Parità di genere, pari opportunità e magistratura onoraria

Durante il lavori della Costituente Piero Calamandrei propose non già  di aprire immediatamente alle donne l’accesso alla magistratura (figuriamoci), ma almeno di formalizzare l’impegno ad affrontare tale questione nella successiva riforma dell’Ordinamento Giudiziario. Ma sebbene ci fosse chi (Nilde Jotti in testa) appoggiasse tale mozione, ricevette un prevedibile diniego.

Perché prevedibile ? Perché, ancora per molti anni, continuarono ad essere pubblicati libelli come “La “donna giudice” ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”, del prof. Eutimio Ranelletti, Presidente onorario della Corte di Cassazione, fieramente avverso all’ingresso delle donne in magistratura, fautore di perle di ragionamento come questa: “«fatua,  […]  leggera,  […]superficiale,  emotiva,  passionale,  impulsiva,  testardetta  anzichenò,  approssimativa  sempre,  negata  quasi  sempre  alla  logica,  dominata  dal “pietismo”» e quindi «inadatta a valutare obbiettivamente, serenamente, saggiamente,  nella  loro  giusta  portata,  i  delitti  e  delinquenti».

Fortunatamente l’autore è rimasto noto più per il nome che per il valore dei suoi scritti, ma non va dimenticato che in Italia le donne poterono divenire magistrati solo con la legge n. 66 del 9 febbraio 1963.

L’accesso non fu certo indolore per le prime donne magistrato; per farsi una ragione della novità  infausta (per Ranelletti, ma non solo) si cercava una qualche utilità da indicare all’opinione pubblica. Così un illuminante articolo, apparso su “La Stampa” del 24 febbraio del 1966, spiegava che “vi è molto bisogno in tutti i gradi della magistratura di nuove giovani forze per aiutare il disbrigo di molte cause da tempo giacenti”.

Questa valutazione suona alle nostre orecchie molto familiare, perché non dissimile da quella che sentiamo ripetere, anche in questi giorni, da chi propone di abbattere il contenzioso, e in particolare il gigantesco arretrato della giustizia civile.  Il che ci induce a due riflessioni :

  1. a) il problema dello smaltimento dell’arretrato giudiziario esiste da (almeno) 50 anni;
  2. b) la “force de frappe” femminile di nuova istituzione veniva vista all’epoca come un male minore, una specie di forzoso palliativo per arginare l’inondazione di cause, che (pur non considerando l’apporto di alto valore giuridico) bisognava tuttavia accettare, se non altro per pragmatismo.

E qui, la cosa che viene subito in mente è che tale deteriore giudizio, all’epoca riservato alle magistrate appena entrate in ruolo, si rivela perfettamente sovrapponibile a quello che viene  oggi espresso, in molte occasioni, a proposito dei magistrati onorari.

E’ solo di pochi mesi fa un’ ennesima bufera mediatica, scoppiata perché un certo professore, cultore di bioetica presso l’Università di Bari, ha affermato che «giudici donne non dovrebbero esserci, perché giudicare significa essere imparziali»:  come direbbe il compianto Camilleri, “una stampa e una figura” con Eutimio Ranelletti!

Ma a parte tali ormai rare eccezioni, è evidente a tutti che l’apporto delle magistrate alla Giustizia è oggi almeno pari a quello degli uomini. Statisticamente, le prime subiscono meno procedimenti disciplinari, ma sono sottorappresentate a livello apicale, dove la percentuale si inverte e gli uomini prendono il sopravvento. Una parità reale è dunque ancora da raggiungere.

Resta in molti casi la tendenza delle donne a fare sempre di più, quasi per farsi “perdonare” la possibilità di avere figli o di dover assumere la cura dei familiari, restando  ferme, o quasi ferme, per qualche mese, e ciò malgrado i dati smentiscano che vi sia, nel periodo di  sospensione dal lavoro, un calo significativo della produttività delle donne magistrato.

Va anche detto che alcune donne vivono la questione della parità di genere e delle pari opportunità più come un problema di affermazione personale che come rivendicazione condivisa dei diritti di tutte.

