Giuseppe Irranca: Un fotografo diventa artista quando smette di limitarsi a catturare ciò che vede e inizia a rivelare ciò che sente

Nel chiaroscuro del bianco e nero, scopro l’essenza delle emozioni umane. Ogni mia foto è un viaggio nell’essenzialità: luci brillanti s’intrecciano con ombre misteriose, e i neri profondi narrano storie mute ma evocative.

Unendo tradizione e innovazione, le mie immagini trascendono l’ordinario, acquistando una tridimensionalità che le rende quasi palpabili. Quando traspongo le mie opere su carta, questa profondità si intensifica, invitando chi le osserva a immergersi completamente, a vivere una vera esperienza sensoriale.

Con ogni scatto, cerco di catturare e immortalare un frammento dell’anima, rendendolo eterno.

Giuseppe Irranca

 

Giuseppe che cosa fa di un fotografo un vero artista?

Un fotografo diventa artista quando smette di limitarsi a catturare ciò che vede e inizia a rivelare ciò che sente. Come un artigiano che plasma la materia con le proprie mani, io plasmo la luce per dare forma alle emozioni invisibili. L’autorialità nasce dalla capacità di sviluppare un linguaggio visivo personale – nel mio caso, il bianco e nero non è una scelta estetica, ma uno strumento per scavare oltre la superficie. Ogni scatto è un atto di pre-visualizzazione emotiva: vedo l’anima prima ancora di premere il pulsante. L’artigiano conosce perfettamente i suoi strumenti, ma li usa per esprimere qualcosa di unico e irripetibile. La mia firma non sta nella tecnica, ma nella capacità di creare un ponte tra il mondo interiore del soggetto e quello di chi osserva. Quando riesco a raccontare una storia che va oltre il volto fotografato, quando l’immagine diventa specchio dell’anima – mia e della modella – allora nasce l’arte. La fotografia è nata come passione e si è trasformata in lavoro, ma è sempre l’amore a muovere le mie mani – perché quando ami davvero quello che fai, non esiste differenza tra vivere e lavorare.

C’è ancora poesia in una fotografia oppure la tecnologia ha fatto perdere di vista l’obiettivo? 

La tecnologia non ha ucciso la poesia, l’ha liberata. Sì, ha democratizzato la fotografia, ma paradossalmente questo ha creato uno spazio più ampio per noi autori che usiamo l’obiettivo per filtrare la realtà attraverso la nostra visione personale. È questa, secondo me, la vera nascita della fotografia d’autore. Scatto dall’età di 14 anni, ho iniziato con l’analogico quando ogni frame costava e ogni decisione era irreversibile. Quel rigore mi ha formato, ma l’evoluzione tecnologica mi ha liberato per concentrarmi sull’essenza: raccontare storie attraverso i miei occhi. Oggi posso pre-visualizzare con maggiore precisione, sperimentare senza limiti economici, raffinare la mia ricerca dell’emozione autentica. Il vero discrimine non è più tra analogico e digitale, ma tra chi usa la macchina fotografica come strumento di copia e chi la trasforma in estensione della propria anima. La poesia non dipende dal mezzo, ma dalla capacità di vedere oltre ciò che appare. Nel mare di immagini quotidiane, emerge chi riesce a creare un linguaggio personale, una firma emotiva riconoscibile. Il risultato è tutto: che sia nato su pellicola o su sensore, ciò che conta è se riesce a toccare l’anima di chi guarda. Stampo sempre le foto che scelgo perché la carta resta il fine ultimo della fotografia – quel tatto, quel profumo che ricorda l’analogico è un sentimento che mi appartiene, e secondo me è impossibile giudicare davvero una fotografia guardandola su uno smartphone.

Chi sono i tuoi modelli e dove pensi di poter arrivare? 

