Jessica Mignano: I detenuti sono persone, soffrono, piangono, si pentono. Altre volte accettano semplicemente che la loro vita vada così

Jessica Mignano: avvocato penalista iscritto al foro di Napoli specializzato in reati informatici, reati contro il patrimonio e contro la persona. Laureata con una tesi in Diritto Penale Europeo e Internazionale dal titolo “Il principio di legalità in materia penale e le fonti europee”. Master conseguito in Discipline Economiche Statistiche e Giuridiche. Fondatrice del canale di divulgazione giuridica “La Giurista Online”. Offre consulenze online con pareri scritti, redazione di diffide, ricorsi, memorie, esposti, relazioni, denunce, consulenza finalizzata alle investigazioni difensive. Le persone non abbienti possono essere assistite presso lo Studio Legale Mignano accedendo al Patrocinio Gratuito presso uno dei nostri partner, ricorrendone i presupposti di reddito previsti dalla legge. Così giovane e così preparata: che altro aggiungere?

 

Avvocato Mignano che bisogna fare per rimettere ordine nelle carceri italiane?

La situazione in cui versa il sistema carcerario italiano è notoriamente complesso, difficile e a volte ai limiti della dignità umana. Ci si dimentica con troppa facilità che chi vive la realtà carceraria non è una persona senza identità, senza legami, senza una personalità ed una sensibilità. Il carcere non dovrebbe mai rappresentare una gabbia, anche se fisicamente lo è, ma un luogo di riabilitazione, recupero, in cui il detenuto dovrebbe avere la possibilità di maturare una coscienza ed una consapevolezza su quelle che sono state le cause che lo hanno condotto in quel luogo. Il carcere non dovrebbe mai essere il luogo in cui ci si scarica la coscienza agli occhi della società e si “rinchiudono” quelli che sono scomodi, i “cattivi”. Questo ovviamente non vuol dire che non vi sia nulla che funziona ma solo che la situazione è molto complessa e dovrebbe essere una priorità parlarne e trovare delle situazioni concrete. Si parla di giorni, mesi, anni di vita che non torneranno più e se non diamo la possibilità a queste persone di recuperare, anche per così dire “redimersi”, cosa stiamo facendo?

Dovremmo innanzitutto partire dal concetto di “carcere” e di come viene percepito anche dall’opinione pubblica. Chi non ha mai visto questa realtà la percepisce come un mondo lontano, estraneo, quasi scomodo. Tante volte mi sono sentita dire “Ma come fai? Come fai a difendere certa gente”, ma qui si aprirebbe un altro filone a cui andrebbe dedicata un’ampissima riflessione. Questo per dire che se non iniziamo a maturare una idea consapevole della realtà carceraria, se ci rifiutiamo di aprire gli occhi non potremo mai intervenire anche fattivamente. Chi giocherebbe mai la propria reputazione per una battaglia così spinosa? Più facile occuparsi di temi cari alla massa, di temi meno scomodi, di temi di facile gestione e condivisione. Chi vorrebbe ingaggiare una battaglia pubblica a sostegno dei detenuti? Ovviamente mi riferisco a chi avrebbe il potere di fare qualcosa di concreto, di investire per migliorare anche solo le strutture, renderle più moderne, sicure e meno degradate. Per poi passare ad un aspetto ancor più importante ossia il benessere psicofisico dei detenuti, che di fatto sono abbandonati.

Dal suo punto di vista le priorità più urgenti?

E’ necessario partire dal presupposto che non tutti i detenuti sono in carcere perché già condannati. Nonostante la custodia in carcere dovrebbe essere l’extrema ratio c’è un abuso di tale misura che si trasforma di fatto in una anticipazione della pena nella sua forma più dura, senza di fatto che il soggetto sia stato già condannato. Questo ci porta ad altri due grandi temi, l’abuso di tale misura cautelare e l’innumerevole quantità di casi di ingiusta detenzione, con indennizzi a carico dello Stato che toccano somme da centinaia di milioni di euro. Dunque, ci imbattiamo in un sistema che non funziona e che ha tra le sue conseguenze un assurdo peso economico a carico dello Stato (e quindi a carico di ogni cittadino) che può essere compreso anche dai non tecnici. Tuttavia non è questo l’aspetto più importante, ma pensiamo alla vita rubata. Ogni caso di ingiusta detenzione non è solo un risarcimento che lo Stato deve corrispondere, ma sono pezzi di vita sottratti, anni che non torneranno più, tempo ingiustamente perso e che nemmeno somme esorbitanti a titolo di risarcimento potranno restituire.

