
Per parlare di diritti per IMG Press il modo migliore è partire da due storie: quella di Rosa e Annalisa. Due donne siciliane, due professioniste, due combattenti che quotidianamente si impegnano per tutelare gli interessi dei loro clienti. Rosa Guida e Annalisa Nocera sono due avvocate dal cuore pulsante che hanno accettato di raccontarci le passioni che girano intorno al Diritto. In un Paese che vive un periodo di confusione è arrivato il momento di fare chiarezza e dare certezze a chi vive un senso di inadeguatezza nei confronti delle istituzioni, del lavoro e della vita in genere.
Sfidando l’afa per votare ai referendum c’è chi è convinto che così facendo si potrà scegliere il proprio governo: non immaginiamo che sarà così ma chi siamo noi per negare ai tanti la speranza di un domani migliore? Le storie e le parole di Rosa e Annalisa sono rivelatrici di una energia mai sopita delle donne siciliane – più che gli interventi sul palco – fanno fede l’opera quotidiana di chi mette a disposizione degli altri la propria storia personale e professionale. Quello che abbiamo capito che bisogna esercitarsi ogni giorno a riconoscere sé stessi e il bene dell’altro come fine. Questo è il cuore del problema quando si parla di diritti negati: riconoscere e accettare la dignità e l’autonomia dell’altro e dell’umanità in ciascuno di noi.
Avv. Rosa Guida: Laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Palermo, oggi Avvocata amministrativista e immigrazionista iscritta al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese. Ha maturato esperienza in particolare nell’assistenza ai candidati a concorsi pubblici per ricorsi innanzi al Tar e nell’ambito del diritto urbanistico. E’ componente del Coordinamento nazionale Diritti sociali, economici e culturali di Amnesty International Italia. Ha svolto attività di consulenza legale per migranti presso la Clinica Legale per i diritti umani e Caritas. E’ stata Redattrice presso il giornale “Eco Internazionale” per la rubrica “Stay Human” e “Diritto ed Economia”. Esercita la professione a Bagheria e a Palermo.
Avv. Annalisa Nocera: Laurea in Giurisprudenza – Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico presso l’Università di Roma LUISS Guido Carli.
Avvocato iscritto al Foro di Agrigento, ha maturato esperienza in diritto penale e responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato, fornendo assistenza e consulenza a persone fisiche e giuridiche, anche di nazionalità estera. È esperta nella redazione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lgs. 231/2001 ed è componente di Organismi di Vigilanza. Presta assistenza, altresì, a soggetti stranieri che desiderano acquistare immobili in Italia ed è la professionista di riferimento per molte strutture associative che si occupano della riqualificazione dei piccoli borghi. Esercita l’attività professionale a Milano e nella provincia di Agrigento. Lingue: Inglese.
Avv. Rosa Guida e Avv. Annalisa Nocera che cosa significa per voi indossare la toga?
R: Quando ero praticante idealizzavo spesso il giorno in cui avrei indossato la toga, pensavo fosse il vestito di un supereroe che, con il suo mantello nero, avrebbe avuto il potere di salvare i diritti delle persone.
Oggi, scomparsa l’idealizzazione iniziale della professione, mi sento soltanto di dire che indossare una toga è una responsabilità. Una gioiosa ma tremenda responsabilità. Significa prendere su di sé i dolori degli assistiti e cercare di trasformarli in giustizia. Di quella idea della toga che avevo da giovane praticante resta però invariata una consapevolezza: l’avvocato è la prima sentinella dei diritti violati sul territorio e la toga è la sua uniforme, il simbolo che prova a raccontare le sue opere.
A: Indossare la toga vuol dire portare rispetto verso la Costituzione, le leggi e i diritti. Vuol dire difendere le persone senza pregiudizi, facendo in modo che tutti vengano sottoposti a un equo processo. Alle volte rischio di sembrare ridondante, ma ciò che ripeto con frequenza è che un avvocato indossa la toga anche fuori dalle aule di tribunale. Il nostro lavoro ci insegna a essere misurate e ponderate, mai eccessive. Abbiamo il grande privilegio di guardare con equilibrio a tutte le storie dei nostri assistiti e questo equilibrio tendiamo a portarlo anche nella quotidianità, con il giusto decoro che il codice deontologico ci richiede di tenere.
La vita di un avvocato può essere sintetizzata in un’immagine: il codice. Il diritto di libertà, i diritti sociali e i diritti politici. Quello della ricerca degli ideali è il più pericoloso: devi raggiungere luoghi inesplorati, originali… Quanto ha contato l’ambizione nel vostro percorso? Potete raccontarci qualche storia senza ovviamente violare la privacy?
