Quel tempo andato … e la Chiesa messinese

di ANDREA FILLORAMO


Molti anni fa, rispondendo alla voce della mia coscienza, ho lasciato il “ministero” e, per tanto tempo, non perché avevo qualcosa di cui rimproverarmi, ho imposto “dentro” e “fuori” di me il “ silenzio” su quel periodo che ho ritenuto e ritengo ancora molto importante, ma appartenente solo ed esclusivamente a me, al mio passato. Nessuno, quindi, nel periodo in cui sono stato insegnante e Dirigente Scolastico, ha saputo del mio trascorso di prete. Venendo, recentemente a Messina, dove ancora tanti mi ricordano, è sorto in me il desiderio di tornare al passato, fare un “viaggio a ritroso”, ricontattando persone alle quali allora avevo voluto bene e che non vedevo da tanto tempo. Questo desiderio, si è accompagnato alla disponibilità di ImgPress ad ospitare i miei articoli, su argomenti in cui mi sento competente. Sono stato così indotto a “rompere” il silenzio sulla mia vita passata, tant’è che il mio primo intervento sul “Foglio Elettronico” è stato un’intervista in cui rivelavo chi ero stato. Nello scrivere gli articoli ho potuto notare come i lettori di IMG Press, mi hanno subito accettato anche per le posizioni che ho preso nei confronti dei problemi della chiesa locale. Essi mi hanno “gratificato”, cliccando su molti “ mi piace” che si riferivano ai miei scritti. Durante la mia permanenza a Messina, poi, mi sono “fraternamente” incontrato con molti preti, i cui problemi, ho condiviso. Con loro ho immaginato di scrivere un “diario all’indietro”, un’autobiografia, di compilare tutti i dettagli che per lungo tempo avevo dimenticato o trascurato. Ho rivisto, perciò, me stesso in un concerto di immagini, di ricordi, di situazioni e di esperienze che facevano parte di un corposo diario che aveva, sì, il profumo di un io nascosto, ma che respirava anche in superficie, ossia tra le pagine aperte, di una storia dalle tinte diversificate. Attraverso i ricordi, ho messo una pietruzza di un colore diverso per poi avere una visione d’assieme e, così, è tornato alla mia memoria il passato, che era come il sole semicoperto, che s’intravedeva di tanto in tanto. Mi sono, così, “tuffato”, senza alcuna difficoltà, in esso, come se fosse presente, di condividere i problemi dei preti come se fossi ancora in attività ministeriale e di scrivere per loro, senza voler essere, però, il loro portavoce. Credo che, prima o dopo, appartenga a tutti, particolarmente a chi ha avuto una vita significativa, tale desiderio. Per quanto riguarda me, l’attuazione del passato ha sollecitato il recupero di “quelle tracce di senso” esistenziali, presenti lungo il “continuum” esperienziale della mia personale storia. Lo spazio concessomi dagli amici e dal giornale, è diventato per me il tempo della “tregua”, una “base sicura” nata da me stesso per me stesso, in cui pressante è diventato il rintracciare i molti ruoli, le molte parti per attendere alla ri-composizione di tutti i frammenti. “Narrare di sé”, al dire di uno scrittore di cui mi sfugge il nome, è un guardarsi dall’alto osservandoci come un paesaggio affatto ordinato dove, in quanto autori, stabiliamo simmetrie e asimmetrie, zone oscure o chiarificate, picchi o pianure, vie maestre e sentieri…. non sempre le figure emergono evidenti. E’ però un tentativo della mente di ritrovare un punto, un’ansa ….. al quale ancorarsi. Almeno per qualche istante, tra giochi della memoria e riflessioni sul senso degli accadimenti… E’ certo che questa operazione mnemonica talvolta mi ha ““intristito” come la stagione dell’autunno, che coincide con l’autunno della mia vita, perché la vita è trascorsa e il resto, quello che ne rimane, forse è contrassegnato dalla solitudine. Solitudine che ho, in parte, provato, distaccandomi, in questa estate, per un certo periodo di tempo, dalla mia famiglia, anche per dedicarmi in libertà, come ho già detto, all’incontro con i vecchi amici. Dopo una vita vissuta con gli altri e per gli atri, prima in parrocchia e poi nella scuola, la ricerca della solitudine credo