Nella Legge di bilancio 2026 il Governo intende sostenere il ceto medio attraverso un taglio dell’Irpef che comporterà vantaggi in busta paga per chi percepisce un reddito superiore ai 28.000 euro annui.
L’intervento coinvolgerà oltre 13 milioni di contribuenti, rendendo strutturale la riduzione dell’aliquota sul secondo scaglione Irpef, portandola dal 35% al 33% per la parte di reddito appunto compresa tra 28.000 e 50.000 euro[1], lordi.
Un beneficio che interesserà soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati, con un risparmio massimo di circa 440 euro l’anno[2] e con una valutazione redistributiva che, visto il nostro sistema di tassazione per il quale non esiste un reddito “familiare” ma una Irpef personale e progressiva, deve essere condotta sui redditi individuali e non su quelli familiari e che, dunque, per circa tre quarti riguarderà chi dichiara redditi inferiori a 50.000 euro.
Accanto al taglio delle aliquote, la Legge di bilancio 2026 introduce una serie di ulteriori misure fiscali complementari, pensate per aumentare il reddito netto dei lavoratori, in particolare nel settore privato, anche delle fasce reddituali inferiori a quella sopra indicata, che, comunque, negli anni scorsi ha beneficiato di misure di sostegno al reddito.
Per esempio, per il 2026, gli aumenti stipendiali derivanti da accordi contrattuali firmati nel 2025 o nel 2026 saranno tassati con una imposta sostitutiva del 5%, al posto dell’Irpef ordinaria e delle relative addizionali. L’agevolazione, riservata ai lavoratori dipendenti del settore privato con reddito fino a 28.000 euro, consentirà di trattenere fino al 18% in più dell’aumento lordo, lasciando invariati i contributi previdenziali.
Prevista anche la detassazione per il lavoro straordinario e per le maggiorazioni notturne e festive, con una tassazione agevolata al 15% fino a un massimo di 1.500 euro lordi all’anno. La misura è destinata ai dipendenti privati con reddito fino a 40.000 euro e verrà applicata direttamente dal datore di lavoro.
Un regime analogo è previsto per il settore pubblico, ma in forma più contenuta: il trattamento economico accessorio (indennità, maggiorazioni e compensi per straordinari) sarà assoggettato a un’imposta sostitutiva del 15% entro un tetto massimo di 800 euro lordi annui, a condizione che il reddito complessivo non superi i 50.000 euro.
Si può ancora parlare di ceto medio?
Ma, al di là delle misure fiscali della prossima Legge di bilancio, quello su cui preme appuntare l’attenzione è comprendere chi sono i soggetti effettivamente avvantaggiati dalla misura di riduzione dell’aliquota dal 35% al 33% e, soprattutto, se tali beneficiari si possano considerare “ricchi”, o anche solo “ceto medio”, se tale definizione ha ancora un senso.
La domanda da cui bisogna partire è innanzitutto capire chi può essere oggi considerato ceto medio e cosa questo significhi.
Come definire il ceto medio
La definizione tecnica di “ceto medio” non è univoca e dipende da molti fattori.
L’Ocse considera, per esempio, appartenenti alla classe media coloro che hanno un reddito compreso tra il 75% e il 200% del reddito mediano[3] (da non confondere con il reddito medio) nazionale, tenendo conto anche della composizione del nucleo familiare, oltre che della collocazione geografica[4].
Secondo il Rapporto Istat sulle condizioni di vita e reddito delle famiglie 2023-2024, il reddito familiare netto mediano in Italia è di 30.039 euro (mentre quello medio è di 37.511 euro), pari a 2.310 euro al mese.
Di conseguenza, se è vero che nella classe media rientrano le famiglie con reddito compreso tra il 75% e il 200% del suddetto importo, possiamo dire che in Italia ne fa parte chi guadagna tra i 22.529 e i 60.078 euro.
Naturalmente, tale individuazione del ceto medio, per quanto già detto, non è immediatamente e metodologicamente conciliabile con le classi di reddito destinatarie delle misure fiscali, che non contemplano il reddito “familiare” ma una imposta personale e progressiva su redditi individuali.
Tuttavia, volendo cercare un punto di incontro, possiamo comunque dire che, per come è strutturata la misura, gran parte di questa classe media viene ora effettivamente avvantaggiata dalla detta misura fiscale.
Al di là e prima però di vedere come e perché viene avvantaggiata, bisogna considerare che in ogni ragionamento che attenga agli effetti redistributivi di ogni misura fiscale di vantaggio c’è un convitato di pietra: l’evasione fiscale, laddove l’Irpef “intrappola” oggi il detto ceto medio in una spirale che rischia di determinarne l’estinzione. Proviamo a spiegarci.