R: Nella professione avere ideali è pericoloso ma, in un certo senso, necessario. È pericoloso perché la fedeltà a degli ideali spesso chiude il pensiero, lo irrigidisce. Un avvocato dovrebbe donarsi sempre l’opportunità del dubbio: gli ideali, alcune volte, non lo permettono.
Tuttavia, gli ideali sono necessari. Lo sono perché un professionista che lavora cinicamente perde di vista il senso della sua azione e questo è vero soprattutto quando si parla di libertà, diritti sociali e diritti politici. La soluzione è un adeguato bilanciamento: credere sempre nelle proprie idee ma illuminarle con un ragionevole dubbio. È un lavoro faticoso. È però dal logorio del dubbio che nascono idee interpretative originali, utili per la migliore difesa dei diritti.
L’ambizione è un motore importante in ogni professione e non mi sento di dire che nel mio percorso non ha contato o non conti nulla. Sicuramente però non è la stella che mi orienta, piuttosto è il vento che mi sospinge quando non ho la forza di remare. Un caso recente e molto interessante riguarda un immigrato detenuto presso un CPR. Il ricorrente era stato perseguitato nel suo paese per dei problemi fisici congeniti ma, all’esame in Commissione, non gli era stato riconosciuto alcun diritto di restare nel nostro paese. Dopo il ricorso, oggi, può finalmente avere diritto al permesso di soggiorno e ricostruire la propria vita.
A: Per noi l’ambizione è andata sempre di pari passo con l’umiltà, l’amicizia e la stima che nutriamo l’una verso l’altra. Il nostro scopo non è essere avvocati famosi, bensì essere bravi avvocati, coscienti e scrupolosi. La nostra ambizione ha ad oggetto proprio questo. Spesso nel penale mi sento ripetere “voi avvocati non avete morale, come fate a difendere quel delinquente?” Beh, rispondo sempre che la vera morale è quella di guardare alle posizioni giuridiche e non alla persona che ci si trova davanti. La vera morale è quella di fare in modo che tutti possano essere tutelati dall’arbitrio dei poteri. Per esempio, dinanzi ad un caso di stalking ci siamo sentite chiedere: “ma davvero difendete quel tizio?” ebbene, “quel tizio” è una persona che verosimilmente è stata vessata a sua volta, che ha subito delle violenze fisiche e psicologiche nel proprio nucleo domestico. Il compito dell’avvocato è quello di far emergere tutte le sfaccettature del fatto materiale, in modo tale che l’indagato venga sottoposto a un processo completo e nella piena osservanza di tutte le regole. Spesso chi è sottoposto a processo soffre lo stigma del reato che gli viene contestato.
C’è chi sostiene che sull’immigrazione la politica è tremendamente indietro rispetto alla storia e all’attualità. La colpa dell’Occidente, come pure dell’Italia, è non aver compreso pienamente la complessità della questione. Il vostro parere?
R: Ho sempre sostenuto che una parte della politica si rifiuti espressamente di comprendere la questione migratoria. Penso che si debbano assolutamente rispettare le idee altrui e le rispettive argomentazioni. Come dicevo prima, gli ideali devono sempre essere permeati dal dubbio ma c’è un punto sul quale tutti i dubbi cedono: la morte continua di migliaia di persone.
Per questa ragione non mi stancherò mai di rivendicare l’idea che il diritto e la Politica siano in errore sui migranti. No, non si tratta di becero moralismo, è umanità.
Quanto deve essere incerta la propria terra per rischiare la vita al fine di entrare in Europa? La Politica ha il dovere di tener conto di queste istanze. Il diritto si modifica nel tempo grazie alle istanze sociali: per quanto tempo queste non troveranno ascolto?
Siamo tutti d’accordo che è una questione complessa difficile da risolvere. Sicuramente la soluzione, però, non è trasferire le persone in campi in Albania.
Vorrei precisare che le mie affermazioni sono strettamente personali.
A: Probabilmente la complessità della questione è nota a chi ci governa ed era nota a chi ci ha governato. Il problema principale è che spesso ci si concentra più sul sistema che sui diritti delle persone, e anche gli immigrati, in quanto persone, sono titolari di diritti che meritano di essere garantiti e tutelati. A prescindere dall’etnia e dal ceto religioso.