che possa essere o diventare un’esigenza e può diventare un sentimento positivo. La percezione della solitudine, anche se vivi all’interno di una famiglia, con la quale condividi lo svolgersi della vita, se accolta, si tinge di colori sempre più vivaci; essa rappresenta lo stare con se stesso, incoraggia lo sviluppo dell’interiorità e predispone alla nascita del nuovo. Conseguentemente la solitudine può diventare indubbiamente un sentimento positivo, che ti fa considerare gli avvenimenti della vita in modo diverso. Ecco quello che è avvenuto in me. E così, ha avuto modo di “recuperare” il ricordo del lontano passato. Per tanti anni, il tempo andato l’avevo racchiuso nell’abisso della mia anima, che solo recentemente ho voluto aprire. In quell’abisso c’erano pezzi importanti, forse i più importanti della mia vita, sui quali, in quei lunghi anni, mai ho voluto indugiare, mai ho voluto rivederli alla luce delle esperienze successive. In tutto quel lungo tempo mai ho ascoltato il loro richiamo, mai ho chiesto di volti, di odori, di nomi, per sentirmi meno lontano. Quel tempo occupava una dimensione interiore, vissuta come un baratro che si muoveva e impediva di vedere, un abisso in movimento, una presenza vertiginosa di ciò che era inafferrabile, di cui era impossibile estrapolare ed estrarre pezzi ancorati o ritenuti dispersi nella profondità e negli abissi tetri del grande mare che è l’inconscio. Di tutti quegli anni che andavano dalla mia infanzia, ai lunghi anni del seminario, al periodo in cui ho esercitato il ministero, fino al mio trasferimento in un’altra regione della nostra Italia, riprovavo fino a recentemente, ma solo in minima parte, i sentimenti vissuti, senza ricollegarli ad alcun procedimento mnemonico. A volte mi meravigliavo se ero costretto a collocarmi in alcuni racconti, di cui conservavo appena una cornice sfumata. Questo fenomeno, che si rivelava in me e che non ho mai affidato a psicologi, io lo subivo tranquillamente, ritenendolo espressione della mia volontà di aver voluto cambiare totalmente vita, transitando dallo stato clericale a quello laicale. Sapevo, infatti, che se avessi consultato qualche psicologo su quanto avveniva in me, mi avrebbe detto che sarei risultato mosso da un meccanismo della coscienza, un comportamento emotivamente causato dal “senso di colpa”, retaggio della mia educazione cattolica. A parere di molti, infatti, l’educazione cattolica si fonderebbe sul "peccato" e sul "senso di colpa", “colpa di nascere e colpa di vivere”. Tutti, quindi, saremmo "peccatori e colpevoli", pervasi dal desiderio di essere accettati dagli altri per superare i problemi psicologici che la sensazione generata dall’ essere in peccato ed in colpa ci dà. Per un ipotetico psicologo, perciò, il mio comportamento avrebbe segnalato dei disagi, costruita una situazione di dipendenza tale per cui sarei stato colpito da angoscia nel mio cambiamento di vita. Il presunto senso di colpa, sarebbe derivato, quindi, dalle delusioni delle persone che mi volevano bene, che non si aspettavano da me una scelta da loro non gradita; pertanto mi obbligavo a tacere del mio passato e, quindi, a nasconderlo non solo agli altri ma anche a me stesso. Ma credo che non sia così. In quel lontano passato, che caparbiamente nascondevo, che volevo a ogni costo nascondere ero certo che non vi erano colpe o eventi, in cui non mi riconoscevo più, ma pezzi rilevanti della personalità. Vi erano situazioni che potevano al massimo essere valutati non abbastanza conformi o troppo personali, tanto riservati da non doverne più parlare. Non è un male se ciascuno di noi mette al margine della propria esistenza un tratto della propria vita. Quel periodo, infatti, l’avevo deposto al margine della mia esistenza, in un luogo oscuro e nascosto, le cui chiavi custodivo gelosamente. In esso vi erano conservati i cosiddetti “segreti”: brani dell’identità, ampi scorci della biografia, rapporti, amicizie, passioni, modi di essere. In quel punto recondito della mente, vi erano conservate accuratamente