In Italia metà dei cittadini/contribuenti non versa Irpef.
Il peso del fisco grava dunque quasi completamente sul ceto medio, che subisce un carico fiscale fortemente sbilanciato. In sostanza, meno di un terzo dei contribuenti (il ceto medio appunto) paga oltre tre quarti dell’Irpef nazionale, con, almeno sulla carta, quasi la metà dei cittadini che non ha entrate e vive dunque a carico di (e grazie ad) altri.
E allora torna la domanda fondamentale: è giusto prevedere misure di vantaggio fiscale per il ceto medio, in cui rientra, a grandi linee e come oggetto del recente dibattito politico, chi ha entrate mensili di circa 2.000/2.500 euro?
Ma prima di questa domanda in realtà dobbiamo porcene anche un’altra: è vero (anzi, è verosimile) che quasi la metà degli italiani dichiari intorno ai 10.000 euro lordi all’anno[5], con la conseguenza che ben il 76,87% dell’Irpef resta a carico di 11,6 milioni di contribuenti[6] su un totale di 42,6 milioni?
E da chi è composto quel 76,87%? Quasi del tutto proprio da quel ceto “medio” che, fino ad oggi, non solo ha mantenuto il resto della popolazione, ma è anche stato considerato troppo “ricco” (rispetto a quel resto della popolazione) per avere diritto a misure di sostegno fiscale.
Da qui lo “scandalo” di venire ora incontro a tale fetta di popolazione.
Eppure, quel ceto medio rappresenta l’Italia che lavora, risparmia quel che può, paga il mutuo e le tasse e, in sostanza, tiene in piedi il Paese, garantendo un contributo fondamentale alla copertura delle spese pubbliche e, quindi, al finanziamento del welfare, dai cui trasferimenti sociali finiscono però, costantemente, per essere esclusi.
La spina dorsale economica (e culturale) del Paese, che, per tanti motivi, vive oggi spesso l’umiliazione quotidiana del non riuscire più ad arrivare alla fine del mese. Quel ceto medio è fatto oggi, per lo più, da famiglie che, pur avendo un lavoro, non riescono più a mantenere il proprio tenore di vita e stanno scivolando (neppure tanto lentamente) verso la ristrettezza economica.
Se questo ceto medio viene abbandonato è l’intero sistema Italia a essere a rischio crollo.
Ma, viene (incautamente) detto, questa fetta di popolazione ha comunque risorse per una vita dignitosa[7]. Ma una tale affermazione su che basi logiche ed argomentative si fonda?
Il ceto medio “in perdita”
Se caliamo gli annunci ideologici nella realtà quotidiana, è davvero ragionevole ritenere che questa fetta di popolazione non ha bisogno di aiuto?
Per capire di cosa stiamo parlando, ricapitoliamo quelle che, per lo più e volendo indicare solo le principali, rappresentano le spese “normali” per una famiglia “tipo”:
– Mutuo/affitto
– Condominio
– Bollette
– Polizze (auto, professionale, casa)
– Spese per i figli (dall’abbigliamento, all’asilo nido, alle attività sportive, alle babysitter, etc.)
– Alimentari
– Abbigliamento
– Cellulare
– Farmaci e spese mediche
– Imposte (Tari, ecc.)
– Spese veicolo (benzina, bollo, revisione, manutenzione, ecc.).
Nel 2023, in Italia, la spesa media mensile per consumi delle famiglie è stata pari a 2.738 euro, in valori correnti.
Le famiglie italiane spendono in media 526 euro mensili per prodotti alimentari e bevande analcoliche, mentre la spesa per beni e servizi non alimentari è pari a 2.212 euro al mese[8]. Nel Nord-Ovest, si spendono in media 736 euro in più che nel Mezzogiorno[9]. E, questo, senza considerare spese straordinarie (mediche in primis).
Con un valore mediano di reddito annuo netto percepito, come visto, pari a 30.039 euro, cioè 2.310 euro al mese, le famiglie del ceto medio sono quindi in “perdita”. Anche quelle sopra la mediana faticano (soprattutto al Nord).
Bastano allora queste entrate per vivere dignitosamente? Probabilmente no.
Ma non è questo il tema.
Il ceto medio è ancora da considerare come una parte ricca della società?
Il tema dell’attuale dibattito politico è se bastano queste entrate per essere considerati “ricchi” e dunque non meritevoli di alcun intervento fiscale di sostegno, quasi dei “nemici” da guardare con sospetto.
