L’anima divisa della Sicilia. Tra gli eroi antimafia e la complicità dell’omertà, il paradosso di un’isola che genera santi e demoni

di Davide Romano

C’è un paradosso che tormenta la Sicilia da più di un secolo e che nessuno è mai riuscito a spiegare completamente: come può la stessa terra che ha generato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino aver nutrito per decenni le cosche mafiose? Come può l’isola che ha dato i natali a Peppino Impastato e al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa essere anche quella che ha permesso l’ascesa di Totò Riina e Bernardo Provenzano? È una contraddizione che va al cuore dell’anima siciliana e che non si può liquidare con le spiegazioni sociologiche di comodo o con le semplificazioni giornalistiche.

La verità, scomoda ma innegabile, è che la Sicilia ha sempre vissuto con la mafia un rapporto ambivalente, fatto di rifiuto e fascinazione, di condanna morale e complicità silenziosa. Un rapporto che gli stessi siciliani faticano a decifrare e che produce quella schizofrenia collettiva di cui parlava Leonardo Sciascia: da una parte l’orgoglio per gli eroi antimafia, dall’altra l’antica abitudine al compromesso e all’omertà.

Ho sempre pensato che per capire questo paradosso bisogni partire dalle parole di Sciascia, lo scrittore che più di ogni altro ha saputo fotografare l’anima contraddittoria della sua isola: “La mafia non è affatto un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la stragrande maggioranza dei siciliani”. Parole durissime, pronunciate da chi amava profondamente la sua terra ma non aveva paura di guardarla in faccia senza indulgenze.

 Le radici del male

Per comprendere questa simbiosi di cui parlava Sciascia bisogna risalire alle origini storiche del fenomeno mafioso. La mafia non è nata nel vuoto, ma si è sviluppata in un contesto sociale e politico preciso: la Sicilia dell’Ottocento, caratterizzata dall’assenza dello Stato, dal latifondo, dalle lotte per la terra. In questo scenario, la violenza privata diventava spesso l’unico strumento per far rispettare i propri diritti o per imporre la propria volontà.

Come ha scritto Salvatore Lupo, uno dei più acuti studiosi del fenomeno mafioso: “La mafia è figlia della modernizzazione incompiuta, del tentativo di conciliare tradizione e cambiamento senza mai riuscirci completamente”. È una definizione che coglie nel segno, perché spiega come la mafia sia riuscita a sopravvivere ai cambiamenti storici adattandosi sempre alle nuove circostanze.

Ma c’è qualcosa di più profondo, qualcosa che tocca l’anthropos siciliano nella sua essenza più intima. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo capolavoro “Il Gattopardo”, ha colto questo aspetto con una lucidità che ancora oggi fa impressione: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.

 

Il fascino dell’antieroe

C’è un elemento che spesso viene sottovalutato nell’analisi del rapporto tra i siciliani e la mafia: il fascino che l’antieroe mafioso ha sempre esercitato sull’immaginario popolare. Non si tratta di ammirazione per la violenza in sé, quanto piuttosto di una forma perversa di identificazione con chi riesce a ribellarsi alle regole imposte dall’alto, con chi sa farsi rispettare in una società dove spesso i deboli vengono calpestati.

Questo fascino è ben rappresentato nella letteratura siciliana. Basti pensare ai romanzi di Giuseppe Bonaviri, dove i personaggi mafiosi sono spesso descritti come figure tragiche, vittime di un destino che li supera. O alle pagine di Vincenzo Consolo, che ha saputo raccontare la violenza mafiosa senza mai cadere nella retorica del male assoluto, mostrando invece le radici profonde di un fenomeno che affonda le sue origini nella storia millenaria dell’isola.

Anche Andrea Camilleri, nei suoi romanzi, ha affrontato il tema della mafia con la sua consueta capacità di cogliere le sfumature psicologiche dei personaggi. Il suo commissario Montalbano si muove in un mondo dove la linea di demarcazione tra legalità e illegalità non è sempre netta, dove spesso bisogna scegliere il male minore, dove la giustizia vera non sempre coincide con quella scritta nei codici.