La piazza è un modo democratico per parlare ai cittadini e a chi fa le leggi?
R: La Piazza è il luogo democratico per eccellenza ma non è l’unico, anche perché ormai si è un po’ svuotato di significato. Quante volte le piazze divengono semplici palcoscenici e i social si rivelano i veri canali di diffusione?
Un altro luogo democratico sono, senza dubbio, le urne.
Lì, non solo possiamo esprimere ogni opinione, ma siamo certi che la nostra opinione conti in modo egualitario.
Non esiste democrazia senza uguaglianza.
In piazza, sui social o in altri luoghi, i cittadini o i politici possono avvertire certe pressioni esterne, possono non essere ascoltati o non avere la libertà di dire quello che ritengono.
Le schede elettorali garantiscono, invece, la libertà e dunque sono luogo di democrazia.
A: Tutti i posti di libera aggregazione sono luoghi astrattamente idonei per parlare ai cittadini e a chi fa le leggi. Bisogna sempre ricordarsi che nell’esprimere le proprie opinioni si incontrano dei limiti che tutelano altre libertà fondamentali, quale il diritto altrui alla reputazione per esempio. Credo che gli eccessi non portino mai a un buon punto di arrivo e, come nelle negoziazioni, far sentire la propria voce deve essere supportata da un mix composto da: ragionevolezza, convinzione nelle proprie argomentazioni, continenza nell’esposizione e capacità di argomentazione.
I freddi numeri dei femminicidi ci dicono che dal 2000 a oggi è costata la vita a più di tremila donne nel nostro Paese: in media in Italia ogni 2 giorni una donna viene uccisa dalla violenza di un compagno, un marito, un amico… Cosa altro si deve aggiungere?
R: Si potrebbe aggiungere che, a questi numeri, si dovrebbero calcolare anche tutte le morti emotive causate dalla violenza di genere. I freddi numeri dei femminicidi indicano soltanto la punta di un iceberg.
Tante, troppe donne sono intrappolate in cicli distruttivi che le fanno vivere nella paura. La violenza psicologica ed economica è diffusissima e spesso nascosta dalle stesse vittime.
A: I numeri sono agghiaccianti. Sarebbe auspicabile intervenire in via estremamente preventiva, coltivando nelle famiglie e nelle scuole l’educazione all’uguaglianza di genere e al rispetto per tutti i generi e per le diversità in generale. Un bambino e una bambina che ricevono un’educazione improntata sulla cultura dell’uguaglianza e della parità di genere sono le migliori armi, per il futuro, per combattere questo fenomeno spaventoso.
La violenza di genere è figlia di un certo terreno culturale. Cosa è cambiato, ammesso che sia cambiato qualcosa, nei comportamenti maschili? Come è possibile riconoscere i segni della violenza, anche quando non sono visibili?
R: Secondo me si tratta di un’illusione di cambiamento. I fenomeni di cui parliamo ci sono sempre stati purtroppo. Ci eravamo illusi della parità totale e, in un certo senso, nell’ultimo secolo abbiamo raggiunto dei successi incredibili in tale direzione.
Ci meravigliamo sempre nel sapere che la lotta non si è conclusa e ci meravigliamo sempre, soprattutto, che la violenza è spesso perpetrata dai giovani verso delle giovani.
La violenza credo che sia difficile da comprendere dall’interno, quando si vive. Si fa un gran parlare dei primi segni di violenza ma la verità è che una vittima di violenza spesso la riconosce solo quando è davvero in stato avanzato.
Per me allora è centrale il ruolo delle famiglie e dei propri cari. La famiglia è il primo luogo della formazione dei valori ed è il primo luogo di soccorso.
I genitori dovrebbero insegnare, anche con l’esempio, il rispetto delle persone e dall’altra parte dovrebbero riconoscere le violenze, anche dalle piccole cose, la tendenza all’isolamento ad esempio. Si dovrebbe parlare di più con i propri figli e le proprie figlie.