le immagini di tanti che con me, molti anni addietro, avevano vissuto, avevano gioito e avevano sofferto. Erano i miei “vissuti”, che testimoniavano un passato che andava oltre il tempo effettivamente trascorso. Nell’opera di occultamento del mio passato, sul quale era calato il silenzio, io ero come uno scultore, che, dopo aver dato la sua anima e le sue emozioni alla materia inerte e fermato in essa il tempo in istanti di soffio vitale, conserva con cura le sue opere in luoghi sicuri, ben nascoste. Tenevo nascosto quel tratto di vita che si riferiva al periodo in cui ho esercitato il ministero presbiterale e, assieme ad esso, il periodo della preparazione al sacerdozio, al quale mi ero sentito quasi predestinato fin dalla nascita, svolto e vissuto intensamente con disponibilità, che mi rendeva importante e che mi permetteva di essere vivo, saldo nei miei valori e nel mio lavoro con gli altri e per gli altri. Il sacerdozio era stato, per tanti anni il punto fermo a cui facevo riferimento in qualsiasi situazione; era ciò che mi dava una direzione; era un faro quando navigavo in un mare in tempesta. Nessuno può dubitare del fatto che l’abbandono del ministero mi ha creato tanti problemi. Sono stato costretto a lasciare la mia città, i miei amici, i miei parenti, e quanti in quegli anni mi avevano seguito; costretto, inoltre, alla marginalità e all’anonimato. Tale costrizione, accompagnata dalla necessità di proteggere la mia privacy in ambienti e in luoghi non inclini all’accettazione di chi ancor oggi è considerato lo “spretato”, mi obbligava a non far conoscere la “condizione precedente”, mi obbligava al silenzio con me e con gli altri. Quello che era chiamato in modo dispregiativo lo "spretato", ancor oggi, infatti, nell’ambito dei credenti, non di rado è accomunato nella condanna al "prete indegno" perché si ritiene che abbia perso la vocazione e, quindi, deve essere condannato dagli uomini e, quello che più conta, da Dio. Il termine “spretato” è , però, un sinonimo e non dovrebbe implicare, di per sé, quel senso peggiorativo, o addirittura infamante, che spesso tuttavia l’ accompagna, anche se l’epiteto di spretato è del tutto ambiguo. Chi ancor oggi considera il prete che lascia il ministero come lo spretato non tiene conto del calvario percorso. Definito dall’istituzione “prete laicizzato”, locuzione ritenuta impropria, egli resta, tuttavia, sacramentalmente “sacerdos in aeternum”. La sua non è una“vocazione perduta” ma vocazione recuperata per mete esistenziali da lui ritenute più genuine. Durante l’esercizio del mio sacerdozio, diligentemente preparato durante la mia infanzia, la mia adolescenza e durante un certo periodo della giovinezza ho fatto tante cose, ho dimostrato tanta disponibilità; ho amato e sono stato amato, mi sono emozionato, ho superato difficoltà, attraversato tanti cambiamenti personali, ho avuto sicuramente una vita ricca, significativa. Ho incarnato le debolezze dell’uomo comune e le straordinarie virtù dell’uomo fuori dal comune. Sapevo, inoltre, che il sacerdozio io fortemente l’avevo voluto, per dieci anni non mi ero sottratto a quanto esso richiedeva e non mi ero mai impaurito per la gravosa responsabilità assunta. Ciò fino a quando, siamo nel post Concilio, è subentrata in me la crisi. Dopo dieci anni, infatti, dopo una crisi esistenziale e culturale, che mi ha strappato le viscere e che mi portava ad estraniarmi dalla mia vita e dalla mia persona, ho volutamente abbandonato il ministero, in quanto non trovavo più dei fini o dei motivi per le mie azioni e mettevo in forte dubbio alcuni principi, sui quali il ministero si fondava, anche se creduti veri e validi da una moltitudine infinita di persone. Non volevo, quindi, restare immerso nel fiume eracliteo dell’incertezza, anche se, in certe situazioni, ero obbligato ad illudermi ed illudere per non affondare e per non fare affondare. Pensavo che l’emergenza , dettata da questo continuo movimento, non mi consentiva di fermarmi per trovare valide motivazioni, essenze ontologiche