IL LIBRO DA LEGGERE: VITE SEGRETE, Il sistema clericale

NOVITA’ EDITORIALE

 

“VITE SEGRETE”

Il sistema clericale

di ANDREA FILLORAMO

Casa Editrice BooKsprint

Prefazione di don Ettore Sentimentale

ESTRATTO  DA “ VITE SEGRETE”

 

“Nessuno diceva che il disprezzo del corpo è una vergognosa menzogna, un’ipocrisia intollerabile. Si sa che spesso le menzogne le troviamo al centro di eventi storici anche importanti, ma la bugia, costruita per motivi autolesionistici, è un fatto impensabile e incomprensibile. Non si riesce, infatti, a capire come è possibile per un uomo normale e non colpito da determinate patologie, disprezzare, cioè misconoscere, svalutare, il proprio corpo e la propria sessualità. Com’era possibile, altresì, la fobia ingiustificata per la donna che per qualcuno diventava anche patologica, addirittura ginofobia? La ginofobia è una paura persistente e ingiustificata delle donne, che è di tutti quelli che non sanno porsi davanti a lei se non in termini di eccitazione sessuale e non vedono in lei una possibile amica, compagna, sorella o figlia. Non dobbiamo, del resto, meravigliarci più di tanto, se leggiamo quanto scrisse Sant’Agostino, Padre della Chiesa, che visse nel V secolo e cioè: “Le donne andrebbero segregate perché sono causa delle involontarie erezioni degli uomini santi”. E’ questo – diciamolo pure – un pensiero circolante oggi, fortunatamente non fra tutti, ma sicuramente nella cerchia di alcuni preti, che a volte lo esprimono, anche se a voce molto bassa, per farsi ascoltare soltanto da quanti condividono questa sicura patologia, che è alla base di quello che oggi è il fenomeno del femminicidio!”

Qualunque opera creata dall’ingegno umano non nasce per caso, senza, cioè, un intento e uno scopo da raggiungere. Quale è l’idea di base e, quindi, lo scopo per il quale ha scritto “Vite Segrete”?

In “Vite Segrete”, edito dalla Casa Editrice BookSprint, ho cercato di far luce – e questo è stato lo scopo principale che mi sono prefisso – sul “clericalismo”, che è da considerare il “cancro”, di cui la Chiesa non riesce a liberarsi, che sta alla base di quello che ho chiamato nel sottotitolo il “sistema clericale”, che Papa Francesco ha accostato alla “corruzione, che soffoca la coscienza, ne fa tacere la voce, la violenta nella sua dimensione più intima”.

Da quale avvenimento o fatto ha preso spunto nello scrivere “Vite Segrete”?

“Vite Segrete”, è un romanzo che, come si legge nel “Proemio”, prende spunto dall’amara constatazione delle “nefandezze” sessuali di preti, vescovi e cardinali, cioè di membri anche molto in alto nella gerarchia della Chiesa Cattolica, che tanto turbano i credenti. Esso si è avvalso della conoscenza non superficiale della realtà del clero che a tanti è tenuta nascosta, segretata e che, con il mio scritto, ho voluto, solo in parte, rivelare.

Guardando a quelle che lei chiama “nefandezze” sessuali del clero cattolico, la sua attenzione si è rivolta in particolare verso un episodio, un fatto, uno scandalo sessuale clericale, di cui è venuto a conoscenza? 

Certamente! Nello scrivere “Vite Segrete” ho rivolto la mia attenzione particolarmente verso uno scandalo sessuale clericale, vero o presunto, di cui tanto si è parlato nei giornali, che mi ha dato la possibilità di analizzare le ragioni del fenomeno legato alla sessualità dei preti.

Il fatto narrato dovrebbe trovare la sua naturale collocazione in pagine di cronaca scandalistica. Quali sono i motivi per i quali esso assume per lei la forma del romanzo?

Per natura e per cultura non amo scrivere su fatti scandalistici, né ho la tendenza, propria di tanti, di indagare su tali avvenimenti o addirittura di evidenziare aspetti e particolari per suscitare la curiosità molto spesso morbosa. Sono convinto, tuttavia, che i fatti riprovevoli concernenti i preti, i vescovi e i cardinali, veri o falsi che siano, come tutti gli altri fatti di uguale natura riferibili ad altre categorie di persone, possano sollecitare la fantasia, dando spazio alla dimensione propria del romanzo e, così, con la fantasia, l’immaginazione senza liberarsi completamente dalla realtà, diventa creativa.