 Gli eroi scomodi

Ma la Sicilia, per fortuna, non ha prodotto solo mafiosi. Ha generato anche una schiera di eroi antimafia che hanno pagato con la vita la loro coerenza morale. Eppure, anche questi eroi hanno vissuto spesso un rapporto difficile con la loro terra, sono stati considerati dei “guastafeste”, degli elementi di disturbo in un equilibrio consolidato.

Giovanni Falcone, in una delle sue ultime interviste, disse una frase che la dice lunga sul clima che si respirava in Sicilia negli anni Ottanta: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.

Queste parole rivelano una lucidità straordinaria, ma anche una solitudine profonda. Falcone aveva capito che la lotta alla mafia non poteva essere delegata ai singoli eroi, ma doveva diventare un impegno collettivo. Eppure sapeva bene che questo impegno collettivo stentava a materializzarsi, che troppi siciliani preferivano guardare dall’altra parte.

Paolo Borsellino era ancora più esplicito: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Ma aveva anche aggiunto, con amarezza: “Il problema è che questo consenso la mafia continua ad averlo, magari in forme più sottili di un tempo, ma ce l’ha ancora”.

L’omertà come sistema

Per capire questo paradosso bisogna analizzare il ruolo dell’omertà nella società siciliana. L’omertà non è semplicemente paura di parlare; è un vero e proprio sistema di valori che affonda le sue radici nella diffidenza storica dei siciliani verso lo Stato e le istituzioni. Come ha scritto il sociologo Diego Gambetta: “L’omertà è il frutto di una cultura che privilegia la soluzione privata dei conflitti rispetto a quella pubblica”.

Questo atteggiamento ha origini antiche. Per secoli i siciliani hanno imparato a diffidare di chi detiene il potere ufficiale, perché questo potere è sempre stato percepito come estraneo, imposto dall’esterno. In questo contesto, il mafioso che si fa giustizia da sé può apparire più affidabile del giudice che rappresenta uno Stato lontano e spesso inefficace.

Gesualdo Bufalino, con la sua prosa raffinata e malinconica, ha colto questo aspetto con grande acutezza: “Il siciliano non crede nello Stato, crede nella famiglia. Non crede nella legge, crede nell’amicizia. Non crede nella giustizia, crede nella vendetta”. Parole dure, ma che colgono nel segno.

Il peso della storia

Non si può comprendere il rapporto ambivalente dei siciliani con la mafia senza considerare il peso della storia. La Sicilia ha subito per oltre due millenni dominazioni straniere: greci, romani, arabi, normanni, spagnoli, francesi si sono succeduti nell’isola, ognuno portando le proprie leggi e i propri funzionari. In questo contesto, l’unica costante era la famiglia, il clan, la comunità locale.

Quando, nel 1860, arrivarono i Savoia con la loro burocrazia piemontese, molti siciliani li percepirono come l’ennesima dominazione straniera. Il nuovo Stato italiano, anziché conquistare i cuori e le menti degli isolani, si impose spesso con la forza, reprimendo duramente il brigantaggio ma senza mai affrontare i problemi strutturali che lo alimentavano.

In questo vuoto di legittimità si inserì la mafia, che offriva un sistema alternativo di regole e di protezione. Come ha osservato lo storico Salvatore Lupo: “La mafia è nata anche perché lo Stato italiano non è mai riuscito a diventare veramente siciliano”.

 Sciascia e la lezione amara

Nessuno come Leonardo Sciascia ha saputo raccontare questa realtà complessa e contraddittoria. I suoi romanzi e i suoi saggi sono una lezione magistrale su come la mafia non sia un corpo estraneo alla società siciliana, ma ne faccia parte integrante. In “Il giorno della civetta”, “A ciascuno il suo”, “Todo modo”, Sciascia ha descritto un mondo dove la linea di demarcazione tra legalità e illegalità si fa sempre più sottile, dove la corruzione morale precede e alimenta quella materiale.

Ma Sciascia non si limitava a denunciare; cercava di capire. Le sue pagine più belle sono quelle dove cerca di penetrare nella psicologia del mafioso, di comprenderne le motivazioni profonde. In “L’onorata società” scrive: “Il mafioso è un uomo che crede nella propria superiorità e nel proprio diritto di imporla agli altri. Ma è anche un uomo che ha paura, che vive nell’angoscia costante di essere tradito o eliminato”.