Le mie modelle sono ragazze vere, non professioniste. Scelgo volti che non hanno ancora imparato a mentire davanti all’obiettivo, che non sanno quale sia la ‘posa giusta’. La loro forza sta proprio nell’assenza di tecnica: quando una ragazza non sa come comportarsi, emerge la sua essenza più pura. Il mio lavoro diventa quello di un direttore d’orchestra emotivo: le guido verso stati d’animo autentici, verso quella vulnerabilità che racconta storie universali. Non cerco la bellezza convenzionale, ma quella fragilità che ci rende umani. Una lacrima trattenuta, uno sguardo perso, un sorriso appena accennato – questi sono i miei territori di caccia. Dove posso arrivare? Non lo so e, onestamente, non mi interessa. Rubando le parole ad Ansel Adams, la migliore fotografia è quella che devo ancora fare, ma il mio sguardo è fisso sull’oggi. Ogni sessione è un mondo nuovo da esplorare, ogni modella porta con sé segreti inediti. Sono ossessionato dal presente perché è l’unico momento in cui l’anima si rivela davvero. Il futuro è solo una conseguenza di quanto profondamente riesco a scavare nell’istante che sto vivendo.

Come scegli le persone che fotografi? C’è un filo che lega la tua vita quotidiana con le immagini che scatti? 

La scelta nasce da un impulso istintivo. Scorro i social non come un cacciatore di bellezza, ma come un archeologo di anime. Quando un viso mi ferma, è perché intravedo una storia ancora non raccontata, una profondità che chiede di essere esplorata. Non è mai la perfezione estetica a catturarmi, ma quella particolare malinconia in uno sguardo, quella cicatrice emotiva che trasforma un volto in un racconto. Il contatto è sempre diretto, senza intermediari. Spiego la mia visione, condivido l’emozione che quel volto mi ha trasmesso. Spesso le persone si stupiscono di essere state ‘viste’ in modo così specifico. Il filo che lega la mia vita quotidiana alle immagini è sottile ma indistruttibile: è fatto di tutti i sentimenti che attraverso, delle ferite che porto, delle gioie che conosco. Ogni modella diventa uno specchio in cui riconosco frammenti della mia esperienza umana. Non programmo mai il tema a priori perché ogni donna porta con sé il proprio universo emotivo. Il mio compito è sintonizzarmi su quella frequenza, lasciare che la sua storia guidi la mia macchina fotografica. Così ogni scatto diventa autobiografico: racconto loro raccontando me.

Spieghiamo un casting a quante sognano di intraprendere la carriera di Miss: che caratteristiche fisiche deve avere una modella che posa per te?

 Non organizzo casting per Miss, cerco anime interessanti. Capisco che molte ragazze abbiano sogni di spettacolo o cinema, ma nel mio lavoro ciò che fa la differenza sono le competenze espressive, non i centimetri o le proporzioni da manuale. Come ritrattista, il mio occhio va subito all’espressione: come muove gli occhi quando parla, come cambia il volto quando si concentra, se riesce a ‘abitare’ il silenzio davanti all’obiettivo. Certo, anche il corpo comunica – una postura racconta quanto uno sguardo – ma studio sempre il complessivo, l’armonia tra gestualità e interiorità.  Non sono scettico sulla bellezza, semplicemente la ridefinisco. Per me è bella una ragazza che sa essere vulnerabile, che non ha paura di mostrarsi imperfetta, che porta con sé una storia da raccontare. Ogni modella che scelgo è bellissima secondo la mia visione: una per la malinconia che sa trasmettere, un’altra per quella forza silenziosa che emerge dal suo sguardo, un’altra ancora per quella fragilità che la rende universale. La vera caratteristica fisica che cerco? L’autenticità. Non si misura in centimetri, ma si vede al primo incontro: è quella capacità di essere se stesse anche sotto i riflettori.

In controluce: la tua arte nel fotografare può essere letta anche come la costruzione di una certa idea di donna. Da cosa nasce questa esigenza di creatività? 