Come avviene questo processo che conduce alla scrittura di un romanzo, che pure rimane un romanzo verità?

Esso – lo dico in breve – si avvale delle immagini mnemoniche, che trasforma a proprio piacere.  È l’arte della memoria o memoria artificiale, infatti, che ci fa riappropriare dei fatti accaduti a noi o agli altri di cui siamo stati spettatori. La “memoria rerum” cioè la “memoria delle cose”, si lega, allora, strettamente alla “inventio”, alla capacità, cioè, di trovare il materiale utile, i temi e le argomentazioni che servono per dimostrare un messaggio, implicito nel romanzo stesso.

Si può affermare, quindi, che il romanzo sia incentrato su dei ricordi cioè sulle certezze che questi possono dare. Esso, perciò, è da considerare un Romanzo non disancorato dalla vita.

È proprio così. È viva fin dall’antichità la consapevolezza che il ricordo non è puramente passivo, ma comporta un’attività della mente, oltre che, spesso, un coinvolgimento emotivo. Bisogna andare alla caccia dei ricordi, creando reti, quasi trappole per imprigionare ciò che sfugge. In un passo famoso della sua operetta sui meccanismi della memoria. In “De memoria et reminiscentia”, Aristotele s’interroga sui modi in cui, spontaneamente, la nostra mente richiama alla memoria le cose che possono sfuggirle. Tutto procede, egli dice, grazie alle associazioni: un ricordo ne richiama un altro, l’immagine di una cosa ne trascina con sé un’altra se c’è tra le due un rapporto di somiglianza, oppure di contrarietà, oppure di contiguità.
Se l’autobiografismo, cioè la tendenza a fare delle esperienze della propria vita la fonte prima di ispirazione delle proprie opere è rintracciabile in “Vite Segrete”, le chiedo: quanto c’è di autobiografico nel suo Romanzo?

Non è difficile dedurre dalla sua lettura che in esso ci sia qualcosa di autobiografico, che si riscontra particolarmente in qualche personaggio. Sono convinto che tutte le esperienze che abbiamo possono diventare per noi e per gli altri “Storie” che nascono, che si trasformano nel loro procedere, che vorremmo far conoscere. Come in una fiaba, ciascuno di noi, infatti, vive la propria vita e le proprie esperienze e, inoltre, le proprie relazioni, appartenenti ad un mondo interiore, dove realtà, pensieri e fantasia spesso si fondono, condizionando scelte ed emozioni, sensazioni, pensieri e considerazioni, ritenuti, a torto o a ragione, condivisibili.

Mettere sulla carta parte delle vicende personali, di cui si è fatta esperienza, è da molti ritenuta un’azione liberatoria.

Certamente! Scrivendo ciascuno di noi compie un’azione terapeutica, liberatoria, perché butta fuori tutto quello che non è riuscito a esorcizzare fino a quel momento. È questa sicuramente una valvola di sfogo per quelle emozioni represse, che sono quelle a cui non vogliamo dare ascolto o alle quali diamo spesso una vaga importanza; esse, tuttavia, assumono grande forza e finiscono per guidare i nostri comportamenti e i nostri pensieri. È forse questa la ragione più vera che mi invita a non abbandonare mai la scrittura.

L’oggettività del racconto, quindi, si incontra con la soggettività.

È proprio così. L’oggettività dei fatti narrati si misura sulla soggettività. La narrazione, quindi, diventa proposta di valori attraverso l’interpretazione delle esperienze avute. Per passione, la mia attenzione è attratta sempre da un particolare modo di comunicare con immagini che utilizzo, quando desidero trasformare in parola e, quindi, in uno scritto, un mio sentire, un’emozione, una percezione, una riflessione: i contenuti di “Vite Segrete” e, quindi, i personaggi veri o inventati e i simboli racchiusi, sono aspetti e visioni parziali della mia psiche. Sono convinto che determinati desideri, aspirazioni, bisogni, sono aspetti dell’anima, spesso anche in conflitto tra loro, che sono tutti espressi in senso figurato negli stessi personaggi, verso i quali non c’è alcun distacco Essi sono talvolta in rapporto armonioso fra loro e talvolta in conflitto con la funzione cosciente dell’Io.

La lettura di “Vite Segrete”, conduce ad una constatazione: la narrazione dei fatti si accompagna ad analisi psicologiche, sociali, che diventano, come lei dice nel già citato proemio, “un libro nel libro”, che è quasi un “mini trattato didattico- espositivo” della vita dei preti.