o metafisiche per rimanere. L’abbandono, però, non voleva dire e non vuole dire “indifferenza”. Provavo e provo, infatti, un’affezione verso tutto ciò che, in quei dieci anni avevo fatto. Ho riflettuto a lungo su quell’ abbandono e ho pensato che tutti nella vita hanno un ruolo, al quale cercano di rimanere il più possibile fedeli, ma il ruolo può cambiare. L’esercizio del sacerdozio, una volta abbandonato è diventato per me un sacro enigma; sacro perché evocava l’idea della straordinarietà, di ciò che è oltre il quotidiano, di ciò che è oltre il normale; enigma perche’ lo volevo tenere, ad ogni costo, nascosto a me e agli altri. Sapevo che io mi identificavo in un sacro enigma e, quindi, anche se avessi voluto, non avrei potuto rivelarlo. Non avrei potuto rivelarlo, in quanto l’ambiente in cui avevo scelto di vivere e dove ancora vivo, oltretutto, non mi avrebbe capito ed accettato. Si sarebbe rifiutato e ancor oggi si rifiuta, a causa dei pregiudizi indotti, di riconoscere come valore la scelta di una mia vita diversa da quella svolta precedentemente. Mi avrebbe considerato, a causa di quell’abbandono, spergiuro, una persona, cioè,che non rispetta gli impegni presi e, quindi, inattendibile, senza un minimo di dignità. Per questi motivi, quindi, da disprezzare e da considerare un reietto, uno “scomunicato”, maledetto dagli uomini e da Dio, un evaso. Ed io sarei stato costretto ad isolarmi ,non mi sarei sentito accettato, mi sarei sentito diverso, inferiore ,uno da evitare, un peso inutile , un cane al guinzaglio. Avrei avuto, perciò, paura degli altri,della loro aggressività. Sappiamo tutti che il pregiudizio è un’opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni, irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta a modificare il comportamento sulla base delle credenze. L’eliminazione, quindi, dei pregiudizi è un’impresa non facile, in quanto essi sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui e naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni e ciò non sempre accade. Ho ricavato il termine “ sacro enigma” da un bellissimo testo di Gregory Bateson che fa l’elogio del sacro, che identifica con il silenzio, la riservatezza, il rispetto per quelle zone della vita dove, riprendendo un verso di Alexander Pope, “ gli angeli esitano a posare il piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti”. Il mio silenzio sulla mia “ missione” e sul mio passato aveva avuto inizio in quel giorno, inaspettato per tanti, in cui avevo fatto le valigie, salutato tutti per andare a vivere lontano; quando, cioè, avevo deciso di cambiare tutte le abitudini che ritenevo non mi rappresentassero più, nonostante ci fosse chi si opponeva alle mie decisioni e nonostante quella scelta fosse piena di ostacoli. Ritenevo allora che il mio allontanamento da quel luogo e l’abbandono di quel “servizio”, superato il momento iniziale, non avrebbe procurato nulla di così dannoso, nel senso che la mia mancanza in seguito non si noterebbe neppure notata: non sarebbe venuto a mancare, cioè, qualcuno ritenuto insostituibile. Sapevo allora che abbandonando il ministero avrei perso il mio “ status”. Ma cosa è lo “ status”, se non, al livello psicologico una percezione? Prendevo atto, cioè che, dal momento di quell’abbandono finivo di percepirmi, com’era stato per tanto tempo, come una scatola che col passare del tempo diventava sempre più vuota, anche se “accartata” di “ neologismi”, un’ immagine pubblica, paludata, preconfezionata; che non ero più una persona che non riusciva a godere dei suoi successi in quanto si sentiva vitale solo nel desiderio, nel suo gioco di apparenze, inseguimenti e sfide e che non tollerava che il suo agire fosse fondato sulla tensione, sull’attesa di gratificazioni che tardavano a venire o che non sarebbero mai venute. Lasciando il ministero, inoltre, smettevo di istaurare delle relazioni imposte da quel ruolo “sacrale”, talvolta pretesti per affermare me stesso e la mia presunta aprioristica superiorità, connotata da un abito che indicava