A: Il ruolo fondamentale nel riconoscere i segni “invisibili” è giocato spesso dalle persone vicine alle vittime. È importante non trascurare i piccoli cambiamenti e i turbamenti nelle persone che vivono relazioni apparentemente normali. Spesso accorgersi che un’amica ha lo sguardo che d’improvviso si è spento può essere un salvavita. La violenza non è solo fisica, è anche psicologica ed economica. I nuclei domestici che diventano delle gabbie lo fanno con progressione, di rado si assiste a un cambiamento repentino. Per questo motivo è estremamente necessario non sottovalutare i piccoli segnali d’allarme che possiamo cogliere nelle persone a noi vicine. Purtroppo lo dico per esperienza. Anni fa sono stata molto vicina ad una cara amica che si è trovata ad affrontare una situazione abbastanza complicata. Ho incontrato resistenza da parte della vittima (che di solito è l’ultima a rendersi conto di ciò che sta vivendo), ma alla fine sono riuscita a trascinarla fuori da un ciclo di umiliazioni che l’avevano risucchiata. Se posso rivolgere un appello a chi ha una persona cara che soffre situazioni simili, dico di non mollare davanti al primo no. Non mollate dinanzi al primo respingimento. La vostra insistenza potrebbe salvare una vita.
Le cronache giudiziarie raccontano che spesso la farraginosità delle procedure, che i magistrati devono applicare, «a volte lega le mani». C’è qualcosa da cambiare o va bene così?
R: Ritengo assolutamente errato parlare di magistrati con le mani legate. I magistrati devono applicare le leggi, e devono farlo senza essere influenzati dalle cronache giornalistiche.
Purtroppo, oggi, sembra quasi che il diritto di difesa degli indagati per femminicidio, o altri reati legati alle violenze di genere, sia molto più flebile e influenzato dal pensiero mediatico.
Da avvocato non posso esimermi dal condannare quest’idea malsana di rivendicare a tutti i costi la pena massima per chi è innocente fino a prova contraria.
Il garantismo è essenziale per il nostro Stato di diritto e con questo non voglio assolutamente retrocedere dalle idee precedentemente espresse circa la necessità di una lotta alla violenza di genere, anzi.
Ritengo, però, fortemente errato considerare le aule giudiziarie l’unico terreno di lotta ideologica conculcando gli altri diritti, come il diritto ad una difesa libera da ogni pregiudizio.
A: Spesso le cronache giudiziarie non offrono ai cittadini gli strumenti giusti per leggere una sentenza. Il sistema è sicuramente perfettibile, ma ritengo erroneo parlare di magistrati con le mani legate, piuttosto mi piace parlare di magistrati che applicano le leggi.
L’unica cosa di cui valga la pena scrivere è il cuore umano in conflitto con se stesso. Penso che in una cella ciò sia davvero visibile. Il comandamento fondamentale, non uccidere, in carcere non vale: rinunciamo all’umanità in nome di una giustizia, spesso cieca. Il vostro pensiero in proposito?
R: Le carceri dovrebbero essere il luogo della rieducazione e della riabilitazione. Spesso questo non succede, anzi la condizione dei detenuti è sempre più allarmante. La prima causa di morte è il suicidio, forse anche per le condizioni penose che subiscono i detenuti. Siamo all’interno di un sistema mediatico che spesso condanna prima del tempo e poi si dimentica delle condizioni delle carceri, quasi come se le persone detenute perdessero ogni diritto di difesa, ogni diritto ad una vita comunque dignitosa. Com’è noto, l’Italia è stata condannata ripetutamente dalla Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) per la situazione delle carceri per le condizioni inumani e degradanti. Ci sarà un perché.
A: Il sistema carcerario italiano ha molte falle. I morti nelle carceri sono troppi, e spesso sono morti invisibili di cui nessuno parla. Il detenuto, nel momento in cui varca la soglia del carcere, è sottoposto alla custodia dello Stato, a prescindere dal crimine per il quale è stato condannato. E in quanto custode, lo Stato, diventa responsabile e garante delle vite che gli vengono affidate.
Qualcuno consiglia di inventare l’attimo, ovvero trasformare quello che hai subito in qualcosa di autonomo capace di comunicare energia per superare il dolore… La vostra opinione?
R: Credo che sia essenziale trasformare i traumi in risorse anche se non è facile per nulla. Le migliori storie di successo che conosco derivano sempre da momenti difficili o da rifiuti. È assolutamente affascinante. Nel mio piccolo provo sempre a trasformare tutte le esperienze negative in carburante, anche nella Professione. Si parla poco delle fatiche relative allo studio ma anche economiche e sociali che i praticanti avvocati devono affrontare prima di divenire autonomi. In una professione che sembra parlare sempre meno la lingua dei giovani, spero di poter contribuire a generare qualcosa di nuovo, dinamico.
A: La storia è piena di uomini e di donne che hanno trasformato in energia il proprio dolore. Riagganciandomi alla domanda precedente, faccio l’esempio di Ilaria Cucchi che ha fatto del proprio dolore, e delle ingiustizie patite dal fratello mentre era affidato allo Stato, il motore per dare voce agli invisibili che subiscono soprusi nelle carceri.
