 
L’ecologia è una necessità. La terra è un’astronave piena di buchi e un giorno di questi esploderà. Da quando ho conosciuto Luisa, la protagonista della storia non faccio che ripeterla questa frase: l’ecologia è una necessità. In mezzo a tanti oggetti scartati, abbandonati, pieni di polvere e ragnatele, la creatività resta padrona, la protagonista assoluta della scena. Ci sono tavolini, mobili di un’altra epoca, fogli di giornale, lampade fuori uso. In mezzo c’è lei, Luisa, una mamma che vive in una città industriale nell’hinterland milanese. Anche da un ghirigoro casuale, scarabocchiato soprappensiero, può arrivare un’idea geniale, come questi scatti che ci regalano una storia d’altri tempi. Perché il nostro creatore dev’essere un grande regista.
“Ho sempre amato viaggiare – esordisce Luisa – immergermi in altre culture per coglierne le diversità. Sono amante dei paesaggi rurali, dei loro toni caldi e della sensazione di pace che emanano. Delle città invece mi piace la vitalità, il movimento e immortalare l’arte a disposizione di tutti: quella rappresentata sui muri. La street art non solo permette a coloro che non hanno voce di decorare e abbellire le città ma anche di comunicare un preciso messaggio in un determinato momento. Essa rappresenta uno stato d’animo, è una forma di comunicazione che fa capire come la gente sta. Attraverso gli scatti catturo il loro sentire, e questo mi dà molta soddisfazione. Nel tempo ho imparato a guardare molte foto altrui. Ma non per riprodurle uguali, bensì per un desiderio di costante ricerca di bellezza e significato”.
Elogio alla leggerezza. Piatti di plastica, oggetti abbandonati nei luoghi più impensabili che Luisa abilmente trasforma in soggetto, tema, argomento, materia, contenuti. Senza queste storie (fotografiche) forse non saremmo qui a commentarle, solo grazie a questa passione tutti sembrano accorgersene, con un disagio appena percepibile…
“Penso sia molto utile per migliorare e per dare alle fotografie un valore, un filo conduttore. Un’altra passione che da mesi coltivo riguarda la fotografia a luoghi abbandonati e fatiscenti. Non so spiegare precisamente perché, ma quando mi trovo di fronte a un oggetto abbandonato, dimenticato, arrugginito, rotto, ne subisco il fascino. Lo stesso vale per le ville, le cascine, le fabbriche abbandonate dove c’è stata una storia fatta di persone. Sono posti dove si entra in punta di piedi e dove ogni angolo è una scoperta. La mia è una continua ricerca di qualcosa che mi stupisca. Continuerò a scattare alternando l’uso dello smartphone con quello della mia Olympus OM-D mirrorless, alla scoperta di immagini dense di pathos e meraviglia”.

Luisa, perdona la sfacciataggine, ma che ci fa una come te in mezzo alle vite imbruttite di ville, case di campagna e stanze impolverate… vivere nel passato che emozioni dà?
Devo dire la verità, io tra le macerie delle ville abbandonate, nelle stanze che sanno di polvere e dove tutto sembra non importare più a nessuno, mi trovo a mio agio. Sarà che vedo bellezza dove i più vedono semplicemente sporco, rotto e senza anima. L’emozione che provo quando riesco a entrare in un luogo abbandonato, sia esso una villa, una cascina, una scuola, un manicomio, un ospedale, una fabbrica o un ospedale, è molto forte, la sento addosso.
Mi sono documentato: I praticanti detti “urbexer”, cercano di catturare l’essenza di questi luoghi dimenticati seguendo la regola fondamentale del “non si lascia altro che impronte, non si porta via altro che fotografie”. Qual è stata la scintilla per questa avventura fotografica?
Penso che entrare nelle case dove un tempo hanno vissuto altre persone lo si debba fare in punta di piedi, in silenzio. E’ rispetto verso un luogo che è stato storia e vissuto di vite altrui che ora non ci sono più o che hanno deciso di lasciar andare senza prendersene più cura. La prima cosa che faccio quando entro in un luogo abbandonato è addentrarmi in ogni stanza possibile per respirarne l’essenza e sentire l’emozione che mi dà ciò che mi circonda attraverso gli occhi. E’ successivamente che prendo in mano la macchina fotografica per immortalare le stanze o i particolari che mi hanno colpito. Sono amante degli ambienti dalle tonalità tenui e dei soffitti affrescati. Sono bellezza e mi trasmettono un senso di delicatezza.