Basterebbe davvero poco per immedesimarsi, immaginate di essere privati della libertà e quanto possa essere atroce. Ora fate un ulteriore passo, immaginate di essere privati della libertà ma di essere innocenti. Come potrebbe un risarcimento compensare una tale perdita? Per non parlare della gogna, dell’onta a cui sono sottoposte le persone che hanno avuto un’esperienza carceraria.

I problemi sono tanti e già da questa nostra breve riflessione si possono intuire i molteplici rami in cui si sviluppano. Volendo circoscrivere la nostra analisi a due aspetti, direi che i problemi sono sia le strutture che le condizioni in cui vivono i detenuti.

A Napoli, dove esercito in maniera prevalente la professione, c’è la casa circondariale di Napoli Poggioreale che è notoriamente un carcere difficile, fatiscente, obsoleto, dove i detenuti non hanno sufficiente spazio, dove c’è sovraffollamento e le condizioni sono complesse. Tuttavia questa non è una realtà isolata, queste situazioni costellano il nostro paese da cima a fondo.

I detenuti hanno spesso difficoltà di assistenza anche medica per non parlare delle condizioni di stress psicologico. Credo sia davvero fondamentale uscire dall’ottica che se sono lì se lo meritano e quindi non hanno il diritto di vivere dignitosamente. Sono persone, ognuna con una storia diversa e, così come per il mondo dei “liberi” , ognuno è diverso dall’altro. C’è chi ha un carattere più irruento, chi ha commesso un errore, chi delinque perché non ha mai avuto la possibilità di scegliere realmente, chi non credeva di avere alternative ed anche chi delinque per scelta. Non possiamo banalizzare la natura umana, sono persone e come tutti meritano di vivere dignitosamente, anche se detenuti. Rinchiuderli in quattro mura e credere ingenuamente di aver risolto il problema tradisce uno dei principi cardine del nostro ordinamento che è la funzione rieducativa della pena, non vendicativa, non meramente afflittiva ma rieducativa, di recupero del reo, di reinserimento sociale. Dovremmo muoverci nel senso di rendere quanto più possibile questo principio concreto e non lettera morta, investendo nell’ammodernamento delle strutture, offrendo costante e reale assistenza medica e psicologica ai detenuti, creando degli ambienti stimolanti e che possano offrirgli delle alternative lavorative e formative serie. Altrimenti li perderemo, molti usciranno e torneranno a delinquere e questo è un fallimento dello Stato e della società tutta.

 

William Faulkner sosteneva che l’unica cosa di cui valga la pena scrivere è il cuore umano in conflitto con se stesso. Penso che in una cella ciò sia davvero visibile. Il comandamento fondamentale, non uccidere, in carcere non vale: rinunciamo all’umanità in nome di una giustizia, spesso cieca. Il suo pensiero in proposito?

La realtà carceraria è dura per chi la vive da detenuto e anche per chi ci lavora. Ci sono tantissimi agenti di polizia penitenziaria dediti al loro lavoro, che svolgono con dignità e professionalità. E’ un lavoro complesso, non è per tutti. E’ necessaria empatia, umanità senza perdere autorità che però non deve scivolare in abuso di potere. Bisogna instaurare col detenuto un rapporto in costante equilibrio tra il rispetto per la persona e la tutela e la vigilanza della popolazione carceraria.