Carcere: Sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Come si rimedia a questa emergenza? Che bisogna fare per rimettere ordine negli istituti di pena?
R: Sembra scontato, ma servirebbe rimettere al centro il concetto di “rieducazione”, spesso dimenticato o tralasciato. Sarebbe sicuramente utile che la Politica scegliesse di investire sui luoghi di detenzione, affinché diventino, anche nella sostanza, luoghi della speranza. Mi rendo conto che “speranza” sia un termine forte, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti di cronaca che spaventano a morte. Eppure quei luoghi devono essere questo, e non solo posti punitivi. Le carceri devono rispecchiare l’art. 27 della Costituzione: è necessario sperare che si possa ricominciare da capo e non arrendersi alla mera considerazione che un detenuto non possa riscattarsi.
A: Alcuni istituti di pena hanno programmi rieducativi virtuosi, altri meno. Il sovraffollamento spesso è figlio di uno scarso successo nella rieducazione e risocializzazione del condannato che, una volta rimesso in libertà, si rende recidivo. La rieducazione, con programmi ben strutturati, e un concreto sistema di reinserimento, possono sicuramente essere delle basi su cui costruire un sistema carcerario migliore, magari prendendo come riferimento i Paesi dell’Europa del nord ove il tasso di recidiva è minimo.
Una curiosità: giudicare o difendere la vita degli altri a volte diventa complicato, si ha l’impressione di dover comporre quel cubo di Rubik che rappresentano. Se fosse possibile riscrivere una storia giudiziaria o politica quale sarebbe?
R: La prima storia che mi viene in mente è la storia giudiziaria di Peppino Impastato. Com’è noto tra l’8 e il 9 maggio 1978 venne trovato sui binari della ferrovia per simularne il suo suicidio.
Il caso è stato segnato da vari tentativi di depistaggio che, di fatto, evitarono di far riconoscere la matrice mafiosa dell’omicidio per un lungo periodo.
Solo nel 2002, oltre 24 anni dopo, è stato riconosciuto colpevole Gaetano Badalamenti. Di casi nei quali la Giustizia non ha funzionato ce ne sono tantissimi. Un avvocato più grande, un giorno, mi regalò un libro dal titolo “Quello che Resta”, un libro di foto che ritraggono persone che hanno lottato contro la cecità della Giustizia. Questo libro mi è molto caro perché mi fa comprendere che il nostro lavoro non è scontato e il nostro impegno deve essere vissuto come missione.
A: Riscriverei la storia di tutte le sentenze che hanno inflitto ingiuste detenzioni. Le ingiuste detenzioni sono figlie di errori giudiziari che purtroppo si possono verificare per i più svariati motivi. Con ciò non voglio essere fraintesa e ci tengo a precisare che in Italia abbiamo giudici molto avveduti e preparati, ma talvolta è sufficiente una testimonianza sbagliata per determinare le sorti di una persona così privandola ingiustamente della libertà personale.
Come è possibile riconoscere i segni della violenza, anche quando non sono visibili?
R: I segni della violenza sono sottili: isolamento, cambiamenti di umore, cambiamenti delle abitudini in generale. Una storia d’amore sana non genera cambiamenti di questo tipo. La famiglia dovrebbe essere il primo luogo di soccorso e di educazione.
A: È importante non trascurare i piccoli cambiamenti e i turbamenti nelle persone che vivono relazioni apparentemente normali. Spesso accorgersi che un’amica ha lo sguardo che d’improvviso si è spento può essere un salvavita. La violenza non è solo fisica, è anche psicologica ed economica.
Torniamo al presente: il coraggio delle donne di cambiare le regole del gioco?
R: Non parlerei soltanto di coraggio delle donne. Il coraggio richiesto nei cambiamenti sociali deve essere sia delle donne che degli uomini. Gli uomini devono avere il coraggio di comprendere che, effettivamente, ancora è presente un sistema patriarcale, le donne devono avere il coraggio di affermare che non sono le uniche vittime del sistema e che la battaglia non può essere “contro” qualcuno. Il sistema non paritario logora entrambe le parti, rinchiudendo le donne in un ruolo e gli uomini in un altro. Le regole sociali possono cambiare davvero se tutti gli attori riconoscono il proprio ruolo nelle dinamiche. Non sono d’accordo, in questo caso, con la lotta pro donne e contro gli uomini. Mi piacerebbe vivere in un contesto in cui l’uomo non deve per forza essere rappresentativo di una mascolinità tossica nel quale è la roccia familiare che deve garantire sostegno economico e protezione a tutti i costi, dall’altra parte la donna non deve essere rinchiusa nel ruolo di mera cura. Per tale rivoluzione serviamo tutti.