Fino ad oggi, del resto, gli interventi normativi di favore fiscale hanno considerato la soglia dei 35mila euro lordi come una sorta di porta d’ingresso ad uno status di autosufficienza economica, una patente legale di “ricchezza”, per cui chi “godeva” di un tale reddito, oltre a pagare per sé stesso e per la propria famiglia il costo di prestazioni sociali e sanitarie, di fatto doveva anche contribuire a sostenere l’intero sistema di bonus, sussidi e prestazioni gratuite.
Poiché però, come noto, le dichiarazioni dei redditi riflettono in modo molto parziale (e poco veritiero) la reale distribuzione di redditi e ricchezze nella società, è inevitabile che tramite tale tipo di tassazione si sia finito per produrre una ridistribuzione impropria di risorse. E quindi non solo gli appartenenti all’attuale ceto medio non sono ricchi, ma devono anche pagare, ed hanno fino ad oggi pagato, per chi probabilmente è anche più ricco di loro.
Rischiando di scivolare così davvero verso la povertà.
Lavoratori o impiegati improvvisamente ex, che hanno dovuto vendere la macchina di media cilindrata, che non hanno più soldi per pagare affitto o mutuo, con carte di credito “vuote”, conti in banca bruciati, e talvolta anche angariati dagli usurai ai quali sono stati costretti a ricorrere.
Questi ed altri soggetti “normali” appartenenti ad un ceto medio che arranca, anche se difficilmente identificabili (per discrezione, pudore, vergogna, dignità sociale), sono per lo più il simbolo di persone e nuclei che perfino con un lavoro si ritrovano comunque impoveriti; famiglie che non riescono più a far quadrare i conti, a pagare le bollette per il mutuo, l’affitto, la luce, il gas e il riscaldamento, le spese di condominio, costrette sempre più a fare i conti non più con la quarta ma con la terza settimana, o, a volte, anche con la seconda.
Certo, c’è sempre qualcuno che sta peggio.
Ma il problema, per quanto detto, è che quel qualcuno è sostenuto (tramite il contributo ai servizi pubblici) proprio dal ceto medio. E se crolla quest’ultimo ‒ da intendersi in tutte le sue sfaccettature, laddove, come dimostra la stessa ampia forbice reddituale in cui lo stesso risulta identificato, esiste senz’altro un ceto medio “basso”, un ceto medio “medio” e un ceto medio “alto” ‒ crolla comunque l’intero sistema, compresi i sussidi a chi sta peggio.
I meccanismi impositivi stabiliti di volta in volta dal Governo devono necessariamente uniformarsi all’evoluzione della realtà
La realtà del ceto medio in Italia è profondamente cambiata in questi ultimi anni, determinando condizioni che, complessivamente considerate, ne fanno oggi la classe sociale a maggior rischio e a minor sostegno pubblico.
E allora è giusto, dopo che per anni, altrettanto giustamente, il Governo si è concentrato sulle fasce reddituali più basse[10] (al netto se siano veritiere o meno), che il Governo sostenga ora con le dette misure il ceto medio, anche quello che dichiara “addirittura” 50.000 euro (lordi) ed oltre, pari peraltro solo al 5,8% della popolazione (se questo fosse credibile)?
I 2,9 miliardi previsti nel Ddl bilancio 2026 sono solo il minimo (dovuto) contributo per contribuenti fino ad oggi esclusi per il loro reddito da tutti i benefici fiscali, contributivi e assistenziali.
E quindi, sì, è certamente giusto sostenere ora il ceto medio.
E lo sarebbe anche oltre gli importi indicati dal Governo (necessariamente limitati anche solo per esigenze di bilancio, anche considerato quanto già dato alle fasce di reddito inferiore negli scorsi anni), soprattutto laddove si considerasse l’effetto evasione, l’effetto inflazione e l’effetto “spinta” del Paese, da sempre lasciato, o meglio affidato, almeno in Italia, proprio a questa fascia di popolazione.
Non saranno certo questi, nella misura “massima”, 440 euro all’anno a fare la differenza per risollevare un ceto ormai in declino.
Si tratta di un primo passo e l’auspicio è che ne seguano altri.
Magari, anche per risolvere quella dicotomia tra redditi familiari e redditi dei singoli, introducendo finalmente, a tutti gli effetti, anche il quoziente familiare al fine di dare più risorse a chi ha figli, anche in attuazione di quel favor familiae a cui s’informa l’art. 31 della Costituzione, magari appunto prevedendo la commisurazione dell’imposta alla capacità contributiva del nucleo familiare tenendo conto del numero delle persone che lo compongono e dei redditi da esse posseduti, con determinazione dell’imposta mediante applicazione dell’aliquota media corrispondente al reddito complessivo diviso per il numero dei componenti del nucleo.
Salviamo il ceto medio: ricchi per legge, ricchi per ideologia, ma, in realtà, spina dorsale del Paese in profonda difficoltà economica e identitaria.