C’è un problema di sovraffollamento e di malessere diffuso che si sta manifestando con un costante e preoccupante incremento dei suicidi in carcere. E’ recente la notizia dell’ultimo suicidio, un giovane di trent’anni trovato morto impiccato nella sua cella proprio a Poggioreale. Un giovane uomo, con degli affetti ad attenderlo (una moglie e due bambini), che rappresenta l’ottantesimo suicidio in carcere del 2022. Ottanta, non un numero ma vite spezzate. Persone che si sono tolte la vita in istituti che dovrebbero accompagnarli in un percorso di rieducazione, un luogo dove scontano sì una pena ma che non dovrebbe mai generare una condizione di malessere tanto forte e devastante da portarli a scegliere la fine. Riusciamo a renderci conto della gravità di questa situazione? Di quanto allarme sociale dovrebbe destare? Di quanto sia grande il fallimento di un sistema che spezza le persone al punto di indurli ad un gesto tanto estremo? C’è un silenzio assordante sul tema, meglio chiudere gli occhi, meglio non vedere e non sentire. C’è un vuoto quando si parla dei detenuti, gli ultimi, i dimenticati, quelli cattivi, quelli che se lo meritano, quelli irrecuperabili, quelli che non sono degni dell’attenzione del mondo dei “liberi”, quelli che “buttiamoli in cella e gettiamo le chiavi”. Se loro sono i cattivi, cosa siamo noi che scegliamo consapevolmente di ignorarli? Nemmeno la dilagante situazione dei suicidi sembra scuotere la coscienza collettiva, tanto uno in meno meglio così. E quando la società è insensibile agli ultimi, quando non concede seconde possibilità, quando diventa vendicativa e perde di umanità dobbiamo chiederci se davvero siamo migliori di quelli che hanno commesso dei reati, per quanto gravi possano essere. Finiamo per divenire i carnefici di quelli che consideriamo i “cattivi”.

Purtroppo tanti non capiranno le mie parole e crederanno che da avvocato penalista sia quasi mio dovere erigermi a garante dei detenuti, ma vorrei davvero che si capisse che, al di là del giudizio morale sui singoli detenuti, il carcere è luogo di grande sofferenza e non è questo il suo scopo e noi non dovremmo mai diventare pericolosamente insensibili al dolore altrui, un malessere tanto grande da spingere i detenuti al suicidio. Questo a volte accade anche con i minori e lì il fallimento è ancor più palese ed immensamente sconcertante.

 

Il mio modello di onestà e legalità è Giorgio Ambrosoli: come non rimanere affascinati per la sua fedeltà a un incarico professionale portato avanti con rigore sino alla fine, ma anche la sua ricerca di una vita “normale”, di famiglia e di affetti…

Spesso si parla dei rischi a cui si espongono i magistrati ignorando come anche la figura dell’avvocato sia a rischio. Quando si assume un incarico non si sta solo acquisendo un “cliente” bensì un assistito, che affida all’avvocato le proprie speranze, le proprie paure, la propria vita. Un avvocato ha un enorme responsabilità, un errore può innescare dei meccanismi che potrebbero compromettere la difesa dell’assistito, una distrazione potrebbe spingere il processo in un senso o nell’altro, si assume su di sè un carico emotivo ingombrante che va gestito con non meno cura attenzione del lato tecnico, senza permettere al primo di ostacolare il secondo ma senza poterlo ignorare perché abbiamo tra le mani il futuro dei nostri assistiti.

Troppo spesso c’è sovrapposizione tra il difensore e il suo assistito e il giudizio negativo che istintivamente la società riserva agli indagati (ancor prima di imputati) travolge anche l’avvocato. Ed è così che il penalista diventa il difensore dei criminali, quello che fa assolvere i delinquenti, quelli che peggiora la società per lavoro, quello che senza scrupoli né onore lotta per i “colpevoli”. Ecco, i colpevoli perché c’è una distorsione nel pensiero comune, una malsana idea che un soggetto anche se solo sottoposto ad indagini sia già sicuramente colpevole. Arriviamo in un attimo alla condanna, senza conoscere nulla, senza aver letto gli atti ma solo perché sottoposto ad indagini. Da indagato a criminale con sentenza passata in giudicato in un attimo, basta anche solo l’apertura delle indagini e la società ti ha già classificato e condannato.