A: Ci sono donne che lottano ogni giorno per cambiare le regole del gioco, altre che invece sono restie nel farlo e si raccontano la falsa verità che, forse, il patriarcato non sarà mai superato e che probabilmente è giusto così solamente perché sempre è stato così. La lotta per i propri diritti può assumere molte forme. Può essere dirompente e rumorosa, allo stesso modo può essere silenziosa ma non per ciò solo meno efficace. Questo argomento può essere molto scivoloso perché la lotta è soggettiva e ciascuno la interpreta a modo proprio. Ad esempio, io difendo i diritti, me ne faccio promotrice e lotto ogni giorno per affermarmi in quanto donna e in quanto professionista in un ambiente che spesso può essere ostile. Tuttavia, mi piace farmi chiamare avvocato e non avvocata o avvocatessa. Ma non accetto, in un contesto lavorativo, di essere chiamata “gioia” o “signorina”. Non per presunzione, ma perché i colleghi uomini vengono chiamati avvocati e non “signorini”. Con ciò voglio dire che la parità di genere non si raggiunge, a mio avviso, con la declinazione forzata dell’italiano, ma si raggiunge con la parità dei diritti e dei doveri. Si raggiunge con la parità salariale e con le pari opportunità di raggiungere risultati e obiettivi, a prescindere dal genere.
Abbiamo libertà di parola e ognuno può dire quello che vuole. Ma ha senso questo parlare a vuoto, a vanvera, confondendo, se non addirittura, disinformando le persone? Insomma, il politically correct ha ucciso la libertà d’espressione?
R: Oggi, con i social, purtroppo chiunque può pubblicare contenuti disinformativi. Questi contenuti viaggiano molto veloce ed è difficile controllarne la diffusione. Purtroppo, ritengo che alla disinformazione si possa rispondere solo con l’educazione all’informazione. È necessario che si forniscano ai cittadini strumenti per verificare i contenuti informativi, così da favorire il libero pensiero.
Il politically correct non ha ucciso la libertà di espressione ma l’ha limitata di parecchio. Così, quando un discorso non è politicamente corretto nella forma, ma è interessante nella sostanza, ci si limita soltanto a giudicarlo soltanto in superficie senza entrare nel merito. Così, per essere ascoltati, si finisce per accontentare le orecchie dei puri.
Questo ci fa perdere la tridimensionalità delle opinioni, ci fa perdere occasioni di confronto, crea divisioni poco utili.
A: Il non farsi un’opinione uccide la libertà di pensiero, ma sicuramente occorre prestare attenzione alle modalità con cui il pensiero viene diffuso. Voi giornalisti fate un mestiere bellissimo e avete il privilegio di raggiungere le persone con la potenza delle vostre parole, ma sicuramente è anche un mestiere pericoloso perché la selezione delle notizie, della fonte e delle modalità espositive deve necessariamente passare da un filtro di ragionevolezza e veridicità. E ad oggi, con la diffusione del trend del politicamente corretto, il limite della continenza espositiva permea sempre di più nei confini che vengono incontrati dal diritto di manifestazione del pensiero.
La libertà in una parola?
R: A costo di risultare banale, decido di citare Gaber “Libertà è partecipazione”. La partecipazione è faticosa, così come è faticoso raggiungere la libertà. La partecipazione di cui parlava Gaber è una partecipazione alla vita attiva della società, facendo valere la propria individualità, dando voce a punti di vista diversi. Essere liberi vuol dire avere il diritto di contare, di dire la propria senza pressioni e ricatti: far valere la propria persona, per quello che è, senza ledere nessuno, prendere parola senza sentirsi intrappolati dai giudizi altrui.
A: E’ molto complesso racchiudere il concetto di libertà in una parola perché, se male interpretata, rischia di sfociare in arbitrio. Per Kelsen la libertà, insieme all’uguaglianza, è protagonista della democrazia. Per Kelsen essere liberi voleva dire partecipare alla vita politica del Paese. Probabilmente Kelsen aveva colto nel segno. Avere libertà di scelta politica consente al cittadino di esprimere se stesso attraverso i propri rappresentanti democraticamente eletti.