È questo un aspetto da tenere particolarmente presente nella lettura. Nel romanzo, infatti, i temi si staccano talvolta, attraverso la voce narrante, dai contenuti fantastici o reali, divenendo oggetti di analisi, che si diluiscono in tutto il testo, concernenti l’ambiente in cui essi si svolgono, il gruppo sociale al quale i protagonisti appartengono, le aspettative che da essi possono scaturire.

Nel suo Romanzo, pur concedendo molto spazio alla fantasia, parlando dei preti, da quel che facilmente si constata, lei si attiene ad alcuni aspetti storici verificabili.

Per questo “Vite Segrete” è un romanzo-verità. Quando parlo dei preti, mi riferisco quasi sempre a persone storiche, in carne e ossa, forse a preti che io ho conosciuto, con i quali ho avuto probabilmente dimestichezza, che inserisco in un processo narrativo che, per motivi di privacy, può essere  decostruttivo, parziale, fantastico ma non irreale, ma che in ogni caso espressione di un gruppo e con una vita, di cui tanto si parla e che ritengo non  più tollerabile tenere segreta, nascosta, con volti coperti da maschere, che denunciano l’ipocrisia di quanti amano non farsi vedere e conoscere per quelli che sono veramente.

Crede che il mondo dell’editoria e quello clericale, daranno al suo romanzo, dati i contenuti molto “forti”, una buona accoglienza?

Non so se il mio romanzo avrà una buona accoglienza, ma ovviamente lo spero. Il mondo dell’editoria, infatti, è molto strano, come è strano e difficilmente controllabile quello dei lettori. È ancora molto più particolare il mondo dei preti, che, da quel che mi risulta, è poco incline alla lettura di scritti non clericali, ritenuti, perché, “laici” inadatti e che, quindi, mentalmente e talvolta anche verbalmente, tende a censurare. Spero soltanto che il mio lavoro, quindi, non sia una “voce nel deserto”: esso non è il risultato di alchimie commerciali, tant’è che cederò, come ho fatto per le mie più recenti opere, i diritti d’autore a chi ha bisogno,  Sono sicuro, però, che il contenuto di “Vite Segrete” trovi accoglienza in chi, non per malsana curiosità ma per desiderio di conoscenze, vuole “togliere il velo” che copre il volto di quanti appartengono ad un’interessante categoria sociale di cui l’uomo moderno, al di là del suo credo, non può fare a meno.

Scrivendo “Vite Segrete”, quindi, lei, attribuisce al prete una funzione sociale, riconoscibile anche dai non credenti?

Sono fortemente convinto che la società italiana, per la sua stessa storia, non può essere immaginata senza la presenza dei preti cattolici, che costituiscono sicuramente, nel bene e nel male, un carattere peculiare della cultura del territorio. Essi, al di là delle loro debolezze, dovute alla loro appartenenza ad un sistema clericale secolare in cui vivono ed operano e anche al di là dei loro umani “traviamenti”, la cui responsabilità morale è sempre imputabile ad ogni singolo prete, godono dell’apprezzamento, della simpatia da parte di tutti. Essi, tutto sommato, hanno un prestigio che si sono meritati, anche se i pregiudizi, gli equivoci, le scorciatoie banalizzanti intrisi di invettive di un anticlericalismo d’altri tempi nei loro confronti sono sempre dietro l’angolo.

Quali possono essere le “consegne”, cioè i “compiti” che la lettura del romanzo potrebbe assegnare ai lettori, se preti?

“Vite Segrete” come si legge nelle prime pagine, è dedicato “a quanti condividono con me l’impegno e la lotta contro le menzogne e l’ipocrisia”. Spero che i preti riescano a liberarsi dall’ossessione moralistica di stampo medievale, ovvero di quell’atteggiamento prettamente clericale che li pone più di un palmo al di sopra degli altri, che fa vedere la pagliuzza nell’occhio di chi sta accanto e dimentica la trave che è presente nei loro occhi. Scrive il Cardinale Ravasi, rivolgendosi particolarmente ai sacerdoti: “Negli ambienti ecclesiali, ci imbattiamo in questi occhiuti e farisaici censori del prossimo, ai quali non sfugge la benché minima pagliuzza altrui, si crogiolano nel gusto sottilmente perverso di sparlare degli altri e si guardano bene dall’esaminare con lo stesso rigore la loro coscienza, inebriati come sono del loro compito di giudici”.

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