Questa visione patologica e distorta di natura giustizialista non ci permette di preservare il senso stesso della giustizia che si fonda sulla famosa, e spesso dimenticata, presunzione di innocenza. Un soggetto non è colpevole fino a prova contraria ma esattamente l’opposto.

Tutto questo rende ancor più difficile il ruolo dell’avvocato, soprattutto penalista, che deve imparare a gestire il pregiudizio che le persone provano per il suo lavoro e che finisce per essere un giudizio che si estende al professionista stesso.

Ma chi è questo avvocato penalista? A me piace pensarci come i garanti di un sistema democratico, di un processo giusto e quanto più equo possibile. Non sempre ci riusciamo ma è questa la nostra missione: non batterci per far prevalere l’ingiustizia, liberare i colpevoli e ostacolare la verità bensì far si che la verità giudiziaria sia quanto più vicina alla realtà dei fatti, garantire che la condotta sia equa, evitare che persone innocenti siano condannate, tutelare gli assisti da devianze e abusi di potere. Noi siamo dei garanti, non siamo dei burattini nelle mani dei nostri assistiti. Abbiamo una coscienza, una dignità ed un onore e questo non cozza con la tutela di chi è indagato o imputato per qualsivoglia reato.

C’è un costo da pagare ed è quello dell’incomprensione riservataci da chi non capisce la nostra professione, talvolta dagli assistiti che credono di non essere stati adeguatamente assistiti anche quando abbiamo fatto del nostro meglio oppure il pregiudizio che talvolta si può anche ricevere dalle forze dell’ordine quando in aula si mette in discussione l’impianto accusatorio.

E’ una professione bellissima ma complessa, che spesso ti mette a dura prova sia fisicamente che psicologicamente e che, talvolta, ti espone a dei rischi come quelli assunti dal collega Ambrosoli.

Come è stato il suo impatto con l’umanità che popola i tribunali?

Ricordo la primissima volta in un’aula di tribunale, era innanzi al Tribunale del Riesame. Presso il tribunale di Napoli c’è un’aula di attesa per poter poi accedere all’aula effettiva dove c’è il collegio giudicante. Entrata in aula la prima cosa che vidi, imponente e ingombrante, fu la gabbia. A lato, sulla destra, c’è questa gabbia, tipica delle aule penali, in cui i detenuti assistono ai loro processi. Vederla per la prima volta è stato un colpo al cuore, sembra un po’ una vetrina d’esposizione. Credo potremmo trovare una situazione più dignitosa ed umana per permettere ai detenuti di assistere alle udienze. Per non parlare dell’aula bunker di Poggioreale, fatiscenza a parte, ti ritrovi circondato di gabbie che alle tue spalle coprono tutta la parete, dove fa caldo in estate e freddo d’inverno e dove i detenuti assistono per ore alle udienze rinchiuse in queste maxi celle.

C’è una verità che ha imparato frequentando il carcere o il tribunale?

Assolutamente si, i detenuti sono persone, soffrono, piangono, si pentono e altre volte accettano semplicemente che la loro vita vada così. C’è una varietà infinita di storie, caratteri, persone ed è davvero assurdo credere di poter liquidare un intero spaccato di società con l’etichetta “cattivi”. Ho conosciuto giovani che con spirito goliardico avevano commesso dei piccoli reati, senza pensarci, per poi piangere disperatamente per la vita in carcere, impauriti ed impietriti per l’esperienza vissuta, supplicando di poter uscire e giurando di non volerci mai più mettere piede. Altri, invece, che con consapevole accettazione e rassegnazione scontavano una pena lunga, nell’ottica di una vita spesa così in un’altalena tra libertà e carcerazione, a volte per aver commesso dei reati per mantenere la propria famiglia, ma c’è anche chi vive il carcere come un’esperienza da “duri”, quasi una medaglia da appuntare sulla giacca.

