I linguaggi della politica stravolgono il vocabolario per farti credere ciò che non è

Spesso la politica, e non solo, usa il linguaggio calcistico per far meglio comprendere un fatto e/o un’azione. Essendo però un linguaggio che fa riferimento ad azioni, non c’è uno stravolgimento del significato delle parole, ma l’uso di metafore, il semplice trasferimento di significato da un ambito a un altro. La popolarità del calcio e del suo linguaggio riescono quindi a raggiungere chi, altrimenti, resterebbe un po’ ostico di fronte ad un certo agire della politica.
E fintanto che la politica cerca di farsi comprendere da tutti, la cosa ci piace.
Non altrettanto piacere, invece, proviamo nei confronti della politica che usa il proprio vocabolario per far credere qualcosa che invece non è. Uno dei casi più frequenti è l’uso dell’allocuzione “class action”. Usata da chi vuol comunicare la propria volontà di prendere un’azione giuridica di notevole peso e popolare contro ciò che reputa essere un’ingiustizia. Nel 99,9% dei casi questa allocuzione viene usata a sproposito, perchè si tratta di potenziali azioni giuridiche che -per la legge- non posso essere intraprese in forma di class action. Non solo, ma anche peggio. Spesso sentiamo frasi del tipo “abbiamo vinto la class action”, facendo riferimento a una sentenza “ordinaria” di un giudice; sentenza che se dovesse/potesse condizionare il legislatore potrebbe portare a delle modifiche che riguardano tutti coloro che sono vittime dello specifico sopruso, ma che nello specifico non è una class action, cioè il riconoscimento giudiziale di un danno collettivo che deve essere risarcito. Questo metodo non è applicato solo in Italia. E’ di oggi la notizia che c’è stato un referendum/voto in Catalogna per chiedere agli elettori se volevano o meno che la loro regione divenisse uno Stato e fosse indipendente da Madrid. L’80,72% ha votato a favore e gli elettori sono stati il 32,8% (inclusi 16enni e residenti stranieri). Quasi tutti sanno che questi risultati hanno solo un significato per l’uso politico che se ne può fare, ma non dal punto di vista istituzionale. Ma non è stato nè un referendum nè un voto, ma una sorta di petizione firmata da più di 2 milioni di persone, organizzata e messa in atto anche coi soldi pubblici oltre i tanti volontari che hanno dato una mano ai seggi. Il risultato sarebbe stato più logico al 100%, ma si sa, nel segreto dell’urna ci sono sempre i burloni. Ma nei media, nei linguaggi e nella memoria popolare resterà come un referendum in cui hanno vinto gli independentisti. E quindi, parole e prassi di rilievo istituzionale come “referendum”, “voto”, “maggioranza”, “minoranza”, “diritto al voto”, per i più non saranno regole e norme, ma modi di dire e di essere della politica. Proprio come la class action in Italia.
Una politica, e un linguaggio della stessa, che creano realta’ parallele al di fuori e contro la legge, i diritti e i doveri.

Vincenzo Donvito, presidente Aduc