Ogni mia fotografia è, in effetti, un tassello di un manifesto silenzioso sulla femminilità autentica. Non costruisco un ideale estetico, ma scavo per rivelare quella forza vulnerabile che appartiene ad ogni donna – e che la società spesso le insegna a nascondere. La mia esigenza creativa nasce da una fame di verità che mi tormenta dall’adolescenza: ho sempre sentito che dietro ogni volto si cela un universo inesplorato, una storia che merita di essere vista e compresa. Fotografare diventa il mio modo di decifrare l’enigma umano, di toccare quella parte di noi che resiste alle convenzioni. La donna, nel mio obiettivo, diventa simbolo dell’universale: quella capacità di essere forte e fragile simultaneamente, di portare cicatrici come gioielli, di trasformare il dolore in bellezza. Cerco oltre la superficie perché è lì che risiede la poesia dell’esistere – in quella zona grigia tra ciò che siamo e ciò che mostriamo. La creatività è il mio strumento per tradurre l’invisibile in immagine, per dare forma a quei sentimenti che non trovano parole. Ogni scatto è una domanda che pongo all’esistenza: ‘Chi sei davvero quando nessuno ti guarda?’ La risposta emerge lentamente, fotogramma dopo fotogramma, costruendo un ritratto collettivo di autenticità femminile che è, in fondo, un ritratto dell’anima umana. Metto sempre al primo posto il rispetto per le donne e la mia fotografia lo ribadisce continuamente: per questa ragione metto sempre un fiore accanto al nome delle mie modelle.

Le tue foto provocano emozioni, piacere, suggestioni. Sei consapevole di avere molta fantasia erotica? Che effetto fa scoprire che le tue fotografie riscuotono consensi? 

No, non ho alcuna consapevolezza di fantasia erotica perché non è quella la mia strada. Se qualcuno vede erotismo nelle mie immagini, fraintende completamente il mio linguaggio. Io cerco purezza, non seduzione; verità, non provocazione. Il corpo che fotografo è veicolo di emozione, non oggetto di desiderio. La mia ricerca è spirituale prima che estetica: quando inquadro un corpo o uno sguardo intenso, sto cercando l’anima che si affaccia attraverso la pelle. Il bianco e nero che scelgo è già una dichiarazione di intenti – spoglio l’immagine da ogni distrazione per arrivare all’essenza più pura. Non ho scelto questo stile per strategia, è emerso naturalmente dalla mia necessità di scavare nell’interiorità umana. Oggi più che mai sono ossessionato dalla ricerca del bene, di quella luce interiore che ogni persona porta con sé. Quando le mie fotografie riscuotono consensi, è perché chi guarda riconosce questa ricerca di autenticità. Sente la poesia, non l’erotismo. Capisce che ogni scatto è un ponte tra due anime – la mia e quella della modella – e che in quel ponte si riflette anche la loro esperienza umana. Quando costruisco lo stesso ponte con chi osserva, ho raggiunto il mio obiettivo. Il vero successo è quando qualcuno mi dice: ‘In quella foto ho visto me stesso, ho capito cosa vuoi trasmettere’.

Le donne sbarcano sui social per competere con le teenagers o per riaffermare la propria femminilità a qualunque età? 

È pericoloso generalizzare. Certo, c’è un’evidente necessità di apparire che il digitale ha amplificato, ma la mia esperienza diretta dice altro: molte delle modelle che scelgo non cercano affatto fotografi, spesso devo convincerle a posare. Questo dimostra che non tutte le donne sui social sono mosse dalla competizione. Alcune cercano visibilità per emergere, altre semplicemente vivono il loro tempo condividendo frammenti di vita senza strategie particolari. Sarebbe riduttivo racchiudere tutto nella dinamica competitiva. Quello che mi interessa davvero è un altro aspetto: ogni fotografia è un documento temporale irripetibile. Tra vent’anni quelle immagini racconteranno chi eravamo e come ci vedevamo in questo momento storico. Non giudico le motivazioni perché ognuno ha le proprie ragioni per voler essere fotografato. Il mio compito è trasformare quel desiderio – qualunque sia la sua origine – in qualcosa di poetico e duraturo. Ogni fotografo ha la propria visione: la mia è cercare l’eterno nell’effimero, il profondo nel superficiale. 

Sei d’accordo che i social ti fanno capire subito che il mondo è grande e ognuno di noi ha la sua nicchia?