Come tra i “liberi” c’è chi è arrogante, chi sbaglia ma si pente, chi è devoto alla propria famiglia, ecc così tra i detenuti ci sono persone, ognuna delle quali nasconde un mondo. Ho conosciuto persone detenute dotate di una gentilezza ed un’umanità davvero rare.

Ciò che vorrei che si capisse è che i detenuti non sono tutti uguali ed anche quello più determinato a non aderire ad un piano di riabilitazione merita rispetto e condizioni di vita (e detenzione) umane e dignitose. Nessuno merita di morire in carcere, per quanto riprovevole possa essere il reato commesso. Molti pensano “E se avesse ucciso una persona a te cara?”, è vero, è complesso ma se emotivamente è uno sforzo impossibile da chiedere, razionalmente dobbiamo farci carico della responsabilità di capire che la vendetta genera odio e l’odio è incompatibile con ogni forma di rispetto e dignità umana.

Può raccontarci qualche storia senza ovviamente violare la privacy?

Ricordo un assistito che mi è rimasto nel cuore per la sua tranquillità, gentilezza e triste rassegnazione. Scontava una pena per spaccio di sostanze stupefacenti ma aveva un trascorso di reati, per così dire, “minori”. Abbastanza grande d’età, mi parlava con gentilezza e con lo sguardo di chi sa che la maggior parte della propria vita è andata ed è stato un susseguirsi di brevi periodi di libertà alternati a lunghi periodi di detenzione. Mi raccontava che non aveva mai ricevuto un’istruzione, che da giovane non aveva un lavoro e nel quartiere lo avevano invitato a prendere parte a piccoli “affari”. Ha iniziato con cose “semplici” che l’hanno portato alle prime esperienze carcerarie. Mi raccontava di avere mogli e figli, ormai grandi, e che aveva provato a “comportarsi bene”, a “seguire le regole” ma dati i suoi precedenti non riusciva a trovare lavoro e finiva inevitabilmente per trovare aperte solo le porte della criminalità. Mi parlava con voce pacata e sguardo rassegnato, come chi accetta il prezzo per aver commesso dei reati ma con una luce che emergeva dai suoi occhi solo per ribadire che la vita era andata così anche se lui ci aveva provato davvero a cambiare. La società l’ha rimbalzato, rifiutato, considerato non meritevole di una seconda opportunità.

Vi racconto questa storia, tra tante, perché questa è una persona di una gentilezza che mi è rimasta nel cuore. Sono sicura che se le cose fossero andate diversamente oggi avremmo avuto un detenuto in meno ed un lavoratore libero in più. Non tutti cercano e vogliono riabilitarsi, alcuni scelgono liberamente di delinquere anche una volta liberi, ma ci sono tante persone che non possono scegliere. Se lo scopo della pena non è meramente afflittivo ma anche rieducativo, come facciamo a rieducare chi non ha speranza? Chi viene emarginato, etichettato e ghettizzato? Qual è questo reinserimento sociale di cui tanto si parla? Il sistema fallisce e lo fa costantemente ma non interessa a nessuno.

La cosa più difficile di queste storie drammatiche è che non sono mai finite…

Ci sono tante storie di dolore, di sofferenza inascoltate. La tragedia che colpisce un singolo detenuto coinvolge tutti i suoi cari e innesca una sfiducia nello Stato, nella giustizia, nella società. Si rischia di generare frustrazioni e senso di impotenza che in un circolo vizioso può portare a ulteriori atteggiamenti ritorsivi, di insubordinazione e assenza di fiducia nella società.

 

Il coraggio di mettersi a nudo per chiedere perdono alla vittima è amore o solo convenienza?