separazione, per volermi sentire “nel mondo ma non del mondo”. Essere nel mondo ma non del mondo può essere un’antinomia. Essere nel mondo ma non del mondo aveva significato, infatti, per me come camminare su una corda tesa, essere presi a pugni da tante distrazioni, rinunciare alla sensibilità verso le attraenti lusinghe della cultura secolare. Si tratta, quindi, di non potersi appropriare della propria autonomia. Pensavo che l’autonomia che il prete tende a rivendicare sia illusoria; in realtà essa non può esistere al di fuori dello sguardo degli altri, dall’attesa degli altri. La sua identità è totalmente dipendente dalla conferma esterna e da un’ubbidienza imposta da una gerarchia che può essere percepita come piramidale e quindi assolutistica, gravosa e talvolta impossibile. E così mi sono allontanato dalla mia città e ho lasciato il ministero. Allontanandomi dalla mia città, e lasciando il ministero, non mi sono sentito più sommerso sotto concetti resi sacri dall’ autorità e affogati da una forza che obbligava ad accettare che la negazione di se stessi e dei sentimenti più umani, è il non plus ultra della perfezione. Prendevo atto che “la perfezione ha un grave difetto: ha la tendenza ad essere noiosa”. Abbandonando il ministero, ho abbandonato anche gli amici, preti e laici, con cui ho convissuto per tanti anni e che poi, li ho recuperati, solo in parte recentemente. Abbandonavo allora particolarmente il gruppo di appartenenza,che era quello del clero, gruppo che ritenevo chiuso, iperstrutturato, esercitante una forma di tacito controllo, ma che seduceva con il farmi sentire importante, che, durante la formazione seminaristica, mi stimolava con l’abbigliamento, i riti, i gesti, i “simboli di status”. Quei simboli, abbandonando il ministero, li lasciavo definitivamente. Smettevo, perciò, quell’abito che mi distingueva dagli altri, che poteva essere un mezzo per comunicare la mia affidabilità e quindi poteva favorire nuove conoscenze ma che da tanto tempo indossavo solo raramente. Ero certo che le persone mi avrebbero accettato anche con altri abiti!. Temevo, allora, che l’ondata di ipocrisia, fatta di simulazione di buone qualità, buoni sentimenti, buone intenzioni, per apparire diverso da quel che veramente ero, propria di quel mondo di appartenenza, potesse sommergermi e farmi precipitare nell’abisso dell’ inautenticità. L’inautenticità – lo sappiamo – risulta sempre frustrante, crea un vuoto, o almeno, ne evidenzia uno che già era presente. Per chi non si sente davvero importante, per chi si trascina dall’infanzia un bisogno così forte e pressante di riconoscimenti esterni, le gratificazioni sono cosi potenti nell’immediato, così appaganti da spazzare via ogni ragionamento e ogni consapevolezza. Nel momento in cui lasciavo quella vita, tenevo conto che nessuno, al di fuori di me stesso, poteva cambiare quello che provavo dentro, perché erano le mie decisioni e non le condizioni della vita. Certamente non è stata facile la mia decisione di “ cambiare vita”. Rammento quanto scriveva Sergio Bambarén : “La vita sara’ sempre piena di decisioni dure da prendere. Ogni volta che tu apri una porta,un’altra si chiude. In fondo uno deve imparare a vivere secondo le proprie decisioni, non importa quanto sanguini il cuore o quanto faccia male”. Mi rendevo conto allora che la mia rappresentazione interiore della realtà forse non riproduceva esattamente la realtà, ma era solo un’interpretazione filtrata dalle attese e dai valori personali; un’interpretazione che potevo decidere di utilizzare a mio vantaggio, per rendere più serena l’esistenza. Lasciando il ministero, cercavo la sicurezza, la fiducia, la passione, l’amore, la felicità. Portavo appresso, però, con me il bagaglio più pesante, quello più oneroso, quello che costituiva l’ostacolo più grande; lo sentivo pesare sulle spalle e lo dovevo sorreggere qualunque fosse il luogo di mia destinazione: me stesso. Credo che chiunque, in un tratto della sua vita, sente il bisogno del cambiamento, che è sempre una sfida