 Assolutamente sì. I social sono stati una rivelazione: ci hanno mostrato quanto il mondo sia immenso e quanto sia necessario trovare la propria voce per non perdersi nel rumore. Nella moltitudine infinita di immagini che scorrono ogni secondo, emerge più che mai l’esigenza di avere un carattere distintivo, una firma riconoscibile. Non è facile essere originali quando sembra che tutto sia già stato fotografato, pensato, mostrato. In fotografia possiamo dire che tecnicamente è stato inventato tutto – ogni angolo, ogni luce, ogni espressione ha già avuto il suo momento. Ma proprio qui sta la sfida: rimane spazio solo per gli autori veri, per chi riesce a dire qualcosa di personale anche usando un linguaggio apparentemente già esplorato. La mia nicchia non la cerco fuori, la scavo dentro. Faccio costante ricerca interiore per affinare il mio modo di comunicare chi sono attraverso l’obiettivo. Ogni sessione diventa un’occasione per scoprire qualcosa di nuovo su me stesso e trasmetterlo. Non basta più saper fotografare tecnicamente – serve avere qualcosa da dire. E quel qualcosa può nascere solo dalla propria unicità, dal proprio modo di vedere e sentire il mondo, perché siamo tutti unici.

Noi scrittori proviamo sempre a far rivelare ai propri personaggi trame future o dettagli che il pudore convenzionale frena: se fossi il protagonista di un romanzo quale parte interpreteresti e perché?

Se fossi il protagonista di un romanzo, interpreterei l’Archeologo delle Anime – quello che scava nelle profondità umane per portare alla luce verità sepolte dal pudore convenzionale. Sarei il personaggio che vede oltre le maschere sociali, che ha sviluppato la capacità di leggere i silenzi e tradurre l’invisibile in immagini. Il mio ruolo sarebbe quello del Cercatore: non di tesori materiali, ma di quei frammenti di autenticità che le persone nascondono anche a se stesse. Armato di macchina fotografica invece che di piccone, scaverei negli sguardi, nelle pause, in quei micro-gesti che rivelano chi siamo davvero quando crediamo che nessuno ci veda. Sarei il personaggio scomodo che fa domande attraverso l’arte, che costringe chi incontra – e se stesso – a confrontarsi con la propria verità più nuda. Un viaggiatore dell’interiorità che usa il bianco e nero come mappa per orientarsi nei territori dell’anima. La mia missione narrativa sarebbe dimostrare che in un mondo di apparenze, l’unica rivoluzione possibile è quella della sincerità. Ogni ritratto diventerebbe un capitolo di questo manifesto silenzioso, ogni modella una testimone di quella bellezza autentica che resiste alle convenzioni.

Chiudiamo con una battuta di Groucho Marx che a me piace molto: Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere. Nella vita non c’è una trama. Cosa ne  pensi? 

Comprendo perfettamente Groucho, ma io scelgo di vivere proprio per trovare quelle trame nascoste che lui non riusciva a vedere. La vita non ha una sceneggiatura preconfezionata, è vero, ma questo non significa che manchi di poesia – semplicemente siamo noi a doverla scovare, frame dopo frame.La mia macchina fotografica è diventata il mio modo di dare senso al caos quotidiano, di trasformare momenti apparentemente casuali in capitoli di un racconto universale. Quando inquadro una modella, sto effettivamente dirigendo un film di un solo fotogramma, condensando in quella frazione di secondo un’intera esistenza emotiva. È questo il paradosso che Groucho non coglieva: la vita ha troppe trame, non troppo poche. Ogni sguardo che catturo racconta una storia intera, ogni espressione contiene drammi, speranze, segreti che potrebbero riempire romanzi. I sogni non sono fuga dalla realtà, ma strumenti per decifrare quella realtà che spesso ci sfugge. Fotografare è davvero come scrivere un libro, ma con una differenza fondamentale: il libro lo scriviamo insieme, io e la modella, nel momento stesso in cui viviamo quell’incontro. La trama emerge dall’autenticità del presente, non dalla fantasia del possibile. Preferisco questa realtà a qualsiasi finzione.

 

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