria collettiva in cui gli ebrei sono stati messi nel mirino: prima i turisti, poi le università, quindi i farmaci, i professori, i calciatori, gli atleti, gli attori. Si sono stilate delle nuove liste di proscrizione sulla base di un sillogismo tanto falso quanto efficace in un mondo che non si basa più sui fatti e il giudizio ma sulla post-verità e la propaganda: lo Stato ebraico compie un genocidio, tu sei ebreo, tu compi il genocidio. Attraverso la strumentalizzazione del dolore altrui e il capovolgimento dei fatti e della storia si è creata una grande campagna propagandistica che ha un solo scopo: il consenso interno. Il risultato è la banalizzazione della categoria del genocidio, la criminalizzazione di un alleato occidentale come la democrazia d’Israele e la riapertura in Italia della ferita tra italiani ed ebrei italiani”. (L’Italia ferita dai pro-pal e le colpe della sinistra, 8.9.25, Il Giornale)

Il giornalista di Atlantico crede poco alle iniziative di Trump per far cessare la guerra a Gaza, del resto non è mai stata incrollabile l’intesa tra Washington e Gerusalemme. Per non parlare dell’Europa completamente assente in questa disputa. Del resto, noi europei, “abbiamo perso l’intero Dopoguerra a discettare se nei cannoni (americani) avessimo fatto meglio a metterci dei fiori o delle caramelle, strizzando l’occhio ad un pacifismo di maniera che, non dimentichiamolo, costituisce ideologicamente l’ossatura portante della sinistra europea gretina e sempre propensa ad innamorarsi delle cause ideali dei più lontani popoli al mondo”. L’articolo di Pozzo poi fa delle considerazioni anche sulla guerra in Ucraina e parla dell’asimmetria tra Putin e Zelensky.

C’è Vladimir Putin, che continua imperterrito a fare ciò che ha fatto sempre, ossia ciò che vuole, incurante dell’immenso danno militare, economico e d’immagine che arreca al suo Paese, pur di non arretrare d’un millimetro dai suoi propositi iniziali (che sfacciatamente ora ci gabella come concessioni per un’improbabile pace). Anche su questa guerra si spendono milioni per dire delle cose banali tipo che le popolazioni stremate dalla guerra fanno pena e che vanno aiutate, che bisogna costruire ponti (tranne quello che piaceva a Berlusconi, da non farsi soltanto per ciò) invece che erigere dei muri e che tutti i bambini al mondo non hanno colpa alcuna. “Lo dicevano già negli anni ‘70 i fumanti cantautori pauperisti americani per intenderci, quelli tutti diventati miliardari e proprietari di ville blindate, dalle quali ogni tanto ancora escono, rifatti e strafatti per partecipare (a pagamento) a qualche kermesse sulla pace per Gaza, ma solo se c’è ‘gente bella’ e tenendosi a distanza di almeno diecimila chilometri”.

DOMENICO BONVEGNA

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