Specchio delle nostre brame: vivere in un mondo di selfie

In un tempo non facile come il presente può rivelarsi di grande utilità una delle metafore che spesso, e in epoche diverse, è stata associata alla filosofia, tanto da identificare quest’ultima con la metafora in questione. Parliamo dello specchio, l’utensile di cui nessuna casa al mondo è sprovvista, la cui assenza, anzi, verrebbe considerata insolita e sospetta.

 

Nello stesso tempo, anche un ambiente in cui ogni parete è linda e riflettente come uno specchio – la dimora ideale di un Narciso dei nostri giorni – può risultare non meno inospitale e minaccioso. Lo specchio, si sa, riflette l’immagine di chi lo osserva, promettendo di restituire, intatta e integrale, quell’immagine all’osservatore, che in questo modo costruisce il suo profilo fisiognomico, autorappresentandosi e familiarizzando con quella che imparerà a considerare la sua identità pubblica ed esteriore. Basterebbe pensare a un mondo in cui qualsiasi superficie è così opaca da impedire l’azione riflettente della luce per farsi un’idea dell’assurdo nel quale si precipiterebbe. L’importanza di questo tema è stata posta al centro dell’ultima edizione del Salone del libro di Torino. Pretesto ne è stata l’opera di Lewis Carroll, l’inventore del mondo fantastico di Alice, al quale si deve l’idea di uno specchio che non è esattamente il semplice riflesso di una figura trasformata in immagine. Lo specchio, in realtà, è meno autoreferenziale di quanto si creda, e il riflesso che produce «è l’Altro e lo Stesso, il Tutto e il Nulla, l’Identità e la Differenza»,[1] vale a dire un amalgama di tratti e contenuti di cui l’osservatore – soggetto specchiante e, nello stesso tempo, specchiato – non può prendere facilmente consapevolezza, accontentandosi spesso solo di ciò che gli è dato a vedere.

L’utilità dello specchio

Perché mai capire la natura dello specchio potrebbe rivelarsi utile? Ecco una prima risposta: se dello specchio non si sa fare a meno, dello specchio converrà, comunque, conoscere difetti e virtù. L’Italia è, ad esempio, un Paese che ama guardarsi allo specchio e che, riflettendosi in esso, non sempre pare vedersi per quello che realmente è. Succede quando, pur trovandosi di fronte a inconfutabili forme di oggettività, queste sono così evidenti e inconfutabili che, per non doverle ammettere e riconoscere, si tende a trascurarle. Un caso che in qualche circostanza ha anche assunto contorni buffi può essere quello del politico nostrano che, chiamato a pronunciarsi sui dati di un infelice responso elettorale, trova il modo di trasformare una palese disfatta in un mezzo successo. Segno che allo specchio si può sempre mentire o, come faceva la regina cattiva delle favole, chiedere di mentire per noi e blandirci amabilmente. Eppure la natura parzialmente ingannatrice dello specchio, che qui scopriamo essere una controversa metafora del principio di razionalità, è contenuta nello stesso etimo latino da cui deriva: “speculum”, manufatto ideato per guardare e osservare ciò che non appare pienamente visibile. Nella medicina applicata è una sorta di sonda dilatatrice che rende visibile ciò che l’occhio non può vedere da solo. Prova del fatto che lo specchio non serve solo per vedersi riflessi o scrutare ciò che sta dietro le spalle. D’altronde, se fosse solo questo, sarebbe una poco convincente metafora del pensiero e della speculazione umana.

Solo specchi per allodole?

In effetti, lo specchio, inteso come mezzo della speculazione ed esemplificazione della riflessività del pensiero, è anche altro. Può farci fare la figura di allodole credulone, se non siamo sufficientemente accorti da saperne fare un uso ponderato. Nel raggio riflessivo e prospettico di uno specchio si può, secondo Leibniz, raccogliere addirittura un intero universo. Se la nostra mente non avesse un talento per la specularità, la percezione della realtà risulterebbe gravemente mutilata. «Lo specchio come metafora di ogni piano di resistenza che devia il nostro posizionamento, ci obbliga – spiega Antonio Cosentino – a fare i conti con l’altro e a segnare i confini dell’interazione, consente all’Io di riconoscersi ed essere riconosciuto come un Sé».[2] Quindi, lo specchio non esaurisce la sua ragion d’essere nel narcisistico autocompiacimento della propria persona, anche perché, come scrive Paolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzivedere in uno specchio significa dover fare ordine nella confusione.[3]

Il selfie come vetrina sociale usa e getta

La valenza metaforica dello specchio, portatrice di certezze e solide rispondenze, deve oggi fare i conti con quello che è diventato, a nostro avviso, più di una moda o di un vanesio comportamento stereotipato: la passione per il selfie, l’autoscatto compulsivo attraverso il quale azzeriamo la distanza tra l’io che osserva e l’io che, posando, funge da modello. Il selfie è l’atto che cattura l’istante inglobando in questo le tracce del nostro passaggio. È forse la più alta forma di autoreferenzialità raggiunta dall’uomo in un campo che non può essere solo quello estetico. Come è stato osservato, il mondo finisce così col diventare una grande “vetrina sociale”, e in un mondo di liberi e spensierati “selfisti” si può finire col credere che ci sia qualcosa di magico.[4] La magia è una modalità di controllo del reale che prospera e si diffonde quando le vecchie certezze vengono a mancare. È una presa sul mondo (e qui viene da pensare alla teoria demartiniana della “presenza”) che sfugge al nostro controllo e che, quindi, si vorrebbe tenere sempre davanti allo sguardo o richiamare ogni volta che se ne avverte l’evanescenza. Un selfie vorrebbe andare oltre l’immagine riflessa dello specchio, certificando a noi e agli altri la nostra partecipazione agli eventi del mondo. Un selfie, in un certo senso, vorrebbe assolvere la funzione di uno specchio dinamico che cattura e trasforma in immagini determinati estratti della nostra quotidianità. Quello che produce è un effetto usa e getta, buono per ricordare sbrigativamente ciò che è stato (con chi eravamo, dove eravamo, che cosa stavamo facendo), ammesso che si trovi il tempo per rivederlo. Un selfie, d’altronde, non ha molte pretese, non è come lo specchio che rifiuta correzioni e aggiustamenti. La ragione che specula e riflette non ammette operazioni artificiali come il fotoritocco. Certo, non è detto che con il suo sguardo sappia andare oltre le apparenze. Ci aiuta però a ricordare che negarle è come voler fare a meno di un’immagine della realtà dotata di un minimo valore conoscitivo. Le apparenze sono funzionali alla realtà e, come insegnerebbe uno specchio ancora capace di fare il suo mestiere, se non sapessimo più distinguere un mondo apparente, verrebbe meno anche la nostra capacità di riconoscerne uno vero e reale.

Giuseppe  Pulina – www.leurispes.it