Il pensiero al confino

Le crisi aiutano a pensare? Certo, se si considera la quantità di dibattiti, documenti e analisi dedicati al coronavirus ed ai suoi effetti sociali, politici, economici e umani pubblicati da un fior fiore di esperti, di intellettuali. In Italia, in Europa, nel mondo. Riflessioni rilevanti, intelligenti, demenziali. Di tutto e di più.

 

Di fronte a un fenomeno senza precedenti, ci saremmo potuti aspettare interrogativi, paradossi nati da una realtà sorprendente, nuove domande. In molti casi, invece, si manifesta il fenomeno opposto. Molti intellettuali e politici vedono la crisi globale come una eclatante e manifesta conferma di ciò che avevano ed hanno sempre detto. E c’è anche del comico. Per i sovranisti il coronavirus diventa un fenomeno che marca la necessità di maggiore sovranità; per i filoeuropei occorre maggiore Europa; per gli ecologisti c’è bisogno di politiche ed iniziative più ecologiche; per i socialisti occorre più socialismo; per i nazionalisti più nazione; per i modernisti siamo in presenza di contraccolpi anti-modernismo e quindi serve maggiore modernità; per i riformisti più riforme; per i conservatori più conservazione: etc. Come se il confinamento della popolazione si estendesse anche a dottrine filosofiche o politiche, ciascuna racchiusa tra le proprie quattro mura, ribadendo
le proprie certezze. Questo, ovviamente, genera alcune delusioni. Distraenti rispetto alla centralità della quotidianità.

Dogmatismo
Politici come Matteo Salvini o Giorgia Meloni, con al seguito un certo numero di sovranisti intellettuali, deducono dalla pandemia un evidente fallimento dell’Europa. Che in parte è vero: l’Unione Europea non ha brillato molto in termini di unità o energia durante la crisi… ma, per l’appunto, in parte; e quindi non si può parlare di fallimento se si considera l’altra parte. Prima di tutto è curioso che i sovranisti deplorino l’assenza di un’Europa che di solito denunciano come troppo presente. Nei trattati, le questioni sanitarie sono in gran parte responsabilità degli Stati, non di Commissione o Parlamento. I sovranisti dovrebbero quindi rallegrarsi di questi limiti e non lamentarsi dell’assenza di un potere sovranazionale che criticano ripetutamente. E si dimenticano di notare che è un’entità sovranazionale e non nazionale, la Banca centrale europea (BCE), che ha reagito più rapidamente, rinunciando ai suoi crediti giganteschi permettendo agli Stati nazionali di
affrontare la difficile situazione.
I filoeuropei, nel loro fervore internazionalista, hanno denunciato qualsiasi tentazione di chiudere i confini, ma solo fino a quando l’Europa stessa ha iniziato a bloccare i suoi confini esterni e alcuni Stati europei, come la Germania, fare altrettanto sotto l’imperativo della necessità. Sembra che abbiano dimenticato che qualsiasi regola merita eccezioni in caso di emergenza, e il dogmatismo filo-europeo si è messo dalla parte del torto, così come l’altrettanto dogmatismo inverso.

Mezzi tecnici moderni e medici
Molti mettono in dubbio la globalizzazione, che presenta certamente diverse carenze, in particolare quella di facilitare la circolazione del virus a causa dell’intensità degli scambi. Ma renderla la causa determinante della crisi… ce ne corre. Se così fosse, le epidemie dei tempi antichi, quando la globalizzazione era minore, avrebbero dovuto essere meno dannose. Ovviamente è vero il contrario: le epidemie erano molto più mortali ai vecchi tempi (senza andare indietro fino alla peste nera del 1348, basti ricordare l’influenza spagnola del 1918, che uccise tra 20 e 50 milioni di persone). E questo semplicemente perché la globalizzazione va di pari passo con il progresso scientifico e, per esempio, ha consentito che Paesi un tempo molto poveri, come Cina e Corea, oggi abbiamo moderni mezzi tecnici e medici che consentono loro di combattere più efficacemente.

Riflessione
Poi ci sono quelli che se la prendono con la “standardizzazione” del mondo, con le persone che si muovono di continuo e a cui oppongono la saggezza di coloro che sanno stare a casa propria. Ma questa “standardizzazione”… dov’è? Contro il virus le nazioni mettono in essere politiche più disparate: confinamento totale in Italia o Spagna, confinamento di una singola regione in Cina, uso di test a larga scala e intelligenza artificiale in Corea del Sud, nessun confinamento in Svezia, etc. Chiaramente, la cultura di ogni singolo Paese ha un ruolo importante in questi diversi approcci: la diversità si manifesta in un modo o in un altro a seconda che siamo una nazione cattolica, protestante, confuciana, liberale o autoritaria. La globalizzazione sembra che non standardizzi le culture, ma le colleghi fra loro, e questo è diverso da quello che sostengono coloro che perorano “ognuno a casa propria”.
Standardizzazione, inoltre, che porta a denunciare il turismo di massa. Ma dovremmo incolpare le persone dei Paesi emergenti perché anche loro vogliono scoprire il mondo come abbiamo fatto e continuiamo a fare noi dei Paesi emersi? Ovviamente dobbiamo riflettere e trovare soluzioni contro gli effetti dannosi del turismo di massa, il cosiddetto overtourism. Ma dovremmo per questo tornare al turismo aristocratico e borghese dei vecchi tempi, quando i viaggi erano riservati ad una piccola élite? I “bei tempi” in cui i lavoratori non avevano le ferie pagate e si accontentavano di passare la domenica nelle gite fuori porta? Suvvia….
Un approccio, questo contro la “standardizzazione”, che porta, alla fin fine, a dire che “prima si stava meglio”. Ma… prima quando? Quando tre quarti dell’umanità vivevano in miseria e povertà? Quando gli Stati nazionali trascorrevano gran parte del loro tempo a fare la guerra? Quando la medicina era impotente contro la maggior parte delle piaghe microbiche? Bah…

In ultima analisi, forse sarebbe necessario attenersi ad una semplice riflessione: prima di trarre insegnamenti definitivi dalla crisi del coronavirus, con enormi energie dedicate a prefigurare scenari del futuro in un contesto in cui nessuno sa come e quanto durerà e quando finirà…. attendere fino alla fine o poco prima che finisca (1).

NOTA
1 – Ho letto oggi una notizia della Iata, l’associazione che riunisce le compagnie aeree mondiali, che, con dovizia di percentuali su base trimestrale, e altrettante indicazioni dei miliardi che verranno ricavati periodo per periodo, fissa negli ultimi tre mesi di quest’anno il periodo per l’inizio del ritorno al business. Questo in un contesto in cui (a parte la Cina ammesso che non venga fuori un altro focolaio) tutto il mondo (Europa, Asia, Americhe, Oceania e la “bomba” Africa) sono ancora ai “primi passi” della lotta contro il coronavirus e stanno ancora cercando di capire se il metodo che adottano funzioni o meno. E mi sono domandato: ma cosa rappresentano questi numeri della Iata? La conseguenza economica del pensiero al confino che ho osservato? Il naufrago che, pur non vedendo nulla all’orizzonte, invece di darsi da fare per prendere con le mani un pesce per sopravvivere, fa progetti per quando toccherà terra?
https://www.ttgitalia.com/stories/trasporti/159999_voli_le_ipotesi_della_iata_ecco_quando_si_ripartir

Vincenzo Donvito, presidente Aduc