Insomma, come per l’amore, anche questa voglia di fare urbex è una forma di follia socialmente accettabile?
Sì, è una vera e propria “follia” perché fare urbex è una pratica non consentita, illegale. Le conseguenze potrebbero portare anche a risvolti spiacevoli. Molto spesso le condizioni delle dimore sono estremamente pericolose perché hanno spaccature dei pavimenti molto grosse o soffitti che stanno per cedere da un momento all’altro. Ma il mio punto di vista è un altro e cerco di spiegarlo con queste parole: le nostre esplorazioni non hanno per scopo quello di portare via qualcosa, bensì quello di immortalare ambienti che ai nostri occhi risultano zeppi di splendore. In questo modo, noi diamo ad essi la possibilità di vivere una seconda volta attraverso le nostre fotografie. Lasciamo tutto come lo abbiamo trovato. Quindi perché non accettare l’urbex?
Tra passione e ossessione c’è una sottilissima linea: c’è un filo rosso estetico tra questi luoghi? Un luogo costante?
La passione è qualcosa che si sente e che cresce sempre di più man mano che si vive una situazione o un’emozione forte. E io sento che fare urbex è diventato una parte di me che mi arricchisce e a cui non riesco a rinunciare.
Qual è il particolare delle stanze, dei mobili che ti piace di più?
A dire il vero sono amante del minimalismo, quindi una stanza vuota ma decorata da soffitti affrescati ed un pavimento dai colori caldi in mattone è per me di una bellezza infinita. Ma amo anche le stanze arredate con i ricordi di chi ci ha vissuto. Se vedo una vecchia macchina da scrivere tutta impolverata o una macchina da cucire ne subisco tutto il fascino.
C’è una casa, tra quelle che avete visitato e fotografato che ti è rimasta nel cuore per un dettaglio? O un luogo a cui sei più affezionata?
Sì, non è una casa e si chiama “Il castello di Zak”, ovvero un ex spazio industriale abbandonato che oggi è un vero e proprio museo a cielo aperto d’arte e street art. Si tratta di un’area vastissima di 18mila metri quadrati che accoglie murales meravigliosi, graffiti, sculture, quadri e opere d’arte di artisti provenienti da tutto il mondo. Io ci sono andata spesso all’ora del tramonto e l’incontro tra la luce del sole e i colori dei murales dà un effetto meraviglioso. La prima volta ero rimasta esterrefatta da quanta bellezza avessi davanti agli occhi tanto da promettermi di volerci tornare ancora. Ci viveva un sessantenne di origini tunisine, Zak, che faceva da custode e che ha fatto sì che quest’area diventasse una comunità di artisti. E’ un luogo di grande valore artistico per le sue opere. Detto questo, ci sono molti posti che ho esplorato e che vorrei vedere una seconda volta. Ma non per tutti purtroppo è possibile una seconda volta.

Un pezzo di design che secondo te manca nella tua dimora reale e che avresti voluto rubare a quelle vecchie case?
Be’ direi una bugia se dicessi che non avrei mai voluto portare via nulla da questi luoghi. Una volta ad esempio ho rubato un rocchetto di filo colorato di uno storico cotonificio. Ce ne erano talmente tanti e belli che non ho saputo resistere. Ma poi la seconda volta che sono tornata in quel posto l’ho voluto rimettere dove lo avevo trovato. Credo che rubare sia una forma di egoismo, quindi perché portare via una cosa che non ci appartiene…? Un’altra volta sono stata tentata di rubare da una casa di campagna ancora molto arredata dei quadri dipinti su tela che avrei esposto volentieri nel mio appartamento; un’altra volta ancora avrei portato via da una villa molto decadente un abito estivo trovato appeso sulla sua gruccia che mi sembrava proprio della mia taglia e di mio gusto. Ma come ho detto, non si porta via nulla, si guarda, si scatta e si va via…


