In difesa dei social. Le nostre apaticità e le carenze dei legislatori

Ogni giorno siamo bersaglio di presunte fake news o opinioni “destabilizzanti” che in tanti denunciano e che continuano ad imperversare sui social.

I social moderano troppo o non abbastanza? In ogni caso, mai come vorremmo. Ma al di là delle carenze – reali – delle grandi piattaforme, della loro incapacità di gestire i mostri che loro stessi hanno generato, quanto accade dovrebbe indurci a riflettere sul nostro ruolo, di utenti e di legislatori. Chi scrive sui social e non lo fa come (secondo noi) dovrebbe è sempre l’altro; quello la cui libertà di espressione è in pericolo, siamo sempre noi.

E nonostante le leggi che “inquadrano” o “regolano” quanto si scrive online (leggi che sono le stesse per qualunque tipo di comunicazione), lo Stato ha in gran parte abbandonato l’idea stessa di arbitrare ciò che può o non può essere detto sui social, lasciando/delegando che siano le grandi piattaforme digitali a prendersi cura di fare queste difficili scelte.
Effetti collaterali prevedibili
In pratica sono Facebook e Twitter ad essere responsabili della definizione della giurisprudenza contro l’odio online. Sono i loro moderatori che, in poche decine di secondi, devono decidere se un testo è un appello all’odio o l’espressione legittima di un’opinione. Lo Stato ha delegato complesse attività legali a “lavoratori dipendenti” spesso sottopagati e – peggio – a sistemi automatizzati.
E come il nostro sistema giudiziario non è in grado di far fronte a centinaia di migliaia di denunce quotidiane, anche i moderatori umani di queste piattaforme non possono affrontare ogni caso individualmente. La stragrande maggioranza della moderazione di Facebook o Twitter oggi è fatta da algoritmi che determinano, a volte anche prima che un messaggio sia stato letto da un essere umano, se un contenuto ha un legame con il terrorismo o sia un insulto.

Di conseguenza paghiamo anche gli errori e le approssimazioni di questi strumenti necessariamente imperfetti. Che hanno effetti collaterali molto prevedibili. Fanno notizia solo i casi legati a situazioni e persone conosciute, ma la cancellazione e la “riabilitazione” di vari account è all’ordine del giorno.
Internet non è un Far West anonimo
Nonostante tutte le critiche che si possono fare, esiste un punto di principio su cui è difficile contraddire Mark Zuckeberg, il capo di Facebook: non spetta a una società privata determinare cosa può o non può essere scritto su un social network. Lo ha ripetuto lunedì scorso 17 febbraio a Bruxelles, quando ha incontrato diversi commissari europei e ha rapidamente delineato la sua visione di un nuovo framework per aziende come la sua e la loro responsabilità per i contenuti che ospitano.
Le regole stabilite dalle reti stesse non possono sostituire la legge. Ma la buona legge è anche la legge applicabile. Non è sufficiente dichiarare che un contenuto è illegale perché scompaia magicamente da Internet, senza conseguenze per altri contenuti “legittimi”.
Parte dei problemi di moderazione che vediamo sono anche il risultato diretto delle richieste che abbiamo fatto alle aziende che gestiscono i social, alle quali, paradossalmente, affidiamo sempre più poteri – quasi regali – mentre critichiamo il fatto che si mettono al di sopra delle leggi.
Ma l’aspetto politico è centrale: presentando i social come “spazi di illegalità”, dove scorrono solo “fiumi di fango” che sarebbe necessario “regolamentare”, i legislatori danno l’impressione di agire, pur continuando a non fare nulla di concreto. E siccome i “fiumi di fango” sono sempre pubblicati dall’altro, mai da noi, è facile avere consenso su queste dichiarazioni semplicistiche.
Quando si va a fondo degli scandali che emergono tramite Internet, si scopre sempre che responsabile non è il mezzo, cioè che Internet non è il Far West che molti critici amano descrivere.
Allo stato dei fatti, andare oltre queste critiche implicherebbe seguire l’esempio dei regimi autoritari che, tra arbitrio della moderazione e libertà di espressione, hanno risolutamente deciso per il primo. Nonostante tutte le loro carenze, i social “aperti” rimangono un segno di buona salute democratica. Segnalare i loro abusi è una cosa. Voler controllare tutte le forme di espressione è un’altra.
Il testimone, ovviamente, passa al legislatore. Nei confronti del quale è bene che ognuno di noi utenti di questi servizi, ci si relazioni raccontando e denunciando sempre le nostre esperienze e le nostre aspettative. Essere “apatici”, anche se non esserlo può sembrare faticoso, è solo rendere più faticose e precarie le nostre libertà.

Vincenzo Donvito, presidente Aduc