 Il dilemma morale

Il dilemma morale che tormenta molti siciliani onesti è questo: come si fa a condannare senza appello un fenomeno che affonda le sue radici nella propria storia e nella propria cultura? Come si fa a rinnegare completamente una parte di sé, anche se quella parte è malata?

Vincenzo Consolo ha espresso questo dilemma con parole toccanti: “Noi siciliani portiamo dentro di noi il peso di una storia troppo lunga e troppo complicata. Non possiamo fare finta che la mafia sia un incidente di percorso; è parte della nostra identità, anche se è la parte più buia e dolorosa”.

Questo non significa giustificare o assolvere; significa riconoscere che il problema è più complesso di quanto spesso si voglia ammettere. La mafia non si combatte solo con le manette e le sentenze; si combatte anche cercando di capire le ragioni profonde che l’hanno generata e che continuano ad alimentarla.

 I giovani e il cambiamento

Negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Le nuove generazioni di siciliani sono cresciute in un contesto diverso, hanno avuto accesso all’istruzione e alle informazioni, hanno visto con i propri occhi gli effetti devastanti della violenza mafiosa. Molti di loro hanno scelto la strada della legalità e dell’impegno civile.

Il fenomeno delle “aziende confiscate” gestite da cooperative di giovani è emblematico di questo cambiamento. Come ha scritto Roberto Saviano: “Questi ragazzi stanno dimostrando che si può essere siciliani senza essere mafiosi, che si può amare la propria terra combattendo chi la deturpa”.

Ma sarebbe ingenuo pensare che il problema sia risolto. La mafia si è evoluta, è diventata più sottile, meno visibile ma non meno pericolosa. E soprattutto, permangono ancora quelle condizioni culturali e sociali che in passato l’hanno alimentata.

Il ruolo della cultura

Un ruolo fondamentale nella lotta alla mentalità mafiosa lo gioca la cultura. Non è un caso che molti dei più importanti scrittori siciliani abbiano dedicato pagine memorabili a questo tema. La letteratura ha il potere di svelare le ipocrisie, di smascherare le false coscienze, di costringere a guardare in faccia la realtà anche quando fa male.

Peppino Impastato, prima di essere ucciso dalla mafia, aveva capito l’importanza della parola come arma di lotta. Le sue trasmissioni radiofoniche erano un modo per rompere il muro dell’omertà, per costringere la gente a prendere posizione. “Se si insegna a un bambino che fare il prepotente è sbagliato, quel bambino non diventerà mai un mafioso”, diceva.

 La sfida del presente

Oggi la Sicilia si trova di fronte a una sfida cruciale: riuscire a conciliare l’amore per le proprie tradizioni con il rifiuto di quelle tradizioni che sono negative e distruttive. È un processo difficile e doloroso, che richiede onestà intellettuale e coraggio morale.

Il rapporto con la mafia è il banco di prova di questa capacità di autocritica. Solo quando i siciliani riusciranno a guardare questo fenomeno senza indulgenze e senza giustificazioni, solo quando smetteranno di considerarlo un male necessario o un’inevitabile conseguenza della storia, solo allora potranno davvero liberarsene.

Come ha scritto Umberto Santino, uno dei più importanti studiosi del fenomeno mafioso: “La mafia si sconfigge non solo con le leggi e con la polizia, ma soprattutto cambiando la mentalità delle persone. E questo è un lavoro lungo e difficile, che deve coinvolgere tutti: scuola, famiglia, Chiesa, intellettuali”.

La strada è ancora lunga, ma i segnali di cambiamento ci sono. La Sicilia di oggi non è più quella descritta da Sciascia o da Consolo. È un’isola che sta imparando a fare i conti con il proprio passato senza esserne prigioniera, che sta cercando di costruire un futuro diverso basato sulla legalità e sulla giustizia.

Il contraddittorio rapporto tra i siciliani e la mafia non è ancora risolto, forse non lo sarà mai completamente. Ma l’importante è che questo rapporto sia finalmente uscito dall’ambiguità e dal silenzio, che sia diventato oggetto di discussione pubblica e di riflessione collettiva. È già un primo, importante passo verso la liberazione.