con se stesso. Notavo, allora, che la voglia del cambiamento si accompagnava in me a una sfida: potevo cambiare i pensieri e la realtà, come un indumento smesso, una piastrella rotta, il colore delle pareti della camera, un pensiero di dolore o paura, un cibo che non piaceva più, una relazione che non soddisfaceva. Potevo, inoltre, trasformare l’impossibile in possibile, il negativo in positivo, la rassegnazione in carica vitale, il vittimismo in assunzione di responsabilità. Attingevo, così, a quella riserva di energie e capacità che Albert Einstein aveva individuato in ciascun essere umano, a patto, però di saperle riconoscere: “Solo se riusciamo a convincerci che esse esistono, possiamo darne appello” diceva. Lasciando il ministero ha dovuto cercare un “ lavoro” un “ posto”, una casa e una città da abitare, ma io cercavo non tanto un posto, una città, una casa dove andare bensì un percorso alternativo a ciò che quel mondo che abbandonavo mi imponeva. Non è stato per me facile quel passo. Avevo amato, infatti, più di me stesso quella missione; con essa mi ero identificato e anche gli altri con essa mi avevano identificato. C’era, quindi, tanto dolore in quell’abbandono ma sapevo che il dolore con il passare del tempo l’avrei ritenuto un processo naturale, funzionale. Attraverso il dolore mi sarei staccato dal passato e avrei iniziato a forgiare un nuovo "me stesso", con altri interessi, altre passioni, disponibile a una nuova vita. Ero convinto che la vita consisteva per me nell’andare avanti. La capacità di continuare mi avrebbe aiutato a percepire che nessun problema era senza uscita. Andare avanti significava non lasciarsi prendere dall’inerzia, dalla paura o dall’irritazione e che il miglior modo di liberarsi dal passato era fare la pace con me stesso. Facevo in modo che le antiche immagini di me stesso andassero via. Continuavo, semplicemente, a muovermi in avanti. Niente più mi faceva fermare. Sapevo che costruire un percorso di vita diverso, libero da ogni condizionamento, costa molto in termini di autodeterminazione, ma alla fine paga di più, perché può ricompensare di molti sacrifici e rinunce fatte proprio per rimanere liberi. Nell’affrontare la nuova vita, mi confortava il fatto che qualcosa di quelle esperienze passate, mi sarebbe rimasta. Anche se a stento, infatti, rammentavo dove ero stato, tanti stati d’animo di momenti importanti; non riuscivo, o meglio non volevo, però, raccontare a me stesso o agli altri, un fatto accadutomi, un aneddoto, una conversazione, che facesse riferimento a quel tempo. Aneddoti e conversazioni di quel tempo lontano si rinnovavano, però, frequentemente nei miei sogni ricorrenti; erano sogni che si ripetevano quasi in fotocopia e quasi li attendevo. Erano scenari, paesaggi dove tornavo ogni volta che chiudevo gli occhi con piccole variazioni. Volti e figure si muovevano nelle mie notti come pronti a presentarsi ad un appuntamento fisso. Forse una parte molto profonda di me stava cercando di dirmi qualcosa e riproponeva quell’immagine ogni volta che poteva, quando il sonno apriva la via ad un mondo sconosciuto, attraverso la fitta ragnatela dei miei sogni. Uso l’espressione e l’immagine di una “ragnatela nei sogni” in quanto la ragnatela è legata alla qualità del tempo del passato. Essa resiste intatta anche quando non è più abitata, sopravvive in luoghi bui, vecchi e polverosi, in cantine e sotterranei, aspetti psichici soffocanti, grovigli di ricordi ed emozioni risalenti al passato. Il voler mantenere segreti il mio lontano passato e l’esercizio della mia missione rispondeva a una sorta di «istinto di fuga», una strategia per rifugiarmi in un luogo recondito della mente. Si sa che chi fugge, fugge sempre da qualcosa o da qualcuno che insegue, da una gabbia, da una prigione, da un luogo che è diventato troppo stretto. Si fugge dalla propria vita, dal proprio passato. Per me fuggire richiamava la libertà, l’evasione, la speranza. La fuga era per me lasciare la mia terra, fino a quando avrei avuto voglia di tornare a casa.