Questo è un percorso interiore inimmaginabile. Non credo si possa rispondere da spettatore esterno. Anche qui voglio operare una distinzione, ci sono persone che non provano mai rimorsi e lì potrebbe, ma non è certo, scattare un meccanismo di preservazione del sé che potrebbe portare ad una richiesta di perdono per convenienza, ma non è a mio avviso l’ipotesi più diffusa. Potrebbero esserci delle finte prese di coscienza ma solo per reati di lieve entità e che non danneggiano seriamente un soggetto. Ma se parliamo di vittima nel senso comune del termine no, il perdono non è quasi mai convenienza. Ci vuole tanto coraggio a mostrare le proprie vulnerabilità pubblicamente, a deporre la maschera e chiedere perdono, ammettere i propri errori, esporsi al giudizio di chi è stato colpito e ferito dalle proprie azioni. Non è facile esporsi, ammettere di aver sbagliato e chiedere perdono. Significa rimettersi totalmente al giudizio altrui, mostrare tutta la propria vulnerabilità e affidarsi completamente ad altri nella speranza di una clemenza che forse si crede di non meritare ma di cui si ha bisogno per fare pace con sé stessi. Sono processi psicologici estremamente complessi e spesso i detenuti non hanno la sufficiente assistenza per intraprendere percorsi tanto difficili e quando sono soli può capitare che il rimorso sia tanto grande da condurli a scelte drastiche.

La voglia di riscatto è così impossibile per un detenuto?

Molti hanno voglia di riscattarsi ma, come ho già detto, spesso si imbattono in un muro invisibile agli occhi ma estremamente concreto, innalzato dalla società. Raramente ai detenuti viene concessa realmente una seconda chance, una possibilità concreta di trovare un lavoro gratificante e che gli consenta di buttarsi alle spalle il passato. Una sentenza di condanna non si limita agli anni di detenzione, è una condanna a vita che segue il detenuto ovunque vada e con chiunque interagisca. E’una condanna ad essere un emarginato, a non avere un lavoro stabile, a non avere aspirazioni. Si viene isolati e spesso il riscatto viene trovato erroneamente avvicinandosi all’unico mondo che raramente chiude le porte: la criminalità.

Quanto guardi a lungo l’abisso, l’abisso ti guarda dentro, diceva Nietzsche. Come riesce a restare immune nonostante quello che vede?

Ritengo che quella dell’avvocato penalista sia una missione più che una professione. Si deve lavorare molto su di sé, essere pronti a prendersi a cuore le vicende degli assistiti ma porre quella barriera che ci consente di essere lucidi, razionali e anche calcolatori perché la difesa è strategia, studio, previsione delle possibili conseguenze di ogni scelta posta in essere. E’ difficile non farsi toccare da certe realtà ma dobbiamo indossare una corazza e pensare con la testa. E’ necessario imparare a gestire le emozioni, trovare quel sottile equilibrio che ci consente di non lasciarci travolgere da tutto quello che potremmo vedere.

Tutta la nostra attività si basa sulla fiducia, l’assistito ci sceglie come suoi difensori, si mostra a noi senza barriere. A volte non subito perché la fiducia va guadagnata, è una conquista non una concessione. Ed in questo processo non possiamo avere tentennamenti, mostrare debolezze, dobbiamo trasmettere, per quanto possibile, serenità al nostro assistito, essere confidenti ma senza farsi coinvolgere al punto di compromettere la qualità della nostra difesa. Sono nostri assistiti e questo basta a renderci consapevoli del grande e delicato ruolo ricoperto, non è necessario che diventino nostri amici. Così come il chirurgo è più sicuro e lucido se opera un paziente e non un amico, così l’avvocato penalista deve ragionare in termini di empatia ma non di amicizia, altrimenti ne soffrirebbe la necessaria razionalità che serve per non farsi schiacciare dal timore di condannare un soggetto ad una pena che non merita o no aver fatto tutto il possibile per migliorare la sua condizione. Si è alla costante ricerca di un giusto equilibrio tra mente e cuore.

A suo parere il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, saprà trovare le soluzioni?

Mi auguro di sì ma mi sembra giusto non esprimere un giudizio ex ante. E’ un tecnico, un uomo che ha una forte e concreta esperienza alle spalle. Spero che sappia vagliare e farsi carico delle grandi problematiche di cui sono sicura avrà già conoscenza e consapevolezza.