L’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia, eclatante esempio di frantumazione del tetto di cristallo, con la sua nomina a Presidente della Corte Costituzionale, manifesta la meritoria intenzione di voler riconoscere la diversità nella parità, e ha dato alla gestione della Consulta un’ impronta di novità e di decisa apertura che noi magistrati onorari confidiamo possa ispirare anche la tanto attesa riforma che ci riguarda, e che è attualmente all’esame della Commissione Castelli.

Quanto sopra detto per le magistrate di ruolo vale anche, naturalmente,  per le magistrate onorarie, nonché per ogni collega che subisca nella sua attività un gap di trattamento e di tutele legato non solo al genere, ma anche a condizioni specifiche, quali la disabilità, la malattia o altri accidenti.

Però va anche detto che mentre per i magistrati di ruolo alcune scelte, come mettere al mondo un figlio, o alcuni eventi, come incidenti o malattie invalidanti, possono creare ostacoli alla progressione di carriera, per i magistrati onorari, dato il mancato riconoscimento di ogni diritto, le stesse scelte o eventi implicano conseguenze ben più gravi, incluse inevitabili rinunce, spesso irreversibili, con ripercussioni lavorative ed esistenziali.

Si è ripetuto in ogni occasione pubblica, in ogni protesta, nei flash mob che rivendicavano “il pane e le rose” organizzati tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, che la categoria chiede GIUSTE TUTELE.

Le famiglie tradizionali, dove c’era sempre una nonna o una zia che potevano occuparsi dei bambini quando il padre o la madre erano al lavoro, non esistono più. Sempre più spesso ci troviamo di fronte a nuclei monogenitoriali, privi di legami sul territorio, con famiglie d’ origine lontane, e con disponibilità economiche che non consentono neppure di pagare un asilo nido o un aiuto domestico.

Un magistrato onorario non solo perde ogni reddito nel periodo in cui genera un figlio (o lo adotta, a volte recandosi all’estero, da solo o in coppia), ma subisce l’ingiustizia, reiterata negli anni, di non veder mai riconosciuto il proprio diritto di essere genitore, e di non poter godere di alcuna tutela giuridica e sociale.

Serve tanto desiderio e una dose quasi sovrumana di coraggio, per avere un figlio in queste condizioni.

Quarant’anni di denatalità ci hanno portato alla situazione attuale, di cui recentemente, agli “Stati Generali della natalità” tenutisi a Roma alla presenza di Papa Francesco, ha parlato anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi: “Un’Italia senza figli è un’Italia che non crede e non progetta. È un’Italia destinata lentamente a invecchiare e scomparire”.

Ma di chi è la colpa? Non certo di chi dolorosamente ha rinunciato ad avere figli, perché semplicemente non sarebbe riuscito né a curarli né a mantenerli. Quando noi magistrati onorari chiediamo tutele parliamo di questo. Dei nostri figli che non nascono e di quelli che, nascendo tra mille difficoltà, crescono senza i diritti degli altri bambini. Delle cure cui rinunciamo, perché troppo costose, o perché non possiamo permetterci di arrestare per settimane o mesi  l’infernale lotteria del cottimo, cui siamo condannati da oltre vent’anni. Del futuro di una Repubblica che violando almeno una decina di precetti costituzionali, rifiuta di riconoscere i diritti di chi lavora per lo Stato.

Anche per questo chiediamo una riforma giusta: perché non riusciamo a capire come possa essserci un trattamento così diverso tra magistrati di ruolo e onorari, che pur lavorano negli stessi uffici, trattano le stesse cause, emettono sentenze che hanno il medesimo valore.

Per noi, si è detto, il problema è la mortificazione dei nostri diritti, che rovina le nostre esistenze; per il cittadino, è la possibilità che la totale assenza di garanzie possa rendere il giudice che ha davanti, al di là della sua competenza e rettitudine, meno indipendente.

Perché per gli utenti della giustizia conta che il giudice che deciderà la loro causa sia autonomo, indipendente e imparziale, e non importa se sia uomo o donna, né se sia di ruolo oppure onorario.

Qualche tempo fa, in udienza, ebbi di fronte una signora, debitrice in una procedura esecutiva, che chiedeva un giusto trattamento per i suoi diritti. Mi disse: “Giudice, Lei che è un uomo di legge mi può capire”.

Avv. Patrizia Tilli,  Direttivo AssoGot