Comunque nelle foto in cui ti si vede con e senza veli hai un non so che di seduzione e decorazione dell’ambiente. Sei un fiore che illumina la scena. A furia di immaginare e immaginarti si entra in un gigantesco caleidoscopio al punto che le pareti di colpo specchianti, sono perfette per un autoscatto stupefacente: la tua sola presenza riesce a riportare in vita un luogo abbandonato: come ti è venuta in mente questa idea?
L’idea di apparire nelle foto scattate da un fotografo in ambienti abbandonati è nata inizialmente per una mia curiosità, ma poi ho capito che il mio corpo poteva essere una forma d’espressione per buttare fuori i miei stati d’animo, mostrare la mia sensibilità e le mie fragilità emotive attraverso le pose. Trovarmi immersa in queste stanze vuote dalle tinte tenui mi ha sempre fatto sentire a mio agio e in armonia con i miei stati d’animo. E’ un dare e avere, un dono reciproco: io ridò vita a questi luoghi e loro permettono a me di esprimere la mia autenticità.
Se qualcuno volesse approfondire l’argomento dopo aver letto l’intervista, che cosa consiglieresti?
Innanzitutto sottolineerei il fatto che, sebbene l’urbex possa diventare una passione molto intrigante, essa è tuttavia esposta a molti rischi. Di conseguenza, è sempre bene fare esplorazione insieme a qualcuno che in caso di necessità ti possa aiutare. E’ una pratica che richiede molta attenzione per via dei pericoli che si possono incontrare, quindi suggerisco di essere sempre equipaggiati dell’attrezzatura giusta per esplorare in sicurezza (torcia, scarpe robuste e adeguate, abbigliamento lungo per proteggersi dai tagli e dai graffi, cellulare carico e con geolocalizzazione. Ma al di là di questi aspetti puramente pratici, cercherei di trasmettere il concetto che, trattandosi di proprietà private con divieto di accesso, il rispetto che si deve a questi luoghi deve essere sempre mantenuto al massimo. Noi possiamo lasciare solo impronte ma quello che vediamo deve rimanere al suo posto come lo abbiamo trovato.
Sono dell’idea che per affrontare un viaggio simile occorre tanta energia e la giusta dose di sprovvedutezza. Mi sbaglio?
Volevi dire incoscienza? A parte gli scherzi, non ti sbagli. Fare urbex non è una cosa che si improvvisa. Richiede un sacco di cose: tempo, organizzazione, attrezzatura, forza fisica, energia, attenzione e indubbiamente passione fotografica. Io dico che se pensi a tutti i pericoli e alle difficoltà che potresti incontrare, ti passerebbe la voglia di farlo. Ma tu e solo tu conosci le ragioni intime che ti portano a coltivare questa passione.
Zaino in spalla: qual è la cosa più pazza che ti è capitata in queste fughe del passato?
Mi è capitata una disavventura che con il senno di poi non vorrò mai più far capitare. Insieme ad altri urbexer mi ero nascosta dentro un armadio di una camera semibuia per non farmi vedere dai proprietari di una villa abbandonata che stavano arrivando. Senza il loro aiuto però non saremmo mai potuti uscire dalla casa perché avevano chiuso tutte le uscite possibili. E’ stata dura ma siamo riusciti a spiegare loro che eravamo nella loro proprietà in veste di fotografi e non per portare via qualcosa. Fortunatamente tutto si è concluso positivamente con la promessa ai proprietari di non tornare più nella loro dimora.
Non so tu, ma io faccio parte di quella generazione cresciuta a suon di slogan e di volontarismo esacerbato. “Impegnati e otterrai”. “Sforzati e capirai”. “Concentrati sul lavoro e avrai successo”. Illusione di un egoismo assoluto, come dicono alcuni. E poi scopro che tra i luoghi abbandonati, tra gli scarti di un luogo si può raggiungere la felicità. Indipendentemente dal valore del denaro e del potere. Morale della tua storia?
Credo che ognuno di noi, preso dagli impegni della vita quotidiana che ci vede sempre lottare per ottenere un obiettivo, abbia il bisogno di rifugiarsi in qualcosa che faccia battere il cuore. Sono le passioni, quelle in cui la testa si distrae completamente per rigenerarsi, per allontanarsi dalla vita reale e raggiungere un mondo dove riusciamo a non essere in competizione con nessuno e ad essere noi stessi. Valorizzati dalla propria passione e non dal potere e dal denaro.











 
		 
		